L'intertesto postula che il significato stia nel processo stesso attraverso cui esso viene rinvenuto (1).
 
Con la combinazione di due "rappresentabili" si ottiene così la notazione di qualcosa che è graficamente irrappresentabile.[…] Ma questo è montaggio! Sì. E' la stessa cosa che facciamo noi nel cinema quando mettiamo in rapporto certi fotogrammi… (2). 
 
Il film-saggio permette al filmmaker di rendere visibile sullo schermo il mondo “invisibile” dei pensieri e delle idee. A differenza del documentario, che offre dei fatti e delle informazioni, il film-saggio produce pensiero, e pensiero complesso – riflessioni che non sono necessariamente legate alla realtà, ma che possono anche essere contraddittorie, irrazionali o fantastiche (3).
 
Oggi, [noi critici cinematografici e studiosi di cinema] possiamo “scrivere” utilizzando gli stessi materiali che costituiscono l'oggetto dei nostri studi: immagini in movimento e suoni. Fare questo, però, richiede che vengano ripensate le forme di critica tradizionali. Bisogna ancora sperimentare parecchio […] (4)
 
 
Ciò che mi ha sempre interessato di più nell'analisi del film, è l'esplorazione di quella che Gérard Genette chiamava “transtestualità”, vale a dire l'insieme di modi in cui un film può essere più o meno esplicitamente messo in relazione con altri film (5). A volte questo interesse è andato a toccare questioni di influenza culturale e di autorialità (6). Spesso però il mio lavoro si è rivolto al riconoscimento dell'interconnettività cinematografica, all'interno di quegli specifici settori della transtestualità che Genette chiamava “ipertestualità” e “intertestualità” (7). Quest'ultimo è anche il termine usato dallo scrittore russo Mikhail Iampolski per la sua complessa indagine sui collegamenti figurativi tra i film (collegamenti a volte improbabili o “anomali”) nel suo libro del 1998 The Memory of Tiresias (8).
L'”intertestualità”, nel modo in cui la vede Iampolski, è un concetto particolarmente utile nel momento in cui si prendono in esame i molti processi consci ed inconsci attraverso cui le “fonti” – gli altri testi, o gli altri film – vengono utilizzate dai filmmaker; ma anche quando si considerano i grovigli associativi che costituiscono la forza e l'energia dei singoli film agli occhi degli spettatori (9). Come ha scritto Helen Grace a proposito del libro di Iampolski:
 
[l'intertestualità] concepisce la relazione tra il testo e il suo precursore meno in senso gerarchico e più come uno scambio, che aggiunge qualcosa sia al testo che alla sua fonte, e che in questo modo rompe con la logica de “l'originale da una parte e la copia dall'altra”, che ha dominato gran parte del dibattito in merito (10).
 
Come dice lo stesso Iampolski, “la sfera intertestuale di determinati testi può ben comporsi di 'fonti' scritte in realtà solo successivamente”.
 
Inserendo in un film la “fonte” di una figura cinematografica come sottotesto, l'intertesto può funzionare anche da meccanismo generativo. Il che comporta altresì un approccio nuovo al linguaggio cinematografico, distinto dall'analisi semiotica tradizionale, che in genere limita la sua lettura di una certa figura entro i confini di un dato film (o di un dato gruppo di film) (11).
 
Naturalmente qui Iampolski non si riferisce a forme di “inserimento” intese in senso letterale, bensì a un processo di lettura intertestualmente motivato (12). Ai tempi in cui uscì il libro, gli esperimenti con le forme digitali di testualità e con le “citazioni” accademiche audiovisive erano ancora relativamente agli albori. Ma un decennio e mezzo dopo, in un'epoca di studi multimediali e digitali (forme davvero di “Expanded Film Studies” [13]) sempre più numerosi, quale modo migliore di esplorare i collegamenti tra i film e gli “inserimenti” di vario genere se non prendendo alla lettera Iampolski, e sperimentando attraverso la loro messa in opera in senso tanto generativo quanto pratico?
 
 
 
Il video-saggio qui sopra è stato il mio primo tentativo di “mash-up” accademico (14). In esso ho voluto esaminare i collegamenti ovvi e quelli più oscuri tra i due film, in una maniera che colpisse e che fosse, auspicabilmente, più precisamente illuminante al riguardo della loro forma in quanto film, rispetto invece a quanto possano esserlo comparazioni compiute in un formato meramente non-audiovisivo. 
La forma che alla fine ha assunto il mio video True Likeness fu comunque ispirata da un testo scritto: il saggio di Brigitte Peucker del 2010 “Games Haneke Plays: Reality and Performance” (15). Avevo già studiato in precedenza la rappresentazione del filmare e del recitare nel film di Michael Haneke del 2000 Storie (titolo originale: Code inconnu: Récit incomplet de divers voyages). Il saggio di Peucker comincia delineando assai efficacemente alcune idee che coincidevano con il punto dal quale io stessa (così come altri) partivo (16).
 
