Nella prima scena del film, un gruppo di uomini si sfida per chi avrà il coraggio di tuffarsi nell’acqua fredda di un laghetto. Si delinea subito l’humus: una comunità coesa e circoscritta che condivide ritualità forti (gesti goliardici e soprattutto la caccia) e parla un linguaggio comune, in cui crescerà la paura di una minaccia endogena. A seguito delle bugie raccontate da una bambina, un isterismo diffuso culmina nell’isolamento, nell’abbattimento fisico e mentale di Lukas, accusato di essere un molestatore di bambini. L’opposto di ciò che accade al patriarca di Festen, il quale è protetto dalle accuse di pedofilia del figlio da una pressione sociale che allontana quest’ultimo dal gruppo familiare.

 
Nella narrazione rapida e quasi meccanica (fin troppo), le cause e gli effetti si dipanano in modo nitido e logico. Predomina un forte intimismo nel quale il protagonista e gli altri personaggi, racchiusi in un isolato ed autosufficiente microcosmo di relazioni (struttura frequente nel cinema di Vinterberg), sembrano funzionare come ingranaggi di supporto al plot. Il regista ha parlato di un villaggio simbolo della comunicazione attuale, nella quale rapidamente si possono costruire dubbi e falsità che crescono esponenzialmente. Paura, dubbio e, soprattutto, problematiche del vedere (la bambina ha visto e sentito dagli amici del fratello ciò che poi riferirà alla maestra), del credere di aver visto (bambini e genitori alimenteranno in modo ipertrofico immagini inesistenti) e del farsi vedere (Lukas, come ultimo e disperato gesto per sottrarsi alla distruzione psichica a cui è stato condannato, si presenterà alla messa di Natale per mostrarsi come di nuovo parte di un rito sociale e mostrare al padre di Klara il suo volto tumefatto e innocente). In Festen era centrale il non voler vedere e il nascondere.
 
Al protagonista non basterà l’essere scagionato dalle autorità: l’accecamento dei concittadini è una sentenza definitiva. Una fobia e un tema ricorrente del cinema hitchcockiano, la condanna dell’innocente, si ripresentano qui con innesti di un topos di Fritz Lang: un uomo viene condannato, non dal ragionamento di un organo adibito alla giustizia, ma dalla deflagrazione del furore miope del contesto sociale. Emblematico è il rifiuto dei gestori del supermercato di servire Lukas e suo figlio (quasi un’ancestrale esclusione dal nutrimento del gruppo e condanna a morte per fame) e la seguente aggressione fisica al protagonista. Tale dinamica, che ricorda quella descritta da K. Lorenz in contesto etologico, parte da piccoli gesti imbarazzati e inibiti fino a divenire sempre più aggressivi: quando l’occhio della comunità è pronto ad accettare la vista della distruzione del mostro.
 
Il discorso filmico presenta numerose simmetrie e ripetizioni esplicative dei rivolgimenti della trama e delle relazioni tra i personaggi; ci mostra le azioni del prima e quelle del dopo l’accusa al protagonista. Una certa simmetria delinea anche i personaggi con cui Lukas si confronta, spesso molto tipizzati e quasi bidimensionali: da un lato il padrino di suo figlio, che ragiona razionalmente e la cui dimora, non a caso, appare lontana dalla cittadina. Dall’altro il suo più caro amico, nella cui casa vediamo spesso altri componenti della comunità, e che quindi si presta a epicentro dell’autoalimentarsi della paura. Assistiamo a due scene di caccia, una prima e una a distanza di un anno dal fatto, che si svolgono nel bosco, il luogo in cui gli uomini si recano quasi a compiere un atto che codifica la piccola comunità (le armi tornano ad assumere la valenza che hanno per i protagonisti di Dear Wendy) e l’unico (eccetto la primissima scena, anche essa un rito sociale) in cui si sente una traccia musicale. Nel finale del film un colpo è sparato nella direzione di Lukas da una figura invisibile (di nuovo il tema del non vedere) perché in controluce. La caccia non è finita.
 
 
Il sospetto (Jagten), regia di Thomas Vinterberg, Danimarca 2012, 111'.