Come la maggior parte dei documentari su persone diagnosticate come folli, The Act of Killing solleva interrogativi sullo sfruttamento dei suoi soggetti. In particolare: è anche solo possibile sfruttare persone che deliberatamente e in certi casi allegramente ammettono di aver torturato, stuprato e ucciso una quantità indefinita di loro concittadini? E ancora: perché queste persone desiderano non solo parlare della loro colpa, ma anche prendere parte a un film che rimette in scena i loro crimini e li arruola come protagonisti?

Il fatto che Werner Herzog ed Errol Morris abbiano deciso a posteriori di diventari produttori del film fornisce qualche indizio su come provare a trattare il caso di The Act of Killing, che negli ultimi tempi si è offerto come una delle produzioni più scioccanti del cinema non fiction. Il caricaturista e cacciatore di scandali Morris deve essere stato toccato dal modo in cui il danese-americano Joshua Oppenheimer (che ha lavorato con Christine Cynn, da tempo sua collaboratrice, e con un collettivo di tecnici e comparse locali raccolti sotto il nome di “Anonymous”) rivela l’insondabile bizzarria e ferocia di questi ex paramilitari indonesiani appassiti mettendoli semplicemente di fronte a una videocamera. Herzog deve aver apprezzato la verità estatica e le modalità, decisamente vicine a quelli di Little Dieter, con cui le ricostruzioni – molte delle quali sono progettate per assomigliare ai film di genere hollywoodiani di cui i massacratori andavano pazzi da giovani – al tempo stesso stilizzano e incorporano la realtà dei loro referenti storici, le purghe che a metà degli anni Sessanta eliminarono comunisti, Cinesi e intellettuali, facendo un milione di vittime durante la dittatura militare appoggiata dagli Stati Uniti.
 
Si può però affermare senza problemi che nessuno di questi due registi ha mai realizzato un film tanto irritante. E del resto nessuno dei due ha mai affrontato un Paese la cui storia moderna è stata scritta dai vincitori col sangue e alla luce del giorno. A tratti The Act of Killing sembra svolgersi in un universo parallelo, fantascientifico, dove dei personaggi che si autodefiniscono gangster vengono celebrati nei talk how come eroi della civiltà e custodi della patria, e il loro pubblico  – oltre che i membri della loro famiglia – non battono ciglio. (Mentre i parenti delle vittime sono troppo terrorizzati per dire alcunché). L’effetto scombussolante è aumentato dalle ricostruzioni, che sono state scritte, dirette e interpretate dagli stessi protagonisti del film, come monumenti che essi stessi si sono eretti a dimostrazione della loro rettitudine e spietatezza. Intanto Oppenheimer dimostra pazienza, astuzia, opportunismo e, soprattutto, una curiosità col pelo sullo stomaco alle varie tappe in cui lo conducono i capricci artistici e le memorie ad alta definizione dei suoi soggetti. Le patologie esibite sono a dir poco uniche. Ripensando a tutti i film dedicati agli assassini (e agli assassini di massa), è difficile ricordarne uno in cui i partecipanti se la spassano liberamente girando per ristoranti o guidando la loro spider. Di solito gli omicidi vengono ripresi nel chiuso di una cella, magari con le loro fattezze e la loro voce camuffata. Oppenheimer afferma che c’è stata davvero poca forzatura nello spingere gli uomini di The Act of Killing a parlare di chi erano e di cosa avevano fatto: come risultato il film mantiene un tono spaventosamente casual. (Viene da chiedersi se il montaggio di 159 minuti che ha vinto il primo premio al CPH:DOX non sia addirittura sbrigativo;  Oppenheimer nega che esista un montaggio ancora più lungo, come si vocifera).
 
Nelle interviste il regista è stato irremovibile sul fatto che la sua cosiddetta “star”, Anwar Congo, comandante di una famigerata squadra della morte a Nord Sumatra il cui curriculum parla da solo, non dovrebbe essere considerato un capro espiatorio per crimini che sono stati commessi anche da migliaia di altri individui. Ma Anwar è comunque il volto del film: con i capelli grigi e l’aria ghignante, ma decisamente più tirato man mano che gli anni passano (la produzione del film è durata quasi dieci anni) e che gli incontri con il suo passato si fanno più intimi e dettagliati/specifici. In questo senso, può essere facilmente visto come un personaggio grottesco – e quando compare conciato come un cowboy o come un cadavere non è altro che questo – e tuttavia Oppenheimer compie un lavoro notevole di osservazione e interazione con lui, come soggetto e come collaboratore creativo. È una dinamica che punta sullo status del regista in quanto straniero bianco e occidentale. Sia che Anwar e gli altri siano rimuovano consapevolmente il fatto che il pubblico del film di Oppenheimer li giudicherà abominevoli sia che si trovino ancora schiavi della propaganda isterica degli anni Sessanta che proclamava lo sterminio sistematico un atto di eroismo, è evidente che sono felici di avere l’occasione di fornire il loro resoconto a qualcuno che lo trasmetterà al di fuori dei confini indonesiani.
 
