Il cinema americano si è sempre nutrito di politica: sia della categoria stessa del «politico», sia dei simboli, degli eventi, delle regolarità e delle fuggitive contingenze di essa, anche intesa come professione. Più di altre cinematografie, inoltre, quella statunitense ha fatto del discorso pubblico una delle sue principali costanti: si fa del cinema per poter mettere in immagini la polis, per poterne parlare. Politici erano molti film di Griffith, politici erano i film di gangster, politico si è «evoluto» il western… l’America, in tutte le sue forme di "pubblicità", si è sempre raccontata e mostrata attraverso i suoi schermi.

In alcuni specifici tempi, il cinema d’oltreoceano ha tentato di affrontare gli avvenimenti correnti della storia, se non della cronaca, interna: si pensi ai film che mettevano in scena la depressione e il New Deal negli anni Trenta e Quaranta, ai film di propaganda bellica, ai dolenti film sul Vietnam, o ancora, alla moltitudine di pellicole sulla Guerra Fredda: critiche, ironiche, genuflesse, paranoiche, o semplicemente (ovvero accidentalmente) illustrative di quel "lungo momento". 
 
Ci sono stati periodi che hanno necessitato di una riflessione sulla politica ed altri nei quali essa tendeva ad emergere nelle forme della metafora, del non detto, o, al pari di un fiume carsico, ad affiorare qui e là, affidandosi a una battuta o ad un’inquadratura. Il bisogno di confrontarsi con la polis però, non è mai morto. Nemmeno, ovviamente, oggi. Il momento di crisi economica ha generato una serie di piccole crisi della vita politica e delle sue stesse categorie, al punto che ogni piega delle nostre esistenze sembra nascondere un male collettivo, o avere, per lo meno, una origine che scaturisca da fenomeni più ampi, o da una contrapposizione (di parti, di «classi», di attori su uno scacchiere, ecc.) che costituisce la natura stessa del politico. Nell’ultima stagione cinematografica, moltissimi film paiono proprio mettere in scena quest’occorrenza. Lo sfondo di una crisi economica (come vedremo, spesso rimossa) si trasforma nella esposizione di desideri, di decisioni forti, di riscossa, caparbietà, capacità straordinarie, che siano in grado di restituirci una identità. Tutto questo, mentre affondiamo nella costellazione delle piccole crisi, che sono la diretta schiatta dell’amara situazione economica, almeno in occidente.
 
C’è chi ha parlato della categoria del politico come dialettica, come contrapposizione costante tra amico e nemico. Opposizione che non deve necessariamente mutare, irreparabilmente, il conflitto in guerra, ma che vivifica costantemente l’arena della polis. I film politici, detto senza alcuna virgolettatura, dell’ultimo periodo, funzionano come epitome di questa regolarità costitutiva della politica. Zero Dark Thirty è il conflitto tra attori internazionali: lo Stato da una parte e una rete terroristica transnazionale dall’altra; Lincoln è la guerra civile: la lotta in cui fazioni un tempo unite da una qualche forma politica, si percepiscono vicendevolmente come illegittime; ma è anche il conflitto tutto interno ad un uomo costretto al ruolo di condottiero e che viene letteralmente consumato da quell’esperienza. Flight è l’estrema lotta di un uomo dalle capacità straordinarie con le sue debolezze, con l’alcool, con le menzogne e con la incapacità di governare la propria vita, contrariamente a quanto è invece in grado di fare con gli aerei di linea. 
 
Non ce ne occuperemo qui direttamente, ma anche Django Unchained si inserirebbe di diritto in questa tipologia di film che riconducono alle origini stesse della categoria del politico. Nel film di Tarantino, al centro di tutto, c’è la lotta contro la schiavitù, ma anche verso quella segregazione razziale che ha marchiato per troppo tempo il sud degli Stati Uniti. Ciò che però, ad avviso di chi scrive, rende il film di Tarantino paradossalmente poco credibile come opera veramente politica, è proprio la radicalizzazione ludica di tale opposizione, che se funziona dal punto di vista meramente cinematografico (verrebbe da dire cromatico), regge pochissimo non solo sul piano storico, ma anche teorico: chi vi ha voluto vedere echi di Franz Fanon, o della recente moda degli studi post-coloniali, è piuttosto fuori strada.
 
