Vuole la leggenda che Jean-Pierre Melville abbia dovuto faticare non poco per convincere Vercors, l'autore di Le silence de la mer, della possibilità di trarne un soggetto cinematografico: “Vercors […] giudicava orribile l'idea di trarre un film da un racconto che durante la guerra era stato per tanta gente un livre de chevet, una specie di bibbia commovente e ammirevole” (1). Oltre sessant'anni dopo, altrettanta fatica deve fare il critico cinematografico che debba confrontarsi con il primo lungometraggio di Melville, a sua volta divenuto un testo “sacro” per diverse generazioni di cinefili e registi. Non è difficile comprenderne il motivo. Gli ingredienti per il Mito, in fondo, ci sono tutti: la lavorazione travagliata e a basso costo; l'ostruzionismo dell'establishment (cinematografico e non); la spregiudicatezza stilistica, nella quale lo sperimentalismo delle trovate visive si combina con il rigore della messa in scena; l'inaspettato successo di pubblico (2). A dare il tocco finale ci hanno pensato poi i “giovani turchi” dei Cahiers, che proprio grazie a questo film, insieme al successivo Bob il giocatore (1955), fecero di Melville uno dei propri registi-feticcio (3).

Per liberarsi dal peso dei commenti, glosse e note a margine che si sono accumulati su Il silenzio del mare, conviene forse ripartire dal testo puro e semplice. Parlo di “testo” non a caso, poiché quella che opera Melville sul racconto di Vercors è un'operazione unica nel suo genere: una traduzione in immagini, parola per parola, del testo scritto, nella quale il corpo del libro diventa il corpo del film. Si veda l'incipit: un uomo cammina lungo un ponte con una valigia in mano. Appoggiato alla spalletta, sotto un lampione, all'estrema destra del quadro, un altro uomo sembra attenderlo. In sovrimpressione, appaiono i titoli: “Pierre Braunberger presente/le célèbre livre de Vercors”. “Libro”, non romanzo, non racconto: semplicemente “libro”. L'inquadratura si allarga un poco, mentre l'uomo che cammina abbandona, quasi senza fermarsi, la valigia a terra, proprio di fronte all'uomo del lampione. Questi la raccoglie da terra, la posa sul muricciolo e la apre. Ne scorgiamo il contenuto: alcuni abiti, due pacchi di riviste clandestine, e, sotto a tutto quanto, finalmente, il libro, sulle cui pagine scorrono i titoli di testa.
 
In questo inizio si comprendono con una certa chiarezza le preoccupazioni di Melville: come adattare un libro “sacro”, una “bibbia”, secondo le parole dello stesso Vercors? Appunto trasformando le pagine del libro nelle inquadrature del film. Più che un “adattamento” o una “trasposizione”, assistiamo, mi si passi il termine, a una “transustanziazione” cinematografica. E se le intenzioni del regista non fossero sufficientemente chiare (in fondo, quante volte abbiamo visto i titoli di testa “sfogliati” come pagine di un libro?), il corpo del testo ritorna nel finale. Le ultime parole della narrazione in voice over (“Mi parve che facesse molto freddo”) si sovrappongono alle ultime righe del libro. Segue la data di composizione (“Ottobre 1941”) e, dopo un rapido movimento di macchina verso destra, l'imprimatur: “La pubblicazione di questo libro, avvenuta grazie a un patriota, venne ultimata sotto l'occupazione nazista il 20 febbraio 1942”. Quanti altri film si concludono in questo modo?
 
 
Questa, dunque, l'inedita cornice. In mezzo, una vicenda di Resistenza quotidiana: un anziano francese e sua nipote sono costretti ad ospitare, durante l'occupazione nazista, un ufficiale dell'esercito tedesco, Werner Von Ebrennac (Howard Vernon), innamorato della cultura francese. Durante tutto il periodo della convivenza coatta, i due francesi non rivolgeranno mai la parola all'ospite-occupante (4).
Pur mantenendo la narrazione in prima persona (quella dell'anziano padrone di casa, interpretato nel film da Jean-Marie Robain), Melville ne fa una sorta di “didascalia parlata”, secondo una logica molto vicina a quella del muto (5). Ma laddove il racconto descrive il tedesco: “Era smisurato e assai esile. Alzando le braccia avrebbe toccato le travi del soffitto” (6), la macchina da presa trasforma la descrizione in un'inquadratura fortemente angolata dal basso, un piano ravvicinato del volto dell'ufficiale sul quale incombono, appunto, le travi del soffitto. Altrove, invece, immagine e parola si richiamano a vicenda nella stessa inquadratura: “Avevamo deciso in un tacito accordo, mia nipote ed io, di non mutare nulla nella nostra vita, fosse pure il più piccolo particolare: come se l'ufficiale non esistesse; come se fosse stato un fantasma”, dice la voice over, mentre l'ombra dell'ufficiale si allunga sulla parete della stanza. Del resto, che il tedesco sia quasi un ectoplasma è ribadito da Melville fin dalla prima apparizione del personaggio: la sua figura, dal volto bianchissimo, si staglia contro il rettangolo nero della porta di casa, mentre il suo “È permesso?”, per quanto bisbigliato, mette d'un colpo a tacere il crescendo musicale di Edgar Bischoff.
 