Storie ci mette continuamente davanti a sequenze che acuiscono la confusione tra la realtà diegetica del film e la finzione dentro di esso, sequenze che acuiscono l'incertezza degli spettatori quanto allo status dell'immagine. […]
 
Muovendosi tra l'illusione e la realtà diegetica, Storie provoca nello spettatore un'incertezza decisamente disturbante: la sua dimensione ludica incrocia l'imbroglio sadico. Poi però le immagini sensazionali ci catturano di nuovo – quantomeno finché giochiamo il gioco spettatoriale del mettere insieme i suoi frammenti di narrazione, finché cerchiamo di decifrare il codice che governa il film. Anche questo codice rimane inconoscibile (17). 
 
Peucker ritiene che questa inconoscibilità cominci con la sciarada della bambina all'inizio del film di Haneke. Più avanti nel capitolo, compare la sua ipotesi assai originale per cui, perlomeno in alcune delle istanze citate, il film di Haneke prenda in prestito qualcosa dal film del 1960 di Michael Powell L'occhio che uccide. Il che per lei vale in particolar modo nel caso della storia “nouvelle vague” di Storie. Questa storia, uno tra i molti fili narrativi a protagonista multiplo del film di Haneke, vede Juliette Binoche interpretare Anne, un'attrice che convive con il suo partner Georges (Thierry Neuvic), un reporter di guerra che fotografa di nascosto i passeggeri della metro (cosa che riecheggia il progetto di Walker Evans Many Are Called) (18). Peucker scrive che “Nel film di Powell, il progetto sadomasochista del protagonista è quello di catturare su pellicola l'immagine quintessenziale della paura femminile; 'l'espressione vera della paura', come si ricorderà, è ciò che lo psicopatico – o il regista – vuole da Anne [in Storie]” (19). E argomenta in maniera estesa e convincente che, al di là dell'aspetto sopracitato, e al di là di qualche altra somiglianza narrativa tra Storie e il film di Powell, e di quello che lei definisce “il tono distaccato, freddo [e crudele]” di entrambi (20), “L'occhio che uccide innerva” l'intero film di Haneke. E aggiunge che il film di Powell funge da “glossa dei film di Haneke; da matrice possibile tanto per le loro mini-storie di abusi infantili quanto per la fascinazione modernista per l'auto-riflessività e per la forma” (21).
 
Quando ho cominciato a esplorare le versioni in video di ambo i titoli, non solo mi è stato facile trovare ulteriori prove audiovisuali delle brillanti osservazioni di Peucker su ciò che nello specifico L'occhio che uccide “presta” a Storie, ma ho anche potuto constatare che queste stesse osservazioni avrebbero potuto spingersi molto oltre. Approfondendo l'idea di “glossa” (una specie di “invisibile nota a margine” dei film di Haneke) di Peucker, mi ha colpito come L'occhio che uccide potesse pure venire sviluppato audiovisivamente, a mo' di macchina decrittante con la quale compiere una “cripto-analisi” dell'enigmatico e lacunosamente raccontato Storie. E visto che la sceneggiatura stessa de L'occhio che uccide fu scritta dal crittografo di guerra Leo Marks, ciò sarebbe ovviamente un classico funny game hanekiano.
 
Ci si augura che sarebbe una tautologia non necessaria riassumere con la scrittura tutto ciò che True Likeness già ci presenta coi suoni e le immagini, al riguardo dei collegamenti che instaura tra i due film. Quando però realizzai il video mi trovai ad annotare le seguenti osservazioni (22):
 
Ci sono sequenze di L'occhio che uccide che possono venire proiettate molto produttivamente come inizio, come fine o anche come eco trapiantata di molte delle sequenze notoriamente incomplete di Storie. (Ad esempio ho trapiantato la sequenza di Mark da piccolo che va a dire addio alla madre morente o già morta nel film-nel-film muto). Di tanto in tanto, la coordinazione tra la cinepresa e gli attori nei due film è inquietantemente simile, e di conseguenza si più ottenere un effetto inquietante facendo irrompere un film dentro l'altro e viceversa. Benché gran parte di tutto questo non sia stata inclusa nel mash-up finale (volevo che esso restasse abbastanza breve per via del contesto online in cui è stato pubblicato), mi è sembrato che i collegamenti a L'occhio che uccide di Storie gettassero un bel po' di luce sul continuo giocare, da parte di quest'ultimo, tra suono e silenzio nell'impiego che fa degli apparecchi di registrazione audio e video. E lo stesso si può dire della maniera in cui Haneke riproduce la visione sovra-esposta o quella oscurata, la quale riecheggia il modo in cui L'occhio che uccide rappresenta la cecità, la luce e il buio. C'è però un'osservazione sul suono che mi sarebbe piaciuto includere, sotto forma di un inserto in cui avrei mostrato l'impressionante similarità, in termini di ritmo e sensibilità, tra i percussionisti alla fine di Storie e il jazz nella sequenza dello screen test de L'occhio che uccide.
 
 
L'esperienza di realizzazione di questo mash-up mi ha portato in ultima analisi a dissentire energicamente da uno specifico elemento della tesi di Peucker: che L'occhio che uccide abbia un tono distaccato, freddo [e crudele] in corrispondenza di eventi raccontati che sono freddi e crudeli. Venire a contatto così tanto con la notevole partitura del film di Powell – proprio lavorandoci dentro – nonché con la sua assai espressiva dimensione visiva, mi ha fatto scoprire un film come minimo profondamente elegiaco, per quanto sicuramente anche auto-riflessivo, il quale riesce effettivamente a elaborare (nel senso in cui si può elaborare un lutto) gli effetti altrimenti irreversibili (nella storia raccontata) delle colpe dei padri che ricadono sui figli. Attraverso la giustapposizione, o la sovrapposizione, di un po' della sensibilità espressiva del film di Powell all'estetica più fredda e più “documentaria” di Storie, si può arrivare ad integrare il film di Haneke con un affetto fino a quel momento intenzionalmente incompleto. Il che costituirebbe un pendant visivo davvero provocatorio rispetto alle storie del film più recente, con i suoi personaggi adulti e non, che spesso piangono, hanno paura, sono confusi, e non vengono adeguatamente riconosciuti.
 
