“Non dimentichi che ogni tedesco conosce la saga dei Nibelunghi
così come ogni bambino negli Stati Uniti conosce la fine di Custer.”
Fritz Lang a Peter Bogdanovich
 
Se è vero che Tarantino è un regista pienamente postmoderno, quasi esemplare nel suo approccio al cinema, è altrettanto vero che nei suoi film si attua una complessa e reticolare messa in discussione del cinema così come si è stratificato nelle gerarchie che ne hanno di fatto costruito la storia. In altre parole, il cinema di Tarantino non è un cinema postmoderno in cui tutto si fa superficie, e tutto assurge a un medesimo livello dove si incontrano e mescolano il low e l’high, bensì un luogo di selezione e risistemazione estetica di tutto ciò che è passato sugli schermi in questi ultimi centoventi anni. In ciò che Tarantino include ed esclude, insomma, si manifesta un’esplicita volontà di riscrittura ideologico-storica, prima ancora che di messa in forma.
 
Ciò è particolarmente chiaro in un film come Django Unchained, dove Tarantino riorganizza il materiale grezzo di cui solitamente compone il suo cinema in maniera più fluida e disciplinata, in un racconto che non appare costruito per sequenze bruscamente accostate come in Inglourious Basterds, enormemente dilatate come in Death Proof e nemmeno ricorrendo al solito sfasamento temporale di Reservoir Dogs, Pulp Fiction o Kill Bill. Questa apparente adesione a un regime più classico del racconto cinematografico è quello che ha fatto storcere il naso a qualche recensore, che ha letto Django Unchained come una battuta d’arresto nella corsa forsennata di Tarantino alla scomposizione e ricomposizione del cinema, un arrendersi alle convenzioni, seppure espanse e piegate al proprio gusto, al proprio stile, ai propri temi e alle proprie idiosincrasie. A un’analisi meno superficiale appare evidente come Django Unchained rappresenti invece un ulteriore passo avanti del cinema di Tarantino, in linea con la progressione spiazzante ma costante delle opere precedenti.
 
Molto si è scritto del finale di Inglourious Basterds, del passo indietro della Storia di fronte alla potenza dell’orchestrazione tarantiniana, in favore di una sorta di indipendenza del cinema rispetto al fatto, al vero, al consolidato. In Django Unchained, questa presa di posizione fieramente teorica subisce una sorta di ribaltamento. Contrariamente a ciò che si sarebbe potuto immaginare dopo Inglourious Basterds, la Storia ritorna, bensì non come punto di partenza (riscrivibile) dell’opera ma come elemento costitutivo di un immaginario, snodo fattuale diventato retorico nei decenni di cinema americano a cui Tarantino guarda nella costruzione di questo suo film. Django Unchained è sì un western, ma il regista interroga il genere proprio in virtù del suo essere depositario privilegiato non solo della visione di un mondo, ma anche di essere stato uno dei luoghi più caratterizzati e caratterizzanti attraverso cui la Storia è stata rielaborata, trasfigurata e trasformata in mito. In questo senso, rileggere il western e le sue figure attraverso la lente dello spaghetti western è, già di per sé, una scelta che la dice lunga sugli obiettivi di Tarantino: per essere un’opera che, stando a ciò che sembra dirci il titolo, dovrebbe presentarsi come una rilettura di un corpus di cui Tarantino è uno dei principali estimatori e divulgatori, Django Unchained finisce per fare invece sostanzialmente a meno di quell’universo omaggiato, oltre che dal titolo, dalla presenza di Franco Nero e di qualche altro sporadico riferimento. L’uso dello spaghetti-western in Django Unchained, infatti, riguarda più una questione di metodo che di composizione narrativo-formale. Come quel genere, infatti, Tarantino mina alla radice quella che ritiene essere l’ideologia colonialista del genere western (specie di marca fordiana: Ford è un regista che egli ha dichiarato più volte di non amare) attraverso la chiave invece esplicitiamente anarchica e postsessantottista del western italiano.
 