La dicotomia star/soggetto ci riporta alla questione dello sfruttamento. Questi uomini sono nel possesso delle loro facoltà? E se non è così, a cosa stiamo assistendo esattamente? Azzarderei che il valore che fa di The Act of Killing qualcosa di più di un film viscerale è il modo in cui Oppenheimer affronta l’idea di colpa. La colpa non è qui qualcosa di cui bisogna dare dimostrazione convincente – imperativo del giornalista – piuttosto è un’assenza che fornisce la struttura stessa del film. Colora l’abbietta gamma di impulsi – orgoglio, ira, lussuria… in fondo tutti i peccati capitali – che è sottesa alle ricostruzioni degli assassini; pervade la scena in cui un uomo che ne ha strangolati a morte altri con dei cavi ripete il copione occupando la sedia della vittima; traluce dallo sguardo dello spettro fabbricato alla bell’e meglio per rappresentare gli incubi di Anwar; e resta sospesa su Anwar mentre guarda alla TV scene dei suoi spettacoli artigianali insieme ai nipoti, spingendoli a riconoscere quanto sia triste, ma ricordando a loro – e a se stesso – che dopo tutto è solo un film.
 
 
Cinema Scope: Chi è stato a fare il primo approccio?
 
Joshua Oppenheimer: Avevo lavorato in una comunità di sopravvissuti fuori da Medan. È una regione di piantagioni dove un gruppo di lavoratori stava lottando per organizzare un sindacato all’indomani della fine della dittatura. Questo dieci anni fa, se non sbaglio. Un agente chimico che veniva vaporizzato sulle palme stava distruggendo le loro vite. Avevano troppa paura di formare un sindacato per combattere questo abuso. E la ragione era che erano reduci da un genocidio, i loro parenti, zii, nonni, erano stati uccisi o imprigionati per aver fatto parte di un sindacato delle piantagioni che attorno al 1965 era molto affermato. Era stato accusato di essere comunista. I loro parenti erano stati uccisi. Era una storia che avevano paura a raccontare perché temevano che gli assassini li avrebbero visti parlare con stranieri e avrebbero pensato stessero tentando di rivelare quello che avevano fatto. Così abbiamo discusso di come avremmo potuto raccontare la storia, abbiamo fatto visite clandestine ai luoghi che dovevano essere le tombe comuni… ma non era materiale estremamente convincente. Così dissero: “Sai, l’altra cosa che potresti fare è filmare gli assassini.”
 
CS: Questo è stato il loro suggerimento?
 
Oppenheimer: Vivevo da due o tre mesi in quella comunità, ero vicino alla gente. Ho detto: “Dove potrei trovarli?” Un amico mi disse che quello cha abitava accanto a me aveva ucciso sua zia. E due case più in là, mi disse un altro amico, viveva un’altra persona che aveva ucciso suo padre.
 
CS: Qual era il loro tono quando dicevano queste cose?
 
Oppenheimer: In questo caso, dato che le persone si stavano raccogliendo per formare un sindacato, e poiché lavorare con me stava in qualche modo catalizzando quegli sforzi, c’era eccitazione e nervosismo. non c’era rassegnazione perché proprio allora si stavano muovendo per cambiare le cose. Erano impauriti, ed erano anche esaltati. Mi vedevano come qualcuno che poteva mostrare quello che era successo. Si può dire che The Act of Killing è stato realizzato con me che mi assumevo il ruolo di portavoce dei sopravvissuti di tutta l’Indonesia. Questa è stato un versante del progetto. Avevo anche delle motivazioni in quanto filmmaker, e idee sul cinema e sulla storia. In ogni caso, il giorno dopo presi la videocamera e andai alla casa della persona che aveva ucciso la zia del mio amico, fingendo di filmare la vita del villaggio: i bambini che tornavano verso casa con le capre. Speravo che uscisse di casa incuriosito e si mettesse a parlare con me. Mi chiese chi ero e io feci lo stesso, gli chiesi che lavoro faceva. Mi disse che era diventato il manager della piantagione perché nel 1965 avevano annegato centinaia di membri del sindacato. Era il suo metodo prediletto. Lo registrai mentre mi diceva questo e mentre, nel suo salotto, mi mostrava come faceva, con un certo sbigottimento, anche perché nel salotto c’era anche la nipotina di nove anni, che ascoltava il racconto annoiata, come se l’avesse già sentito più volte.
 