Con le loro precise giustapposizioni di materiali cinematografici, che si susseguono nel tempo e nello spazio reali, i video-saggi, o i video-assemblaggi, del tipo appena descritto possono portarci a contatto con l'”inconscio ottico” (23) di alcune istanze particolari di intertestualità. Indubbiamente, come già ho accennato, uno degli elementi che quel montaggio di sequenze che è True Likeness può mostrare con più precisione che qualsiasi altra forma è l'inquietante vicinanza tra come sono disposti cinepresa e attori in un film e come lo sono nell'altro. Il montaggio video allora non si limita a riferirci questo: ce ne fa anche fare esperienza, in maniera potente, sensoriale, in parte grazie alla sua estetica di morphing di grande carica emozionale. A mio modo di vedere, gran parte delle scoperte rinvenute e articolate nel corso della mia ricerca stanno in questo. Il mio video non si limita ad illustrare la tesi di Peucker su L'occhio che uccide e Storie, o quello che io ho da aggiungervi: esso amplifica tutto questo, e fornisce altresì nuove prove fenomenologiche ed epistemologiche dei collegamenti tra un film e l'altro.
 
Queste potenzialità, queste nuove scoperte che si possono raggiungere con le forme audiovisive di analisi del film, mi hanno portato a proseguire le mie esplorazioni videografiche dell'intertestualità. Dopo True Likeness, però, ho scelto di usare per il montaggio forme di simultaneità anziché di sequenzialità. Non che lo avessi deciso realmente in anticipo; è piuttosto qualcosa che è nato dalla curiosità di vedere che cosa può risultare possibile nell'analisi del film legata all'intertestualità impiegando gli schermi multipli e il picture-in-picture previsti nei programmi di montaggio non-lineare che stavo usando. Avevo però già fatto qualche ricerca sulle forme di split-screen nel cinema contemporaneo (24). E in alcuni altri miei lavori ho cominciato a riflettere anche su questa seconda forma di montaggio dal punto di vista del suo potenziale accademico e affettivo (25). 
 
Ecco qui sotto i quattro video di analisi del film comparativa a più schermi che ho fatto finora, insieme ad alcune note circa i loro propositi. Vi pregherei di vedere ognuno dei video prima di leggere il testo che gli corrisponde. 
 
 
Esperimento su (fra l'altro) come una comparazione intertestuale videografica possa anche essere di durata molto breve, ImPersona (26) trapianta, o “trasfonde”, occorrenze fuggevoli di un gesto analogo in due film svedesi: Persona (Ingmar Bergman, 1966) e Låt den rätte komma in / Lasciami entrare (Tomas Alfredson, 2008). Il sonoro della prima delle due sequenze prese dal film di Alfredson cambia; per il resto, tutti gli elementi originali delle sequenze vengono utilizzati giusto in scala ridotta (anche il timecode e lo schermo largo) affinché non venisse soltanto fornita una prova di queste minute somiglianze, ma ne fosse fatta anche un'esperienza diretta. Il video mette così in atto una tra le varie possibili intricate catene associative che hanno fatto la forza e l'energia del film di Alfredson (27), e anche – per un effetto di après coup (28) – del film di Bergman (29).
 
 
Garden of Forking Paths? è uno studio sincronico di una scena del Blackmail (30) muto di Hitchcock e della stessa in quello sonoro. Facendo vedere insieme le due versioni della sequenza, il video permette a chi vede di individuare svariati tipi di corrispondenze più o meno sottili, o anche differenze, tra i due film. Gli schermi di uguali dimensioni offrono la possibilità di una forma comparativa analoga a quella che Christian Keathley definisce sulla scorta di Wolfgang Schivelbusch (il quale ne parlava in relazione all'avvento del trasporto ferroviario) “percezione panoramica”, la facoltà di “percepire ciò che si distingue mentre scorre via indiscriminatamente fuori dal finestrino” e la “filosofia sintetica dell'occhiata” (31).
Più che un saggio, questo video è un assemblaggio, ma anche nell'ovvietà delle scelte estetiche che compie (usare la colonna sonora della versione sonora, sottolineare la diversa durata delle due sequenze annerendo, là dove si deve, la parte di schermo ormai superflua), sembra che abbia provocato in chi l'ha visto un effetto perturbante. Uno di essi lo ha definito “spettrale” (32). Di certo il film fa sorgere in chi vede la conturbante constatazione di uno sdoppiamento imperfetto, di una strana disgiunzione tra i suoi due schermi.
 