 
Da storia di una nazione, il genere diventa quindi utile, a un secondo livello, come chiave per mettere a nudo la storia culturale di una nazione, insistendo soprattutto su un utilizzo straniante della colonna sonora che, sola, basterebbe a ricostruire la percezione e poi l’autoaffermazione della cultura afroamericana negli Stati Uniti. Se la narrazione sembra armonizzarsi, il conflitto testuale tra film e brani musicali è invece, in Django Unchained, profondamente accentuato, e rende ancora più fertile l’accrescimento significante delle citazioni, come magistralmente ricostruito da Leonardo Persia. Come nota Persia, così come il cinema contemporaneo, di cui Tarantino si fa alfiere, ha stratificato in sé ogni tipo di esperienza filmica passata e continua a rimasticare vari tipi di testualità (che si riscoprono, in alcuni casi, ancora più fertili che in partenza), così l’America è una nazione nata da un miscuglio di razze, etnie e culture, annullate da un paradosso culturale imperialista che ha avuto nel cinema uno dei suoi principali divulgatori. La tematica razziale messa a nudo con un urgenza che non ci si aspettava da Tarantino diventa quindi Storia, la Storia che va raccontata “nel modo giusto”, e che si lega a doppio filo a un’interrogazione profonda della conformazione emotiva e di quella linguistica del film.
 
La maestosa componente metafilmica di Django Unchained, perfettamente in linea con quella di Inglourious Basterds, è in larga parte risolta nel personaggio del dottor King Schultz, demiurgo ciarliero che continuamente fa il punto e pianifica le mosse successive, che rimodella il mito antico, la fiaba popolare, nella forma spettacolare del Novecento, fin nelle sue più recondite derivazioni di sottogenere e serie Z. La visione politico/ideologica di Tarantino passa anch’essa tutta attraverso questo personaggio, sorta di alter ego estremamente consapevole dell’autore che sceglie però la morte scendendo nel terreno di gioco che lui stesso ha tessuto e organizzato nonostante lo scacco del prefinale, proprio in virtù di una presa di coscienza emotiva che confligge prepotentemente con la sterilità bidimensionale che si vorrebbe propria di un tipo di cultura postmoderna come quella espressa dai film di Tarantino. Per la seconda volta (dopo Inglourious Basterds, ovviamente) il regista empatizza pienamente con i suoi personaggi, al punto di portare il “regista” interno al testo a fare altrettanto, sposando una causa (quella antirazzista e antischiavista), che vede in Calvin J. Candie il suo più spregevole oppositore e trovando, una volta sceso dalla sua postazione privilegiata e intoccabile, una morte – è importante sottolinearlo – che accoglie in piena cognizione. Al di fuori del tessuto del film vi è quindi, come detto, un’urgenza morale inedita fino a Death Proof, dove anzi il feticismo grandiosamente mortifero era portato all’estremo (e, quello sì, capolavoro incompreso dai più, in qualche modo chiudeva inevitabilmente una fase, passando in rassegna e stilizzando/ingigantendo tutte le caratteristiche delle opere precedenti). Con Inglourious Basterds, e con la scoperta di una Storia, di una verità al di fuori dell’autosufficienza finzionale in cui galleggiava fino a quel momento il cinema tarantiniano, i personaggi del regista pretendono l’attivazione di meccanismi d’identificazione e complicità emozionale, al punto da essere risarciti a dispetto del reale svolgersi degli avvenimenti.
 
 
Ma in Django Unchained c’è molto di più. È strano come non appaia evidente che Tarantino non rilegge solo il genere western, ma guarda alla storia del cinema in maniera non dissimile da come guardava alla Storia nel già citato finale di Inglourious Basterds. Facendo ciò, il regista si libera per prima cosa del grande padre del cinema americano, David Wark Griffith, unendo alla revisione politicamente corretta del suo The Birth of a Nation, luogo simbolico di gemmazione di tutto il cinema a venire, anche una presa di posizione radicale nei confronti del linguaggio. La scena dei buchi nei sacchetti non è semplice parodia (“brooksiana”, ha giustamente scritto qualcuno) ma un momento di altissima e finissima rimessa in discussione linguistica: al montaggio alternato dell’implacabile corsa dei cavalieri del Klan del film di Griffith, si oppone qui un brusco inceppamento, un flashback straniante, che parodizza quindi non solo le figure eroiche dei cavalieri del 1915 ma anche e soprattutto l’intuizione (il montaggio alternato) che sta alla base del cinema americano. L’approccio politico del regista non può quindi essere disgiunto da una riflessione di carattere teorico, così come per lui le colpe ideologiche di quel cinema non possono essere separate dall’apparato retorico che le sostiene. Prospettiva naturalmente discutibile, ma affascinante nella sua risolutezza.
 