CS: Questi sviluppi hanno certamente modificato la direzione del film che stavi facendo…
 
Oppenheimer: Mi resi conto che la questione al centro del film non poteva essere “Cosa è successo nel 1965?” Questa storia non riguardava i fatti di allora, ma il modo in cui gli assassini nel presente godevano dell’impunità e si permettevano di vantarsi di ciò che avevano fatto. Non c’era bisogno dicessi loro che quello che avevano fatto era una cosa nobile. Lo davano per scontato dato che ero Americano e gli Stati Uniti supportavano la dittatura militare, le azioni repressive a Timor Est e altre cose, insomma ero dalla loro parte. L’unica cosa che dovevo fare per dare fiducia era essere amichevole e non giudicare. Presto realizzai che una parola come “sterminio”, che per noi evoca l’Olocausto, aveva una sfumatura eroica. Sentivo che mi ero imbattuto in un posto dove era avvenuto un genocidio, gli assassini avevano vinto, non erano mai stati chiamati in causa e quindi da allora celebravano quello che avevano fatto. Era per impaurire i sopravvissuti? Per impressionare il resto del mondo? Per alleviare le loro coscienze? Tutte queste questioni aleggiavano attorno all’immagine che si facevano di loro stessi. Ma era evidente che si era verificato un colossale aborto dell’immaginazione collettiva.
 
CS: Anche senza le ricostruzioni il film è estremamente surreale.
 
Oppenheimer: La mia prima sensazione, da persona che ha perso molti membri della sua famiglia nell’Olocausto, era che fosse come se fossi in Germania e i nazisti avessero vinto e degli ex SS parlassero delle morti degli Ebrei come di una cosa fantastica. Allora ho cominciato a interrogarmi sui fatti accaduti in Ruanda, Bosnia, Cambogia, e in Germania, che la storia aveva stabilito come sbagliati, e mi sono chiesto: e se tutti quei fatti fossero l’eccezione piuttosto che la regola? Come Adi fa notare nel film, qualcuno è stato forse mai chiamato in causa per ciò che è successo ai Nativi Americani?
 
CS: Penso però sia corretto affermare che quel paragone riguarda paesi molto diversi con storie molto diverse…
 
Oppenheimer: Fino al 2008 i più alti ufficiali degli Stati Uniti non solo godevano di impunità per le torture di cui erano responsabili, ma erano pubblicamente celebrati per esse. Ora abbiamo una situazione in cui Obama è il primo democratico dai tempi di Harry Truman a non essere vulnerabile in fatto di sicurezza nazionale. Potremmo dire che sulla sicurezza nazionale è un duro, ma un altro modo di vedere la cosa è che le sue politiche – detenzione, rapimenti, sospensione dell’habeas corpus, attacchi coi drone – sono molto popolari. Questo ci riguarda tutti e penso che lo sappiamo. Un paio di anni fa esaltavamo una politica della tortura come qualcosa di moralmente indiscutibile. Jack Bauer è popolare, è visto come un eroe.
 
CS: Pensi che la gente si faccia influenzare da Hollywood? Questo tocca uno dei punti principali del film, ossia il modo in cui gli assassini parlano di come sono stati ispirati dai film e dalle star che ammiravano da giovani – e sia esaltano pensando a Brando, a Pacino, a Elvis.
 
Oppenheimer: Sì, penso che Hollywood esporti violenza, e che il potere del suo intrattenimento dipenda dal fatto che godiamo della violenza, ma Hollywood non crea assassini. Nei tre anni di riprese prima di incontrare Anwar ho incontrato un sacco di persone che non avevano visto film prima di uccidere. Erano perfettamente capaci di tagliare teste e andare a casa a dormire la sera. Mentre filmavo sempre più assassini, ebbi l’impressione che ciò che li accomunava era egoismo, vanità, avidità, questi peccati capitali, che del resto riguardano tutti. noi Ma fortunatamente abbiamo anche i meccanismi per tenere sotto controllo quella roba. Ciò che disturba tanto nel film è rendersi conto che quegli uomini che hanno compiuto azioni così orribili sono nonostante tutto umani. La gente dice che sono mostri o psicopatici, ma quelle sono solo parole che usiamo per tenere “loro” a distanza da “noi”.
 