 
Il film politico sulla Guerra Civile e, come vedremo, non solo, è il Lincoln di Spielberg. L’opera risente di un certo didascalismo e di un desiderio forse eccessivo, di illustrare al meglio la condotta del presidente negli ultimi mesi della guerra. Certo, il film ha il coraggio di mostrare i mezzi illeciti con i quali i repubblicani sono giunti a far approvare al Parlamento il tredicesimo emendamento, ma forse, tutto ciò non basta: a questo Lincoln manca respiro e il punto di approdo di tutto, ossia la votazione dell’emendamento e il dopo, è inspiegabilmente vuoto. Il presidente assiste ai festeggiamenti celandosi allo spettatore dietro ad una tenda, a fianco del figlio: ecco, pare che tutto sia velato da una sovrabbondante pedagogia, che funziona come un pannello opacizzante. Non si sta semplicemente reclamando la spettacolarità da un regista che ci ha abituato ad essa, ma si lamenta una sottrazione che è, sfortunatamente, anche teorica e simbolica: il cinema classico ci ha dimostrato che si possono esprimere moltissime cose attraverso inquadrature apparentemente semplici ed un montaggio che serve solo a giustapporle; Rossellini ci ha provato, inoltre, che un film didattico su Luigi XIV, o su Socrate, può essere, nella sua secchezza, gravido di simboli, o di "sensi" della storia. A Lincoln pare proprio che manchi questa ricchezza: lo sceneggiatore del film, Tony Kushner, intellettuale e drammaturgo che ha scritto l’apprezzabile Angels in America, dà l’idea di non adattarsi a pieno al cinema spielberghiano. L’altro film sceneggiato per il regista di Cincinnati, ossia un’altra opera apertamente politica, Munich, risulta imbarazzante per il peccato opposto rispetto a Lincoln: l’eccesso barocco, la troppa carne al fuoco, il kitsch imperante, il simbolo ridondante. Va detto che la missione Mitzvah Elohim è tema più spinoso e difficile di un personaggio «musealizzato» come il presidente emancipatore ma, entrambe le volte, Kushner è caduto nel tranello: l’eccesso di sensi (e per lo più completamente falliti) nel primo caso, il libro di testo nel secondo. Va aggiunto, a livello meramente sociologico, che un film come questo si inserisce a pieno in quel clima che si è tratteggiato in apertura, di polverizzazione della crisi in una miriade di problematiche di ordine politico, le quali conducono ad una ricerca della identità e di una forza perdute, all’interno delle radici stesse del politico. Forse Obama non basta per la crisi che si sta vivendo e si vorrebbe Lincoln, colui che ha saputo condurre l’America fuori dalla guerra più lacerante (per identità ed unità) che si potesse immaginare, ma che ha anche dato speranza a quella popolazione nera la quale, per molti, non era nemmeno chiaro che fosse costituita di esseri umani. Forse si vorrebbe anche il Roosevelt indie di The Royal Weekend, che, ridendo e scherzando, ha risollevato l’economia statunitense dopo la depressione (con buona pace dei libertarian), ha poi in gran parte condotto la guerra contro Hitler e il Giappone imperiale, oltre ad aver convissuto con la poliomielite… non male. Certo, deve essere detto che, oggi, l’America pare risollevare lo sguardo dalle proprie ferite proprio grazie ad Obama; oltretutto, il fatto che, col nuovo mandato, si siano cambiati i vertici della politica estera e di difesa, si configura come un segnale di ripresa e di "ritorno nel mondo". 
 
 
Flight di Robert Zemeckis è il film che più di tutti riesce a rendere politico uno scontro che è tutto esistenziale e, peraltro, è anche l’unico che ha il coraggio di mostrarci qui e là, l’America della crisi, la quale si risolve, in questo caso, in sofferenze tutte individuali. Il protagonista, il pilota interpretato da Denzel Washington è un alcoolizzato, separato dalla moglie (e dal figlio), che si nasconde dietro continue menzogne e si trastulla con amanti occasionali. Tuttavia è un ottimo pilota, forse il migliore che esista: riesce infatti, da ubriaco, a condurre un atterraggio di emergenza con un aereo in avaria, salvando la vita alla quasi totalità dei passeggeri. La sua lotta sarà quella di reggere il confronto con quell’immagine pubblica che l’incidente gli ha conferito. Il film però, è anche una galleria di altre umanità malate e ai margini: il simpatico spacciatore interpretato da John Goodman, il brillante (e un po’ robotico) avvocato nero che deve difendere la compagnia aerea, la famiglia disastrata del protagonista e, su tutti, la bellissima ragazza devastata dalla miseria e dalla droga interpretata da Kelly Reilly. La frammentazione della crisi, i cui taglienti cocci hanno ferito tutti, in tale contesto, è quanto mai evidente; il politico, lo scontro potenziale, in questa realtà, è ormai anche costitutivo delle singole esistenze, che si trovano costantemente sotto assedio, in stato di eccezione permanente. Il pilota continua a mentire per convincersi di poter risolvere da solo la sua personale crisi; non ce la farà e, proprio perché, forse, è un uomo capace di cose straordinarie, dirà tutta la verità, solo di fronte alla commissione d’inchiesta sulla sciagura, che può tranquillamente farlo passare per il sobrio eroe che non è. È un eroe sbronzo e lo confessa.
     