Le polemiche che però hanno accompagnato il film sono state rivolte prevalentemente ad una presunta scorrettezza politica, soprattutto per ciò che riguarda la figura di Stephen, l’house slave interpretato da Samuel L. Jackson, “versione da incubo della Mamie di Gone With the Wind”, come scrive Giulia D’Agnolo Vallan. Ma è ovvio che a Tarantino non importi né la political correctness né l’incorrectness, e che il suo film superi in finezza l’approccio revisionista che ha caratterizzato molto western degli anni Sessanta e Settanta. Django Unchained mette quindi in crisi un modo di vedere il mondo e contemporaneamente un modo di raccontarlo, parla di un’America ancora intimamente razzista e fermamente ancorata agli stessi modi tranquillizzanti di raccontare, mostrare, rappresentare. Lo stesso ribaltamento dello stereotipo di Sigfrido passa, naturalmente, attraverso l’appropriazione della leggenda dei Nibelunghi fatta dal nazismo: all’interno della narrazione questo passaggio è ovviamente rimosso e la leggenda si presenta in tutta la sua trasparente purezza, ma Tarantino è interessato alla stratificazione culturale e all’alterazione ideologica dei simboli, che poi a sua volta ribalta verso la blaxploitation (il nome completo della moglie di Django è infatti Brunhilde Von Shaft). Così, il western stesso, luogo di mistificazione storica, viene utilizzato da Tarantino più che altro come figura retorica, sineddoche che rimanda non solo a Nascita di una nazione, ma anche a Via col vento, fino a farsi simbolo dell’intero cinema americano.
 
Eppure, l’ambizione di Tarantino non è ovviamente quella di proporre Django Unchained come chiusura definitiva di un modo di fare cinema “classico”, non è e non vuole essere punto di rifondazione, riformulazione di un linguaggio. Non sembra un caso che la casa di produzione fondata nel 1991 e chiamata A Band Apart in onore di Godard (punto di riferimento per Tarantino ormai evidentemente appannato, se non rimosso) oggi non esista più. La consapevolezza che il cinema non può essere reinventato porta a due inevitabili conclusioni: da un lato, ancora una volta Tarantino riafferma la piena indipendenza dei suoi mashup rispetto ai modelli citati, relegando una volta di più la citazione a semplice ammiccamento, e lavorando invece verso una densità che chiama in causa l’essenza stessa del modello, del suo portato estetico, storico e teorico anche nell’accostamento (talvolta nella deflagrazione) con altri paradigmi; dall’altro, questa fertilissima connessione di diversi referenti può finalmente accomodarsi, proprio in virtù della presa di coscienza della sostanziale immortalità del regime classico, su una serie di convenzioni accettate.
 
 
Django Unchained è, insomma, un film che a dispetto della violenza, del furore indignato e di quello giocoso che mette in scena, si presenta come un’opera composta, quasi serena, perché rappresenta la conquista di una classicità e di un’armonia che si può permettere di manifestarsi anche secondo schemi a cui Tarantino ha sempre guardato con sospetto. Si pensi alle sequenze a episodi che marcano il passare del tempo, sostanzialmente inedite nel corpus rapsodico e singhiozzante che il regista americano ha messo insieme finora: nelle montagne innevate attraversate dai protagonisti si respira il cinema western degli anni Cinquanta, il cinema americano per eccellenza, e non l’inverno di Corbucci e Trintignant. Tarantino ribalta Griffith, rimuove Ford, certamente. Ma il respiro che dona al suo film, anche se per pochi attimi, non può prescindere da loro. La fuga del figlio più ribelle del cinema americano termina a Candieland, dove il protagonista e il suo cavallo salutano il pubblico come in un film di Tom Mix. Rivoluzionario e organico, come tutti i grandi registi hollywoodiani hanno saputo essere.
 
 
Django Unchained, regia di Quentin Tarantino, USA 2012, 165'.