 
Questo video (33) è il primo di una serie di studi sulla comunanza estetica e affettiva di alcuni film diretti da Douglas Sirk, Todd Haynes e, in episodi che arriveranno prossimamente, Rainer Werner Fassbinder. Come True Likeness, questo video prende le mosse da osservazioni fatte da altri (in questo caso, lo stesso Todd Haynes) circa i collegamenti cinematografici che vi si vengono indagati, in questo caso quelli tra Secondo amore (Douglas Sirk, 1955) e il suo pastiche Lontano dal paradiso (Haynes, 2002), nel solco di quello che Richard Dyer intende come pastiche in rapporto all'affetto. Con un potenziale di così tanti elementi densamente intelaiati che assumono evidenza per mezzo del loro confronto esplicito e simultaneo, questo video spera di offrire una prova in movimento tanto dell'intelligenza del pastiche di Haynes quanto della precisione e della attenta cura che gli stanno dietro. Con le sue stesse scelte stilistiche, il video ha anche cercato di trasmettere la sensazione immediata dell'estetica del ripiegarsi e dispiegarsi reciproco di questi due film (34).
 
 
Questo video, pubblicato dapprima in uno studio sulle ferrovie e il cinema (35), è nato come parte di un progetto più ampio volto a gettare uno sguardo retrospettivo alla mia cinefilia di quando ero piccola dal punto di vista della ricercatrice in cinema che sono oggi. The Railway Children (Lionel Jeffries, 1970) è un film che da bambina vedevo in TV a ripetizione e con passione, e da allora l'ho visto e amato innumerevoli volte. L'ho visto indubbiamente molto prima che io ricordi di aver visto L'Arrivée d'un train en gare de la Ciotat (fratelli Lumière, 1895). Ho notato la somiglianza tra i due film solo quando ho rivisto il film di Jeffries di recente. Quando però ho approfondito ulteriormente la cosa, sono stata colpita da quanti richiami ci siano, e da quanto sbalorditivo risulti il pastiche del film più vecchio da parte di quello più recente. Il Perks di Bernard Cribbins fa rivivere il facchino della stazione di La Ciotat persino in dettagli come i baffi; sullo sfondo si intravede un carretto identico; non fosse in Technicolor, la donna con lo scialle sembrerebbe essere scesa dal treno del 1895.
Ho cominciato a immaginare e ipotizzare che il carattere inquietante della penultima scena di The Railway Children non fosse dovuto solo al suo alludere esplicitamente (e in musica) alle perplessità di Bobbie (Jenny Agutter) sul cosa ci stesse a fare di fianco ai binari, ma anche al tangibile persistere della scena originaria dei Lumière, col suo potente, spettrale ur-testo di un binario ferroviario assai più movimentato risalente a poco dopo che comparve il cinema. Come scrive Thomas Elsaesser nel suo notevole saggio sui traumi ferroviari – “Un treno può nasconderne un altro”,
 
né vicina né lontana, la Storia è diventata una specie di replay perpetuo, una spettrale danza dei non-morti. Come un treno che si muove, sembra che passi accanto a quello su cui siamo noi, magari in direzione opposta, coi passeggeri che ci guardano dai finestrini dei loro vagoni ben illuminati (36). 
 
Per me, e forse anche per altri spettatori, il carattere di après coup (37) di The Railway Children persisterà sempre pure in L'arrivée d'un train en gare de la Ciotat.
 
 
Anche nella più recente delle mie analisi di film (38) si trova, fra le altre cose, un ritorno a un film con una certa valenza personale, o meglio, a due film con una certa valenza personale: La donna che visse due volte, uno dei migliori film di Hitchcock, e Star Wars Episodio 5 – L'impero colpisce ancora (Irvin Kershner, 1980), che mi ricordo di aver visto con la mia famiglia tre anni prima che mi venisse detto che il padre che mi ha cresciuta in realtà non era mio genitore biologico. Non mi ero mai accorta di alcuna somiglianza specifica a livello estetico tra i due film. Ma per quanto riguardava me, il collegamento c'era già: avevo scritto a proposito di entrambi su Anagnorisis, uno dei miei blog accademici, nel quale, probabilmente per ovvie ragioni personali oltre che accademiche, mi ero proposta di indagare il leitmotiv dei momenti drammatici di riconoscimento o di scoperta personale, momenti che troviamo sia nel film di Hitchcock che in quello di Kershne (39). Mi sono accorta delle similarità profonde e degli echi rovesciati tra i due solo di recente, dopo aver visto alcune immagini a formato ridotto tratte dalle sequenze in questione, giustapposte una di fianco all'altra nel mio programma di montaggio video. E sì, l'esplorazione che ne è seguita ha suscitato dei momenti di riconoscimento davvero vertiginosi. Affinché la scoperta risultasse quanto più nitidamente possibile, ho di nuovo optato per split screen orizzontali di uguali proporzioni, ma ho cambiato gran parte della colonna audio di La donna che visse due volte, fino alla stoccata finale. La sequenza di quel film, cosa ancora più importante, l'ho altresì rallentata – se l'originale durava 1:28.5, adesso dura 2:35.8 – allo scopo di ottenere quella certa fluidità, e quegli effetti di sincronia, che mi è parso funzionassero di più rispetto a questo confronto, talvolta davvero impressionante. 
 