CS: Ti propongo un’altra parola: follia. Qualunque fosse il loro stato mentale quando fecero ciò che fecero, penso sia chiaro che ora come ora qualcosa si è danneggiato in modo irreparabile. Questi uomini sono palesemente colpevoli, ma è come se il meccanismo di elaborazione fosse inceppato.
 
Oppenheimer: Tocchi un punto interessante. Sarebbe a dire che siamo sul terreno di R. D. Laing, di Deleuze e Guattari, che sostengono esista una sorta di follia sul piano sociale. Ma se la chiamiamo follia allora dobbiamo chiarire che un sistema economico in cui l’avidità è guardata come una virtù e le misure di restrizione nei suoi confronti come un ostacolo al progresso è un sistema folle. Folle e suicida. Sentivo di essere di fronte a una realtà folle. La prima volta che ho filmato un assassino sul luogo in cui aveva compiuto un omicidio mi ha portato a un fiume e si è messo a fare questa disgustosa messinscena di come aveva ucciso il figlio di un mio amico. Mentre filmavo ho mantenuto la calma. Mi ha chiesto di posare per qualche foto con un compare delle squadre della morte, pollici in su e la “V di vittoria”, nel posto in cui avevano ammazzato 10.000 persone nel giro di un mese. Era a febbraio del 2004. Ad Aprile dello stesso anno ho visto gente del mio stesso Paese starsene di fronte a persone che erano state umiliate, torturate e in un caso uccise, e facevano lo stesso gesto. Che si possa considerare un modo accettabile di commemorare la tortura… questo genere di follia collettiva, politicamente programmata è quello che il film tenta di indagare.
 
 
CS: Parlando di immagini, penso che la cosa più azzardata del tuo film sia che le ricostruzioni – degli omicidi clandestini e anche dei grandi massacri compiuti nel villaggio – adesso rappresentano una sorta di testimonianza visiva ufficiale di un genocidio che era passato nell’ombra.
 
Oppenheimer: Quando abbiamo filmato la scena del massacro, parlavo col mio operatore e ci chiedevamo come avremmo potuto fare per non farla sembrare un’idiozia. Tecnicamente era difficile da girare. Prevedeva combattimenti coreografati, esplosioni, comparse. Ci siamo chiesti: “A cosa dobbiamo puntare qui?”. Se si fossero semplicemente lanciati sul villaggio per farlo a pezzi, sarebbe risultato finto. Quello che mi girava in testa era che avevamo di fronte l’opportunità di creare un’immagine iconica di un genocidio di cui nessuno ha memoria. Avremmo dovuto manipolare il materiale d’archivio? Ero contrario all’idea. Piuttosto avremmo dovuto ottenere qualcosa di simile a un film di guerra degli anni 70 o 80. Avevo la sensazione che facendo così la maggior parte degli spettatori avrebbe avuto l’impressione di materiale d’archivio, perché la nostra idea di che aspetto ha il passato arriva dai film, proprio come le idee di Anwar sull’omicidio. Mentre uccideva la gente Anwar stava recitando. Sapevo che c’era qualcosa di perverso in questo impulso a creare un’immagine iconica, come la foto dei cancelli di Birkenau in Shoah (1985), e nel fatto che lo stile di questa icona derivasse dai film di genere hollywoodiani. E come io ero coinvolto nel volerlo fare, lo spettatore sarebbe stato coinvolto nel riceverlo. Così abbiamo preso due misure per resistere alla perversità. L’abbiamo decostruita, inserendo spezzoni con noi che urlavamo “Stop, stop, stop.” Nella scena dell’incendio, invece di usare dei totali solenni, usiamo immagini traballanti e leviamo il suono, è quasi muta, a parte lo strano suono di un insetto sulla colonna sonora. Copre il suono delle urla e si dissolve in quello del respiro di Anwar. Questo linguaggio è sorto dall’impegno a resistere alla tentazione di un’iconicità generica e dalla responsabilità morale nel creare un’icona di enorme forza che marchia la coscienza dello spettatore. Spielberg si ferma a un certo punto con Schindler’s List, noi non possiamo fermarci a quel punto.
 
CS: Vediamo il leader del gruppo paramilitare fare un esperienza simile a un certo punto, quando tenta di valutare la distanza tra quello che simboleggia in effetti la sua divisa e come intende presentarla sullo schermo. È una specie di cura della propria immagine.
 
