Si dice che i registi continuino sempre a girare lo stesso film. Un’esagerazione, ovviamente, ma con un fondo di verità. Le ossessioni, le manie, i chiodi fissi degli autori sono sempre presenti nelle idee che danno vita a nuovi soggetti e sceneggiature e spesso a cambiare sono solo gli abiti con cui le si riveste. Di Juan Antonio Bajona, regista spagnolo al secondo lungometraggio – ma con alle spalle tanti corti e videoclip – sappiamo che ama l’horror, specie quello europeo anni Settanta/Ottanta e ha una (in)naturale propensione per le tragedie personali, private, che colpiscono quel che si ha di più caro al mondo: la famiglia. 

 
Nel suo fortunato esordio cinematografico, The Orphanage, una donna cresciuta in un orfanotrofio decideva di tornarvi molti anni dopo per aprire una casa famiglia e aiutare bambini in difficoltà. Con lei il marito e un bimbo gravemente malato che la coppia ha da poco adottato. A rompere questo quadro idilliaco, la scomparsa del piccolo e la progressiva perdita di lucidità della madre, incapace di accettare la realtà dei fatti (il figlio è morto e a ucciderlo è stata, involontariamente, proprio lei). The Impossible, spogliato del vestito di genere, tratta ancora di questo: dell’improvvisa immersione – termine più adatto non può essere scelto – di una famiglia modello in uno scenario tragico e orrorifico. La differenza sta nell’abito: se The Orphanage era un horror classico  – debitore per atmosfere e ritmo rarefatto al cinema horror asiatico – giocato sui binari dello psicodramma, The Impossible è un disaster movie intimista, dove l’orrore irreale lascia spazio alla tragedia tristemente nota a tutti dello tsunami che colpì la Thailandia il 26 dicembre 2004.
 
La storia – vera, lo si dice subito a inizio pellicola – è quella particolare di Henry, Maria e dei loro tre figlioletti, colpiti dall’onda e separati in due squadre: madre e figlio più grande da una parte, padre e piccoletti dall’altra. Il film è la ricostruzione – senza dubbio un po’ romanzata – del loro cercarsi, del non voler rassegnarsi all’idea di aver perso per sempre l’amore dei propri cari, del cercare dentro di sé la forza di andare avanti anche quando tutto intorno a noi è dolore e disperazione. In quel Santo Stefano di nove anni fa morirono centinaia di migliaia di persone e chi riuscì a salvarsi non potrà mai a dimenticare quel gigantesco muro di acqua che si abbatté su di loro senza avviso alcuno, spazzando via tutto ciò che incontrò sul suo cammino.
 
Grazie a un budget altissimo per una produzione europea (45 milioni) e alla bravura di Bayona (tutta la scena dello tsunami è stata girata una sola volta, per stare nel budget, con diverse macchine da presa attive in contemporanea), la scena che più si attende è anche quella che dà significato e valore al film. Un vento improvviso, la terra trema, gli uccelli scappano, gocce d’acqua volano nell’aria in una giornata di pieno sole: la lenta attesa degli attimi pre disastro è narrata in modo angosciante e magistrale. Poi l’onda sommerge tutto con una potenza tale da cancellare un Paese,  trasformarlo in un gigantesco fiume che tutto trascina e rimuove – bellissime nella loro tragicità le numerose scene girate “in apnea” – e ridurlo a un campo di battaglia. Ciò che vedono gli occhi del figlio maggiore – presenti e lucidi, al contrario di quelli della madre, sotto shock per le numerose ferite subite e per il timore di aver perso marito e figli – sono immagini da lui conosciute solo nei notiziari e nei film di guerra: donne straziate dal dolore che accudiscono i propri morti, fantasmi che si aggirano per le strade senza meta, file di cadaveri fasciati in attesa di riconoscimento. L’impossibile, l’inconcepibile, l’assurdo è divenuto realtà e di colpo la paura – mai provata prima dal ragazzo e rigettata con spregio in quanto segno di debolezza – diventa inseparabile compagna di strada. 
 
Bayona e il fedele sceneggiatore Sergio Sànchez restituiscono in modo efficace l’angoscia e il dramma di quei momenti e il film ne risente positivamente per tutta la prima parte. Quando madre e figlio raggiungono l’ospedale e il padre si mette sulle loro tracce però, c’è un evidente calo di tensione e il film perde di consistenza. Indubbiamente la consapevolezza di essersi lasciati alle spalle il momento più importante del film, ha influito sulla capacità di tener alta la tensione per tutta la durata della pellicola. Non servono a molto, in tal senso, gli escamotage messi in atto dai due per suscitare nello spettatore momenti di commozione e partecipazione: le occasioni in cui i membri della famiglia si sfiorano o si mancano per pochi istanti, rimandando la tanto auspicata riunione, risultano artificiose e poco credibili sul grande schermo, così come le coincidenze che propizieranno il lieto fine (un furgone che non parte e un bisognino fisiologico non più controllabile). Di più e di meglio si doveva fare piuttosto quando la famiglia ottiene un provvidenziale aereo per approdare a migliori lidi: l’assurdità di chi se ne va con un volo privato, lasciandosi alle spalle tutta quella miseria, non può essere addolcita da poche inquadrature dedicate al ricordo di chi non è stato altrettanto fortunato.
 
Un’ultima considerazione va fatta in merito alla scelta del cast: il successo di un film così costoso passa necessariamente attraverso il fascino dei suoi interpreti ed è quindi sacrosanto scegliere volti in grado di richiamare grandi folle di spettatori. Spiace però notare come si stata fatta una scelta che ha molto più a che spartire con le riviste di moda, piuttosto che con il cinema. A fine film una fotografia ci mostra come la famiglia protagonista di questa immane tragedia non fosse americana, ma spagnola e come non fossero tutti biondi con occhi chiari e pelle bianca, ma al contrario, neri e di carnagione olivastra. Per amor di quel realismo tanto ricercato e annunciato fin dai titoli di coda, non si potevano cercare attori più simili ai loro modelli reali? Oppure Hollywood non dispone più di bravi attori dai tratti latini?
 
 
The Impossible, regia di Juan Antonio Bayona, Spagna 2012, 114'.