Come True Likeness e forse anche qualcun altro dei lavori citati sopra, questo video potrebbe suscitare in chi vede quei sospetti di “manipolazione autoriale” che sono all'ordine del giorno quando si tratta di film altamente melodrammatici, o di documentari. Il che può causare qualche difficoltà nel contesto della ricerca accademica, soprattutto viste le motivazioni in parte personali di quantomeno alcuni dei miei video, come già ho ammesso. Tali questioni, ad ogni modo, potrebbero non costituire limitazioni decisive per queste forme di analisi. A me sembra senz'altro che l'analisi videografica del film si muova all'interno della medesima zona “intersoggettiva” delle forme scritte di analisi del film e di critica cinematografica. Come sostengono, sempre a proposito di questa zona, Andrew Klevan ed Alex Clayton, “siamo immersi nel film così come è il critico a vederlo, e perciò siamo portati a condividere una prospettiva profondamente coinvolta” (40). Proprio come i saggi scritti, anche i video-saggi cercano di “stimolare la nostra memoria” (41) di un certo momento o di una scena di un film – proprio come la scrittura, cioè, non possono ripetere questi momenti o scene in maniera neutrale così come sono. In ambito accademico, anche la più semplice della scelta delle scene e senz'altro anche il più semplice dei montaggi sono forme di argomentazione, che ci siano o meno effetti estetici ulteriori. Ma a differenza dei saggi scritti, di solito i video saggi ci mettono effettivamente di fronte a una qualche forma di riproposizione di scene di film vere e proprie, e quindi sono obbligati a reggersi sulle proprie gambe, sulla sola forza di persuasione della loro evidenza audiovisiva. Il che può ovviamente essere uno dei loro vantaggi più grandi. Come scrive Christian Keathley a proposito dell'illuminante utilizzo dello split screen da parte di Matt Zoller Seitz nei suoi saggi sulle influenze ricevute dai film di Wes Anderson (42):
 
L'ipotesi che Truffaut abbia influenzato Anderson può essere convincente solo se viene scritta bene; il vedere simultaneamente delle clip dai film dell'uno e dell'altro rende molto più persuasiva la posizione critica secondo cui c'è stata influenza (43).
 
 
Tutti i video riportati qui sopra individuano possibilità fenomenologiche analoghe. Ognuno di essi permette allo spettatore di fare esperienza da sé in tempo reale delle immagini in movimento sincronizzate o in sequenza, e delle giustapposizioni sonore. Oltre che un'argomentazione audiovisiva (che riprende elementi di montaggio, messa in scena, titolazione, montaggio sonoro e altri effetti creativi), essi offrono un processo di visione attiva, di co-ricerca in tempo reale, di osservazione partecipante. A differenza dei testi scritti, non devono rimanere lontani da forme specificamente filmiche di produzione del senso affinché abbiano su di noi effetti conoscitivi. E i confronti che questi video mettono in opera possiamo sentirli oltre che apprenderli.
Gli aspetti attivi di questo medium raggiungono una particolare evidenza in quelle analisi, tra quelle riportate sopra, che si sviluppano in sincronia, che utilizzano lo split screen. Come scrive Donald G. Perrin, in uno studio del 1969 sulla comunicazione ad immagine multipla,
 
Nel montaggio in sequenza, il senso di un'immagine è determinato di volta in volta dal contesto di quello che c'è stato prima. Nei suoi aspetti temporali, il montaggio in sequenza è analogo al linguaggio verbale, nel quale diversi elementi in serie determinano il senso complessivo. Le immagini simultanee interagiscono tra loro nello stesso tempo, il che ha un certo peso nel momento in cui si intessono confronti e relazioni. […] L'immediatezza di questo genere di comunicazione permette a chi vede di elaborare una quantità più massiccia di informazioni in tempi molto brevi. […] Per quanto riguarda le comparazioni visuali, il fatto che le immagini simultanee siano più efficaci di quelle presentate in sequenza parrebbe proprio essere un assioma (44).
 
Giustapponendo elementi scelti di un film su più schermi, come spero di aver dimostrato più sopra, apre, per una visione che si orienti alla transtestualità, uno spazio critico autenticamente generativo. Questo spazio agevola gli spostamenti di un “occhio mobile” (45), un “occhio attivo”, “introcettivamente, soggettivamente all'opera” (46), in un'”operazione critica a strascico” (47) di continuo confronto in atto. In altre parole, i video invocano una postura percettivo/spettatoriale (48) che richiama da vicino quella che Keathley riconosce come centrale per la maniera “cinefila” di vedere i film (49). Questa postura a volte assomiglia pure a quella “captazione” oculare di determinati pattern che Laura Marks ritiene centrale per la “visualità aptica” (50). Come scrive Melinda Barlow a proposito del lavoro di Marks:
 
[Q]uando i nostri occhi si muovono lungo una superficie densamente strutturata, arrestandosi ogni tanto ma senza mai soffermarsi davvero, facendoci chiedere che cos'è che stiamo guardando esattamente, si comportano come gli organi del tatto (51).
 
Metodologie sensoriali di questo genere mi sembrano essere più che mai consone all'epistemologia e all'ermeneutica dell'intertestualità cinematografica, del déjà-viewing. Come ha scritto Adrian Martin, esse possono annoverare atti di reminiscenza o di riconoscimento “potentemente psichici e somatici”, fra i quali “il dimenticare, il distorcere o il rimodellare – in altre parole, tutto ciò che l'inconscio apporta all''atto creativo' del processo creativo del filmare” (52), così come pure a quello del guardare un film.
 