 
Dei tre film, quello che convince di più nel suo discorso politico è Zero Dark Thirty di Kathryn Bigelow. Molte voci lo hanno bollato come "propaganda", come prima pellicola di finzione embedded, o peggio, come un’opera piuttosto conformista, che giustifica ex post la cosiddetta "dottrina Bush". Niente di più sbagliato, a cominciare dal mero dato che il film è quasi tutto ambientato durante la presidenza di Obama, la quale ha visto proseguire la lotta contro il terrorismo islamista, soprattutto tramite il mezzo delle covert operations. Lo scenario vasto in cui si inserisce la vicenda che il film sceglie di narrare e mostrare è quello di una guerra combattuta da uno Stato contro un’organizzazione terroristica. Ciò a cui lo spettatore assiste è però altro. È la lotta di Maya, la quale si svolge su due teatri. Il primo è quello, assai vasto, della guerra contro i nemici dell’apparato statuale del quale lei stessa è parte, funzionaria di uno dei suoi molteplici organi disaggregati; il secondo invece, si dipana negli interna corporis di quello Stato e di quell’organo, sempre più indifferente alla personale missione della donna, che è diventata, per il personaggio interpretato da Jessica Chastain, una ragione di vita. Chi ha ravvisato nella figura di Maya una personificazione dell’America come Nazione, verrebbe da dire come Comunità, sbrigliata dallo Stato cui tuttavia appartiene, ha probabilmente visto giusto, se non altro per i suggerimenti figurali presenti nello stesso film; senza inoltre voler necessariamente mettere sul conto il fatto che Maia fosse una dea nutrice, identificata spesso con la Madre Terra e che, nella religione di Roma, aveva anche a che fare col culto dei Lari difensori della città. Chi invece ha tracciato facili paralleli con l’Ethan Edwards di Sentieri selvaggi di John Ford, o con personaggi analoghi, è di nuovo fuori strada. Il parallelo cinematografico regge poco: Edwards rappresenta un mondo sconfitto e, nelle nuove comunità, di fatto, per lui non c’è posto. Maya invece, non è affatto portavoce di una sconfitta, ma della caparbietà e della testardaggine di una Nazione che, in un momento di estrema crisi, non dimentica una atavica ricerca della identità nella contrapposizione con un nemico, alle radici stesse del politico. A ricordarci che, se qualcosa di politico esiste davvero, è lì che giace: nello scontro, nel momento di eccezione il cui esito estremo può concretarsi nella guerra. Edwards voltava le spalle alla comunità che si (ri)costituiva per diventare società; Maya, invece, ci sta di fronte, fiera del suo risultato, forse (ma non lo sappiamo), con la gratitudine di quello Stato del quale è un fragile rametto, ma che ella ha avuto il coraggio di combattere, per affermare la preminenza del politico come categoria sulla politica come professione. 
 
Maya scoppia in lacrime perché finalmente può farlo: il politico ha costruito per lei una identità nuova, lo stato di eccezione è terminato e può iniziare il lutto per quelle voci che imploravano aiuto dalle Torri in fiamme e dagli aerei dirottati una lontana mattina di settembre. Un grande studioso di letteratura e storia intellettuale americana, Richard Slotkin, ha parlato, per ciò che riguarda la mitologia della frontiera, di "rigenerazione per mezzo della violenza". Questo film, al contrario, mette in immagini la "rigenerazione per mezzo della politica": la violenza, quando c’è, è solo una delle tante componenti afferenti alla categoria del politico nella sua nozione primaria di scontro potenziale e nemmeno, in realtà, ciò che caratterizza la guerra come sua continuazione con mezzi differenti. Essa è solo una delle molteplici sfaccettature del prisma di quella dialettica che costituisce le fondamenta del politico. Forse Maya piange perché non ha nessun altro con cui spartire la sua esperienza, forse lo fa perché non riconosce più una homeland per la cui sicurezza si è consumata, facendo venir meno quanto detto fino a poco fa a proposito di nuove identità e lutti maturati. Nondimeno, a chi scrive, sembra che l’interpretazione "rigenerante" sia più convincente; a chi pare implausibile, mi limito a sostenerne la piena legittimità nel contesto di un articolo sulla valenza della politica nei film attuali, specie considerando che viviamo in una cultura edificata su paratesti ermeneutici, da Quarto potere alla "mora del creditore", passando per Shakespeare.
 
 
Zero Dark Thirty, regia di Kathryn Bigelow, USA 2012, 157'.
Lincoln, regia di Steven Spielberg, USA 2012, 150'.
Flight, regia di Robert Zemeckis, USA 2012, 139'.