Oppenheimer: Esatto.  È stato un momento fantastico, straordinario. Adi Zulkadry lo dice pensando che io non stia riprendendo. Approfitta dell’occasione mentre non mi sto occupando di lui per dire che se risuciamo a girare quella scena la storia sarà messa sottosopra. Nello stesso momento il vice direttore dei gangster – perché questo sono, li chiamano “ragazzi”, ma è un eufemismo per “gangster” – si rende conto che il suo lavoro dipende dalla paura che riesce a suscitare. non vuole apparire troppo cattivo altrimenti potrebbe perdere il lavoro, ma non vuole sembrare neanche troppo buono.
 
CS: Ha una mente sdoppiata quindi. Un sacco di personaggi nel film sembrano ossessionati da questa stessa doppiezza di pensiero: a ogni sbruffonata s’intreccia la colpa, anche se non dicono mai di sentirsi colpevoli. E non è perché nessuno ha detto loro che dovrebbero sentirsi così…
 
Oppenheimer: È interessante come la loro colpa sia così presente e che, nonostante ciò, non abbiamo alcun linguaggio per esprimerla. Per me la prima provocazione, che ho trovato devastante, è stato riprenderlo mentre ballava il cha-cha dove aveva ucciso centinaia di persone. Dice che balla per dimenticare; si droga per dimenticare. Quindi la colpa è lì, sulla scena del crimine. Torna al cinema per mostrarci come ha fatto, e dice che usciva dopo un film come fosse un gangster che usciva fuori dallo schermo. Questa battuta nel film non c’è, ma a un certo punto ha detto che quando lui e i suoi amici guardavano un film di Elvis si facevano prendere e usciti dal cinema si mettevano a uccidere allegramente. Nei film cerca una specie di presa di distanza psichica. Quando stai recitando è come se avessi un pubblico immaginario; il pubblico ti sta guardando. Elvis hai suoi fan e anche tu hai tuoi. Anche lì si cela un trauma, perché per quale ragione dovrebbe essere qualcun altro? Perché non può essere presente a se stesso nel momento in cui sta togliendo la vita a qualcuno? Perché per lui è devastante. Lo distrugge. Quando recitavano nelle ricostruzioni… era dura stare lì ad assistere. Mi sentivo contaminato, sporco, come se fossi io a creare le uccisioni. Quando iniziano le ricostruzioni accade questa cosa incredibile per cui entrano in una modalità di performance che è la stessa di quando uccidevano davvero. Così il passato sopravviveva nel presente in un modo che riflette come questo passato traumatico sia ancora vivo per la collettività nell’Indonesia di oggi. Era orribile da vedere.
 
CS: Per quanto tempo sei stato con questi uomini?
 
Oppenheimer: Ho cominciato a girare con Anwar sette anni fa.
 
CS: Ti preoccupi per loro?
 
Oppenheimer: Sì. Soprattutto per Anwar e Herman. Farò in modo che Anwar non finisca come capro espiatorio per questo. È uno dei 10.000 assassini che stanno in Indonesia. Non era il primo arrivato: era il capo di una famigerata squadra di sterminio. È il leader di un’organizzazione paramilitare, ma non dovrebbe diventare il capro espiatorio solo per dare un volto al genocidio. Se Anwar venisse arrestato sarebbe una cosa orrenda.
 
CS: Pensi che potresti mai rivederlo, se fosse in un contesto diverso?
 
Oppenheimer: No, non penso. Ma nelle ultime settimane ho parlato con lui tutto il tempo, cercando di parlare di cosa significa il film, come viene recepito. Può anche sapere qualcosa del film, ma deve pur sempre funzionare nel mondo, alzarsi al mattino e convivere con se stesso. Deve passare il tempo con altri gangster. Per fare soldi. Questa è la sua cerchia, il suo contesto, il suo mondo. Ho dovuto ricordarglielo, ho dovuto dirgli: “Senti Anwar, ricordi cosa abbiamo filmato, quella scena sul tetto? Ti ricordi la scena in cui guardi insieme ai tuoi nipoti quel film di gangster dove recitavi la vittima?” La loro psiche è totalmente corazzata.. Dice loro che va tutto bene, che è solo un film. È triste. Sta guardando la scena coi suoi nipoti, che sono un’estensione, una parte di lui. E sta parlando solo a se stesso.
 
(Testo pubblicato originariamente su CinemaScope; traduzione di Tommaso Isabella)