 
NOTE
 
(1) Mikhail Iampolski, The Memory of Tiresias: Intertextuality and Film. Berkeley: University of California Press, 1998, p. 47.
(2) Sergej Ejzenstejn, "Fuori campo" (1929), in Pietro Montani (a cura di), Il Montaggio, Venezia: Marsilio, 1986, pp.4-5.
(3) Hans Richter, “Der Filmessay: eine neue Form des Dokumentarfilms”, parafrasato in Nora Alter, “Memory Essays”, in Ursula Biemann (a cura di), Stuff It: The Video Essay in the Digital Age. Zurich: Edition Voldemeer, 2003, pp. 12-23, p. 13.
(4) Christian Keathley, “Comment on ‘Close Up: The Movie/Essay/Dream’”, in Scanners, 17 ottobre 2007 [http://blogs.suntimes.com/scanners/2007/10/close_up_the_movie_essay.html]. Consultato il 7 maggio 2012. Vorrei esprimere un caloroso ringraziamento a Chris per i suoi splendidi contributi al dibattito in corso sui video-saggi, nonché per gli spunti offerti dai suoi pionieristici lavori in questo ambito.
(5) Gérard Genette, Palinsesti. La letteratura al secondo grado. Torino: Einaudi, 1997.
(6) Catherine Grant, “La función de 'los autores': la adaptación cinematográfica transnacional de El lugar sin límites”, in Revista Iberoamericana, Vol. LXVIII, n° 199, Aprile-Giugno 2002, pp. 253-268. Traduzione inglese in: http://catherinegrant.wordpress.com/authorfunction/.
(7) Genette, Palinsesti, op. cit., pp.
(8) Catherine Grant, “Recognizing Billy Budd in Beau Travail: Epistemology and Hermeneutics of an Auteurist 'Free' Adaptation”, in Screen 43:1, Primavera 2002, pp. 57-73. Cfr. Iampolski, The Memory of Tiresias: Intertextuality and Film, op. cit.
(9) Mi rifaccio qui alla recensione del libro di Iampolski ad opera di Helen Grace comparsa su Screening the Past, 1 luglio 1999 [http://www.latrobe.edu.au/screeningthepast/shorts/reviews/rev0799/hgbr7a.htm]. Consultato il 28 maggio 2012.
(10) Ibidem.
(11) Iampolski, The Memory of Tiresias, op. cit., p. 246.
(12) David Bordwell la definisce una “motivazione transtestuale”. David Bordwell, Narration in the Fiction Film. London: Routledge, 1985, p. 29.
(13) Nel suo autorevole volume Expanded Cinema (New York: P. Dutton & co., 1970), Gene Youngblood ha trattato vari tipi di fare cinema che vanno al di là di quello commerciale mainstream, e che utilizzano gli effetti speciali, la computer art, la videoarte, gli ambienti multimediali, gli schermi multipli, l'olografia. Io credo che, grazie alle forme di tecnologia digitali user-friendly e di facile accesso, oggi stiamo assistendo all'emergere (e a un sempre più diffuso sdoganamento), di tutta una serie di forme di “Expanded Film Studies”. Cfr. il mio saggio “Expanded Film Studies” nel numero inaugurale di Frames Cinema Journal, estate 2012 [http://framescinemajournal.com].
(14) Prima di True Likeness, il mio primo video-saggio fu Unsentimental Education. Realizzato e messo online nel giugno 2009, esso esaminava alcuni motivi del film di Chabrol del 1960 Les bonnes femmes, e consisteva nella giustapposizione di clip e di immagini fisse, con una voce-over (ampiamente) pre-scritta. http://filmanalytical.blogspot.co.uk/2010/06/unsentimental-education-on-claude.html ; consultato il 28 maggio 2012. Prima che cominciassero i miei esperimenti pratici di analisi digitale del film, mi ero interessata alla cultura dei DVD e ho pubblicato un saggio in merito: Catherine Grant, “Auteur machines? Auteurism and the DVD”, in James Bennett e Tom Brown (a cura di), Film and Television After DVD. London e New York: Routledge, 2008, pp. 101-115. Il mio interesse personale nei video-saggi digitali si è fatto più intenso e, in senso stretto, pubblico, in seguito alla creazione del mio blog accademico Film Studies For Free (http://filmstudiesforfree.blogspot.com) nell'agosto 2008, nel quale indago, segnalo tramite link e valuto le occasioni di Film Studies online e accessibili senza restrizioni. Riguardo alle potenzialità multimediali dell'editoria digitale, cfr. Christian Keathley, “La Caméra-Stylo: Notes on Video Criticism and Cinephilia”, in Alex Clayton e Andrew Klevan (a cura di), The Language and Style of Film Criticism. London: Routledge, 2011), p. 180.
(15) Brigitte Peucker, “Games Haneke Plays: Reality and Performance”, in On Michael Haneke. Detroit: Wayne State University Press, 2010, pp. 15-33.