Benché quasi del tutto confinato nelle quattro pareti di una casa di campagna, Il silenzio del mare non è un “film da camera”, quanto piuttosto la messa in scena, in uno spazio limitato, di una guerra: quella tra l'occupante e l'occupato, tra l'invasore nazista e la Resistenza francese. Nessuno sparo, se non quelli raccontati in flashback dallo stesso ufficiale nazista. Nessun morto, nemmeno quando al comando tedesco a Parigi si accenna a Treblinka e alla gassificazione su larga scala dei prigionieri: a Melville basta stringere, con un raffinatissimo movimento di macchina, sul volto di Hitler, per suggerire la cieca violenza del Reich.
Allo stesso modo, benché la ricostruzione dell'epoca sia millimetrica, non si tratta nemmeno di un film realistico. Non solo lo sguardo della macchina da presa oscilla fra la vertigine della profondità di campo (la scena in cucina) e l'immagine “piatta” dei filmati di repertorio (il flashback su Parigi) (7); non solo i suoni d'ambiente, a cominciare dall'ossessivo ticchettio dell'orologio, vengono abilmente “eseguiti” come una autentica partitura musicale; innumerevoli sono infatti i rimandi alle fiabe, ai racconti per bambini. Melville sublima la realtà dell'occupazione con le immagini dei tre tedeschi a cavallo (“Apparvero tre cavalieri”), con il paragone tra la casa e il castello (“Il vostro vecchio sindaco m'aveva detto che avrei abitato in un castello […] questo castello qui è molto meglio”), fino al racconto dell'ufficiale, che si immedesima nella fiaba de “La bella e la bestia”. Ma non è più tempo per le fiabe: le illusioni del tedesco imbevuto di cultura francese sono destinate a infrangersi contro la dura realtà della Storia. E a lui, troppo nobile d'animo per obbedire a ordini criminali, non resterà che scegliere una morte più dignitosa sul campo di battaglia, come un principe fiabesco – o forse, trattandosi di Melville, come un samurai…
 
 
NOTE
 
(1) Jean-Pierre Melville, in Rui Nogueira, Il cinema secondo Melville, Recco, Le Mani, 1994, p. 25.
(2) Per un resoconto della lavorazione del film, si veda Rui Nogueira, op. cit., pp. 24-39.
(3) Un'ammirazione testimoniata, fra l'altro, dalle partecipazioni in veste d'attore in Fino all'ultimo respiro (1959) di Godard e nel Landru (1962-63) di Chabrol. In seguito, Melville si esprimerà piuttosto criticamente nei confronti dei suoi giovani discepoli: “Sono un padre che ha avuto come figli degli esseri un po' mostruosi, che sono morti per delle malattie abominevoli. Quella paternità che allora avevo accettato, perché non sapevo quel che ne sarebbe seguito, oggi la rifiuto” (da Filmcritica, n. 151-52, 1964, cit. in Roberto Turigliatto [a cura di] Nouvelle Vague, Torino, Lindau, 1993, p. 332).
(4) Le uniche due aggiunte di Melville al testo di Vercors (peraltro in perfetta consonanza con lo "spirito" del libro) sono l'incontro della nipote con l'ufficiale durante una passeggiata nella neve, e il prefinale in cui Von Ebrennac legge la pagina di giornale lasciatagli dal padrone di casa, recante la frase di Anatole France: "E' nobile per un soldato disobbedire a ordini criminali".
(5) Il silenzio del mare non farà scuola tra i futuri artefici della Nouvelle Vague soltanto per le sue libertà produttive e stilistiche, ma anche per il modo diverso di concepire l'adattamento letterario. Alexandre Astruc dichiarerà di “filmare un testo a grandezza naturale”: un'affermazione che calza alla perfezione anche per il film di Melville (cfr. Michel Marie, La Nouvelle Vague, Torino, Lindau, 1998, pp. 107-109).
(6) Vercors, Il silenzio del mare, tr. it. Di Natalia Ginzburg, Milano, Mondadori, 1964, p. 10.
(7) Fondamentale, qui e altrove nel film, l'apporto di Henri Decaë (1915-1987), al suo esordio come direttore della fotografia.
 
IL SILENZIO DEL MARE (Le silence de la mer), regia di Jean-Pierre Melville, Francia, 1947-49, 85' (Eye Division – Cecchi Gori Home Video)