Faziosi anche quando si tratta di cultura, da italiani è sempre difficile tirare le somme della Mostra d'Arte Cinematografica di Venezia, punto di ritrovo e discussione così centrale nel nostro panorama, ma sempre meno a livello internazionale. Se in quest'ultimo periodo il Festival, sotto il lungo protettorato mülleriano, ha lottato contro il crescente predominio di Toronto costruendo di anno in anno rassegne monstre, capaci di inglobare facce diverse del cinema del nuovo millennio, la scelta del neo direttore Alberto Barbera sta in un'operazione contraria e temeraria: diminuire drasticamente la quantità di opere con l'auspicio di migliorarne la qualità, ma soprattutto di colmare il vuoto distributivo italiano, Paese in cui le migliori scoperte delle edizioni precedenti (da Wuthering Heights a Meek's Cutoff, da Attenberg a Cut) sono rimaste invisibili pur tornando a casa con premi e il plauso della critica.
 
Lasciando da parte il primo timido passo verso la costituzione di un mercato (di fatto ancora assente sul Lido), Venezia 69 si è sforzato di presentare a una serie di distributori, più o meno illuminati, i film selezionati nei due concorsi ufficiali, e per svolgere questa operazione ha trasformato  considerevolmente Orizzonti, allontanandola dai nuovi territori inaugurati proprio da Barbera durante la precedente direzione per avvicinarla a Un Certain Regard di Cannes, vetrina per lungometraggi di finzione dal budget o dalle ambizioni artistiche minori rispetto alla competizione principale. Da questa decisione conseguono almeno due riflessioni. La prima: la buona risposta da parte della distribuzione italiana nell'acquisto dei film presentati significa un risveglio dal torpore degli ultimi anni o, piuttosto, il preoccupante segnale di una selezione che si abbassa alla soglia del gradimento imposto dal cinema medio d'autore? La seconda: può un Festival come Venezia privarsi dello spazio dedicato al cinema di ricerca rappresentato da Orizzonti quando negli anni non è mai riuscita a mettere in piedi una sezione al livello della Quinzaine des realisateurs dove scoprire futuri talenti e individuare nuove tendenze (di certo non si può pensare che a svolgere tale ruolo in modo programmatico siano le Giornate degli autori)?
 
 
In questo senso è da leggere il Concorso, sorretto da tanti nomi di prestigio e da deboli tentativi di scoperta che sarebbero dovuti essere la cartina al tornasole della selezione. Se, come dicono alcuni, Venezia 69 si ricorderà per i fischi a To the Wonder di Terrence Malick, la delusione non è tanto quella per l'eventuale cedimento di un autore creduto infallibile ma per l'evidente distanza tra la cinefilia italiana e quella internazionale, più aperta ai cambiamenti in atto. Con il suo ultimo film, il regista texano confeziona un instant-movie, cristallizzazione teorica del percorso della sua estetica, che richiede – nelle sue piroette e nelle sue cadute – un ruolo attivo dello spettatore, chiamato a colmare i vuoti di tre storie d'amore ridotte alla loro essenza: fantasmi in una terra bruciata, ombre nella luce crepuscolare del tramonto, spettri digitali nel sorprendente inizio del film, che denuncia la propria natura di “cinema privato” con un chiaro intento metatestuale. Unico provocatore, con il suo cinema dogmatico e imperfetto, Malick è il capofila di una selezione americana compatta e laureata: il revenant Brian De Palma (ormai superato dai tempi sul suo stesso campo), il giovane talento Bahrani (deludente e solo apparentemente cinico), l'enfant terrible dell'indie-chic Harmony Korine (vera sorpresa del festival con il ludico – ma nemmeno più di tanto – Spring Breakers) e il Leone d'argento all'ex enfant prodige Paul Thomas Anderson, che con The Master si conferma fautore di un cinema sapientemente sotto controllo, ma distante da ogni pulsione vitale.
 