(16) Probabilmente soprattutto Girish Shambu nel suo “Auto-dialogo” su Storie, del 13 febbraio 2006 [http://girishshambu.blogspot.co.uk/2006/02/code-unknown-autodialogue.html ; consultato il 28 maggio 2012]; Thomas Elsaesser nel suo capitolo “Michael Haneke's Mind Games” in Roy Grundmann (a cura di), A Companion to Michael Haneke, Oxford: Wiley-Blackwell, 2010; David Sorfa e la sua chiosa sulla “labilità dei confini tra l'Io e il Non-Io” nel suo articolo “Uneasy domesticity in the films of Michael Haneke”, in Studies in European Cinema Vol. 3, N° 2, 2006, pp. 100-1.
(17) Peucker, “Games Haneke Plays”, op. cit., pp. 16-17.
(18) Darren Hughes, “Code Unknown (2000)”, in Long Pauses, 13 febbraio 2006. [http://www.longpauses.com/blog/2006/02/code-unknown-2000.html ; consultato il 28 maggio 2012].
(19) Peucker, “Games Haneke Plays”, op. cit., p. 21.
(20) Ivi, p. 22.
(21) Ivi, p. 26.
(22) Le ho pubblicate in forma di note, insieme al video stesso, qui: “True likeness: Peeping Tom and Code inconnu/Code Unknown”, in Filmanalytical, 26 giugno 2010 [http://filmanalytical.blogspot.co.uk/2010/06/true-likeness-peeping-tom-and-code.html ; consultato il 28 maggio 2012].
(23) Come scrive Marianne Hirsh: “[In “Das optisch Unbewußte [L'inconscio ottico]” (1931), Walter Benjamin] tratta dell'invisibile presente dentro il visibile, quei movimenti corporei troppo piccoli per essere colti dall'occhio umano, e troppo automatici per influire sulla coscienza umana. […] La cinepresa rivela questi movimenti […]”. In Marianne Hirsh, Family Frames: Photography, Narrative and Postmemory. Cambridge: Harvard University Press, 1997, p. 117.
(24) Oltre al mio articolo del 2008 sull'uso dello split-screen in Timecode di Mike Figgis (“Auteur machines? Auteurism and the DVD”, op. cit.), ho anche realizzato il video “Establishing Split: On REQUIEM FOR A DREAM”, in Filmanalytical, novembre 2010 [http://filmanalytical.blogspot.co.uk/2010/11/establishing-split-requiem-102-project.html ; https://vimeo.com/16397534 ]. Anche su Film Studies For Free c'è un mio pezzo accademico sullo split-screen al cinema: filmstudiesforfree.blogspot.com/2010/11/split-screen-studies.html.
(25) Conoscevo già il notevole video-saggio di Cristina Álvarez López “Dobles vidas, segundas oportunidades” (in Transit. Cine y otros desvíos, 12 agosto 2011 [http://cinentransit.com/inland-veronica/]), che usa lo split-screen per  confrontare La doppia vita di Veronica (La Double vie de Véronique, Krzysztof Kieslowski, 1991) e Inland Empire (David Lynch, 2006). Ho tradotto la versione lunga del saggio che lo accompagnava “Double Lives, Second Chances”, e sia quello che il video appariranno nel primo numero di Frames Cinema Journal (che comparirà online nell'estate 2012: http://framescinemajournal.com/).
(26) Pubblicato dapprima in “Video Essays and Scholarly Remix: Film Scholarship’s Emergent Forms – Audiovisual Film Studies, Pt 2” (in Film Studies For Free, 20 marzo 2011 [http://filmstudiesforfree.blogspot.co.uk/2012/03/video-essays-and-scholarly-remix-film.html]), questo video è stato poi presentato nel workshop “Video Essays: Film Scholarship’s Emergent Form” al convegno della Society for Cinema and Media Studies, a Boston, il 22 marzo 2012.
(27) Anche qui traggo spunto dalla recensione di Grace del Memory of Tiresias di Iampolski.
(28) Après coup (Nachträglichkeit) è un concetto sviluppato a partire dal lavoro di Freud sulle nevrosi traumatiche e sulla teoria della seduzione. Nel suo eccellente studio sull'importanza di questo concetto per il cinema, Paul Sutton scrive: “L'idea di una spettatorialità Nachträglichkeit serve a esprimere il dinamismo dell'esperienza spettatoriale, fa riferimento all'aspetto ricostruttivo e creativo della spettatorialità. Questo processo di spettatorialità ricrea i film che “ricorda” e formula una specie di amore a prima vista (sempre/già a seconda vista) del cinema, l'espressione di una specie di après coup del coup de foudre”.
(29) ImPersona è anche un pezzo parallelo alla mia riflessione in video sulla teoria dell'analisi audiovisiva del film Touching the Film Object [http://filmanalytical.blogspot.co.uk/2011/08/touching-film-object-notes-on-haptic-in.html, consultato il 28 maggio 2012]
(30) Pubblicato dapprima come “Garden of forking paths? Hitchcock's Blackmails – a real-time comparison”, in Film Studies For Free, 12 marzo 2012 [http://filmstudiesforfree.blogspot.co.uk/2012/03/garden-of-forking-paths-hitchcocks.html]. Cfr. anche “On Hitchcock's Rope and Blackmail. Or, Technicist Dreams in Videographic Film Studies”, in Filmanalytical, 14 maggio 2012 [http://filmanalytical.blogspot.co.uk/2012/05/on-hitchcocks-rope-and-blackmail-or.html].
