“La vita imita l’arte molto di più di quanto l’arte non imiti la vita”. È sulla scia di uno degli aforismi forse più celebri e citati di Oscar Wilde che sembra prendere forma l’ultimo film di Giuseppe Tornatore, La migliore offerta. Allontanata la magniloquenza e la sontuosità di Baarìa – senza per questo far ritorno al racconto autobiografico (Nuovo cinema Paradiso) – Tornatore vira bruscamente verso il noir, recuperando il cinema di genere, riavvicinandosi alle atmosfere thriller di Una pura formalità. E lo fa indagando sommessamente – come già aveva fatto con La sconosciuta – la complessità umana di un protagonista chiuso, soffocato nel mondo delle proprie ossessioni e incapace di relazionarsi con un mondo che gli esso stesso vuole lontano e impenetrabile: la manifestazione più tangibile di ciò è l’ossessione per i guanti, senza i quali non tocca nulla, fatta eccezione per le opere d’arte. Per Virgil dunque, battitore d’aste e collezionista egli stesso, che nel corso degli anni ha raccolto – senza troppi scrupoli professionali – un'imponente quantità di opere d’arte, soprattutto ritratti femminili, che campeggiano sulle pareti di una stanza blindata e accessibile a lui solo, la vita è l’arte e rappresenta l’unica maniera in cui sublimare l’esperienza umana, esperienza di per sé imperfetta, e proprio per questo allontanata dal protagonista, in quanto materia che sfugge a un controllo razionale. Nella vita di Virgil tutto si incastra perfettamente come gli ingranaggi dell’automa che nel corso del film viene ricostruito, ma nonostante ciò l’ansia di controllo del personaggio soccombe di fronte all’intrinseca vulnerabilità della natura umana, che lo porta a trasformarsi da demiurgo a mero ingranaggio, come d’altronde ribadisce il finale del film, nel quale Geoffrey Rush è intrappolato in uno strano attrezzo rotante e all’interno di un bistrot stipato di orologi di ogni tipo. 

Partendo da questi presupposti e da una visione pessimistica dell’esperienza umana, Tornatore imbastisce un racconto thriller che ha i toni, i tempi, i colori, il ritmo del suo personaggio. Un’opera apparentemente rigorosa e glaciale in opposizione all’enfasi lirica di alcuni precedenti film, Baarìa soprattutto. Virgil è a tutti gli effetti una figura opposta a quelle delle opere incentrate sulla Sicilia, sulla memoria e sull’autobiografia del regista. Appare evidente come il fatto che egli sia un personaggio che ha cancellato ogni traccia di un passato in contraddizione con ciò che egli è al momento presente – passato che pure emerge in una frazione di dialogo – e abbia reciso definitivamente il legame con un luogo concreto di nascita e di appartenenza – sostituendovi una esistenza ricostruita a tavolino – nella visione di Tornatore condanna Virgil a divenire preda, senza difese, di un mondo ostile e artificioso, in cui non è preparato a separare la sincerità dalla menzogna.
 
Le ingenuità del personaggio non sono però quelle dello spettatore, che fin da subito intuisce la macchinazione che sta dietro agli avvenimenti. Seppure non si possano collocare tutti i tasselli immediatamente al loro posto, la componente propriamente thriller del film denuncia già in fase di scrittura (il film è sceneggiato dallo stesso Tornatore) debolezze organiche nell’adesione a un genere del quale si rispettano tutti i cliché del caso, senza che vi sia la minima preoccupazione di cercare una reinvenzione nelle consunte regole di questo tipo di gioco. Ciò deriva ovviamente dal desiderio di realizzare un prodotto spendibile oltre i confini nazionali, ma cadendo in questo modo nelle trappole di una cautela eccessiva che portano il film a essere un accademico esercizio di stile, per quanto condotto senza le cadute di gusto che da sempre caratterizzano i film più personali dell’autore. Gli aspetti strutturali di La migliore offerta sono inevitabilmente connessi allo stile del film, che come abbiamo detto mantiene una freddezza che tracima nell’anonimato, se non fosse per l’utilizzo di luoghi e figure di derivazione avatiana (la villa misteriosa, la nana inquietante, etc…) che sicuramente hanno condizionato l’immaginario thriller/horror del cinema italiano e probabilmente dello stesso Tornatore. Proprio questa ingenuità (o furbizia) di scrittura e di stile fanno del film un ingranaggio apparentemente perfetto ma evidentemente falso, lontano dalla maniera del suo stesso autore ma vicino ad una maniera più istituzionalizzata dei film a chiave. La scommessa è vinta invece per quanto riguarda il cast, a partire ovviamente da Geoffrey Rush, che porta nel film quell’elemento di verità che, come viene più volte ribadito nelle battute di dialogo, si nasconde anche nelle più riuscite imitazioni.
 
 
La migliore offerta, regia di Giuseppe Tornatore, Italia 2013, 124'.