Cinema di sceneggiatura è sicuramente quello prediletto da una selezione che, guardando all'Europa, a parte gli slanci di Assayas e Seidl, ha preferito i toni accomodanti di Giannoli e Sarmiento. La cifra stilistica prescelta, laddove emerge, non lascia ben sperare: le sterili estetizzazioni di Izmena, i leziosi piani fissi di La cinquième saison e i pirotecnici movimenti di macchina di È stato il figlio sono segno di una idea di cinema lontana dalle frontiere della rivoluzione permanente. Forse la timidezza da primo mandato ha impedito scelte più coraggiose, come dimostra chiaramente la selezione orientale: pur vincendo il Leone d'Oro con Pieta, Kim Ki-duk si dimostra ormai prigioniero di un cinema fatto ad uso e consumo di un pubblico (e di una critica) che l'ha scoperto tardi; e sorprende che al di là dei soliti noti Takeshi Kitano e Brillante Mendoza non si sia riusciti a scovare un nome su cui scommettere. Unica, piccola sorpresa, in questo senso, è l'israeliano Fill the Void: opera prima, forse minore ma coraggiosa, girata all'interno della comunità ebrea ortodossa da una regista con semplici ma implacabili idee visive.
 
 
Anche Orizzonti è specchio della strada intrapresa dal nuovo comitato di selezione, volto a privilegiare film di finzione a basso budget, che difficilmente possono ambire a una promozione nella sezione principale. È il caso dei sorprendenti italiani in gara (in particolar modo L'intervallo e Bellas Mariposas, di cui parliamo approfonditamente nello speciale di questo numero), come di altre opere riuscite e coraggiose, tra cui si segnala il primo film realizzato da una donna in Arabia Saudita, Wadjda, delicata storia di formazione di una bambina nelle strade di Riyadh, e il secondo lungometraggio dell'italiano all'estero Roberto Minervini, Low Tide, storia di un'adolescenza difficile ripresa con una camera a mano tipica dei fratelli Dardenne e non a caso edito dalla loro montatrice.
 
Il risultato complessivo appare comunque piuttosto uniforme, castrandosi dall'intraprendere percorsi magari dissonanti ma più alternativi. La questione si solleva anche in luce del responso della giuria che in una competizione di 17 film di finzione e un solo documentario, sceglie di premiare proprio quest'ultimo, Tre sorelle del cinese Wang Bing, e tra le finzioni predilige la più estetizzante e languida, Tango Libre di Frédéric Fonteyne. La seconda scelta sembra opposta alla prima, segnando una dicotomia difficilmente conciliabile tra istanze radicali e cinema di superficie. Il vero corpo estraneo della selezione è Leones dell'argentina Jazmin Lòpez, opera prima sviluppata grazie al Torino Film Lab, visivamente molto potente, sul disagio di una generazione raccontata seguendo le estetiche del nuovo cinema.
 
 
A confermare l'idea di una selezione generalmente propensa ad assecondare lo standard imposto dai distributori italiani, c'è la “scomparsa” dei documentari, relegati in una sezione non competitiva in cui sono stati presentati film ancora dominati dalla dittatura del referente (dai medici in Africa di Mazzacurati agli immigrati di Vicari). Vero perdente è stato il bel lungometraggio di Daniele Incalcaterra e Fausta Quattrini, El impenetrable, a cui è toccata la sezione magmatica fuori-concorso: viaggio personale e politico in una terra inespugnabile, eppure privata e orribilmente familiare. Il regista imbastisce il film attorno alla sua volontà di liberarsi dell'eredità paterna, un appezzamento di terreno in Paraguay, proprio nel momento in cui sta diventando a sua volta padre. Il viaggio, iniziato quasi come un atto di liberazione dal colonialismo e semplicistica restituzione della terra ai nativi, si scontra con la complessità di un sistema giudiziario capillare che tende a sostituirsi al reale. Solo come proprietario terriero avrà il permesso di accedere con una telecamera al cospetto dei suoi “vicini”, uomini guidati dalle leggi economiche di profitto. Precipitato in un'atmosfera kafkiana, perfettamente trovata anche come chiave visiva, il regista mantiene le fila della sua eredità così come destreggia quelle di un film sempre sottilmente ironico e fortemente interlocutorio. Per scoprire alla fine che l'impegno sarà di tutt'altro tipo: forse meno gratuito, sicuramente più maturo e civile, volto a rifondare piccole “Arcadie” in giro per il Pianeta.
 
Un film girato da un italiano con lo sguardo internazionale che avrebbe meritato un Festival capace, allo stesso modo, di superare le barriere nazionali per sostenere la programmabilità in sala di opere meno scontate, più coraggiosamente indipendenti.