(31) Christian Keathley, Cinephilia and History: Or, The Wind in the Trees. Bloomington and Indianapolis: Indiana University Press, 2006, p. 43; Wolfgang Schivelbusch, The Railway Journey. Berkeley: University of California Press, 1986, pp. 57-8.
(32) Cfr. il commento di Justin Horton [http://filmstudiesforfree.blogspot.com/2012/03/garden-of-forking-pathshitchcocks.html?showComment=1331902437844#c5504601629398401987 ; consultato il 28 maggio 2012.
(33) Pubblicato inizialmente in “All That Film Pastiche Allows: Fifty+ Online Studies”, in  Film Studies For Free, 15 aprile 2012 [http://filmstudiesforfree.blogspot.com/2012/04/all-that-filmpastiche-allows-fifty.html ; consultato il 28 maggio 2012].
(34) Laura U. Marks, “Information, secrets, and enigmas: an enfolding-unfolding aesthetics for cinema”, in Screen, Vol. 50, n° 1, 2009: cfr. soprattutto pp. 96-7.
(35) Catherine Grant, “On railways and the Movies”, in Film Studies For Free, 4 maggio 2012 [http://filmstudiesforfree.blogspot.com/2012/05/en-train-de-cinema-railways-andmovies.html ; consultato il 28 maggio].
(36) Thomas Elsaesser, "'One train may be hiding another': private history, memory and national identity”, in Screening the Past 6 (1999) [http://www.latrobe.edu.au/screeningthepast/reruns/rr0499/terr6b.htm; consultato il 28 maggio 2012].
(37) Nel suo studio sull'après coup al cinema (op. cit., p. 390), Paul Sutton scrive che “il collegamento esplicito tra trauma, treni e cinema delle origini continua ad esserci, anche nel cinema contemporaneo mainstream, con l'estetica del trauma o dell'impatto traumatico”.
(38) Fatta su richiesta specifica da parte di Mediascape di contribuire con un saggio sui miei esperimenti di analisi videografica di film.
(39) Cfr. Catherine Grant, “Varieties of The Reveal”, in Anagnorisis, 25 maggio 2008 [http://catherine-grant.blogspot.co.uk/2008/05/varieties-of-reveal.html]; “Necklaces and Attentive Recognition 1: Hitchcock's Vertigo”, in Anagnorisis, 7 luglio 2008 [http://catherine-grant.blogspot.co.uk/2008/07/necklaces-and-attentive-recognition-1.html]; entrambi consultati il 28 maggio 2012.
(40) Andrew Klevan e Alex Clayton, “Introduction”, in Clayton e Klevan (a cura di), The Language and Style of Film Criticism. London: Routledge, 2011, p. 9.
(41) Ibidem, corsivo mio.
(42) Cfr. Matt Zoller Seitz, “The Substance of Style, Pt. 1: Wes Anderson and his pantheon of heroes (Schulz, Welles, Truffaut)” in Moving Image Source, 30 marzo 2009 [http://www.movingimagesource.us/articles/the-substance-of-style-pt-1-20090330]. È il primo di una serie di cinque video-saggi che analizzano le influenze-chiave recepite dallo stile di Wes Anderson. La seconda parte tratta di Martin Scorsese, Richard Lester, e Mike Nichols. La terza Hal Ashby. La quarta J.D. Salinger. La quinta è una versione con note del prologo de I Tennenbaum.
(43) Christian Keathley, “La Caméra-Stylo: Notes on Video Criticism and Cinephilia”, in Andrew Klevan e Alex Clayton (a cura di), The Language and Style of Film Criticism. London: Routledge, 2011, p. 180.
(44) Donald G. Perrin, “A Theory of Multiple-Image Communication”, in Educational Technology Research and Development, 17.4 (dicembre 1969).
(45) Roger Cardinal, “Pausing Over Peripheral Detail”, in Framework 30-31 (1986), pp. 112-130. Citato in Keathley, Cinephilia and History, op. cit., p. 42.
(46) Vivian Sobchack, “The Active Eye: A Phenomenology of Cinematic Vision”, in Quarterly Review of Film and Video, 12.3 (1990), pp. 21-36, p. 24. Citato in Keathley, Cinephilia and History, op. cit., p. 40.
(47) Paul Willemen, Looks and Frictions. Bloomington: Indiana University Press, 1994, p. 238. Citato in Keathley, “The Cinephiliac Moment”, op. cit.
(48) Keathley, Cinephilia and History. op. cit., p. 41.
(49) Ivi, p. 6.
(50) Cfr. la mia chiosa e il mio video saggio a proposito del lavoro di Marks e del concetto di aptico che vi si sviluppa in relazione all'analisi di film videografica:  “Touching the Film Object? Notes on the 'Haptic' in Videographical Film Studies”, in Filmanalytical, 29 agosto 2011 [http://filmanalytical.blogspot.co.uk/2011/08/touching-film-object-notes-on-haptic-in.html; consultato il 28 maggio 2012].
(51) Melinda Barlow, “[Review of] Touch: Sensuous Theory and Multisensory Media”, in Canadian Journal of Film Studies, autunno 2003 [http://www.filmstudies.ca/journal/pdf/cj-filmstudies122_Marks_touch.pdf; consultato il 28 maggio 2012].
(52) Adrian Martin, “Film Remakes (review)”, in The Velvet Light Trap, 61 (primavera 2008), pp. 60-62, p. 62.