“Il cinema è duro, Antonio… Soffrite troppo!”

“Ma è la mia vita.”

(La modella/Heidi Komarek ad Antonio/Maurizio Nichetti)

 

1. Quando Maurizio Nichetti presenta al cinema Ladri di saponette, nel febbraio 1989, il decennio è agli sgoccioli, e non è stato certo memorabile per il cinema italiano: scomparsi o rimossi i vecchi maestri, esauriti i “generi di profondità”, in mancanza di un ricambio generazionale la produzione langue fra una inesorabile emorragia di pubblico e un cinema di consumo sempre più bolso e paratelevisivo (la commedia di Castellano & Pipolo, ad esempio, o i film nostalgici -e non- dei Vanzina).

Anche la generazione dei “nuovi comici”, fra i quali Nichetti era stato catalogato dopo il suo primo lungometraggio,  Ratataplan (1979), si era rivelata assai meno compatta di quanto la stampa ed una certa critica avevano voluto frettolosamente credere[1]. Carlo Verdone, ad esempio, all'indomani dell'esordio, dà prova di grande fiuto commerciale ponendosi in continuità con la commedia dei “vecchi”, facendosi persino dirigere da Sordi (In viaggio con papà, 1982), per orientarsi in seguito verso un cinema agrodolce, magari in chiave generazionale (Compagni di scuola esce nel 1988). Più coccolato dalla critica, anche Troisi alterna le proprie regie a partecipazioni da interprete in film altrui (in particolare Ettore Scola , con il quale gira tre film, due dei quali proprio nel 1989). Nuti, separatosi dai “Giancattivi”, inaugura una serie di film sempre più scialbi e sempre più di successo. Infine Benigni, che dopo il timido esordio nella regia nel 1983, si avvia, a partire da Non ci resta che piangere (1984, realizzato con Troisi), a diventare un campione di incassi: il suo terzo film da regista, Il piccolo diavolo, uscito pochi mesi prima di Ladri di saponette, si rivelerà il trionfatore della stagione cinematografica.

2. Gli anni Ottanta di Nichetti sono però anni di sperimentazioni linguistiche. Consapevole dell'impossibilità di ripetere l'exploit del film d'esordio, unisce la  commedia al tradizionale slapstick in Ho fatto splash (1980). Dopo una pausa di due anni, realizza il fantascientifico Domani si balla!. Ma la Vides di Cristaldi, travolta dalla costosissima lavorazione del felliniano E la nave va…, non riesce ad assicurare al film una adeguata distribuzione, ed è un insuccesso. Nichetti passa così alla Tv con Quo vadiz? (1984) e Pista! (1986), che gli danno grande popolarità[2]; accetta di dirigere un film “su commissione” con protagonista Nino Frassica (Il bi e il ba, 1985, diventato quasi cult grazie agli innumerevoli passaggi televisivi); partecipa come attore, fra gli altri, a Bertoldo, Bertoldino e Cacasenno di Monicelli (1984) e a un episodio di Sogni e bisogni di Sergio Citti (1985); soprattutto, ritorna a dirigere spot pubblicitari[3]. Nel cassetto, un cortometraggio-test del 1982 per un film a tecnica mista (che diventerà nel 1991 Volere Volare) e, dal 1986, la sceneggiatura di Ladri di saponette, frutto in parte delle sue esperienze in Tv e nel mondo della pubblicità.

3. L'apparecchio televisivo fa la sua comparsa nel cinema nichettiano già in Ho fatto splash, nel quale il protagonista (addormentatosi, bambino, davanti a uno show di Nilla Pizzi per svegliarsi vent'anni dopo) partecipa alle riprese di uno spot pubblicitario, riuscendo persino a coniare lo slogan- tormentone che dà il titolo al film. In Domani si balla! Nichetti arriva a mettere in scena una società quasi ballardiana, fatta di schermi e network televisivi e di esseri umani sempre più fobici e robotizzati, incapaci persino di ascoltare il muto messaggio di salvezza inviato sulla terra da alcuni alieni mélièsiani. Nel 1982, tutto sommato, il virtuale non aveva ancora sostituito la realtà, e il cinema poteva contribuire a lanciare un messaggio di liberatoria leggerezza: i due protagonisti, scalcagnati operatori televisivi (Mariangela Melato e lo stesso Nichetti) precipitati dopo rocambolesche vicende in una discarica, si trovavano a danzare tra i rifiuti sotto lo sguardo di una platea  cinematografica, subito contagiata dalla loro frenesia.

Sette anni dopo, Ladri di saponette inizia in un certo senso laddove finiva il film precedente,  dichiarando da subito la propria natura meta-discorsiva con una (falsa) soggettiva iniziale[4]. E prosegue mettendo in scena il regista Maurizio Nichetti as himself, ospite in uno studio televisivo per presentare il suo nuovo film, Ladri di saponette, un omaggio “filologico” al neorealismo italiano, che narra la precaria esistenza del disoccupato Antonio Piermattei e della sua famiglia nella disastrata Italia del Dopoguerra. Le cose non vanno troppo bene: non solo il regista riesce a seminare lo scompiglio nello studio, lacerandosi i vestiti e rovesciando un barattolo pieno di vernice, ma è anche costretto ad assistere in silenzio ai vaniloqui di un critico[5] che presenta il film senza neppure averlo visto. Come se non bastasse, durante la messa in onda cominciano a verificarsi strani scambi fra i personaggi del film e quelli degli spot che lo interrompono di quando in quando. Nichetti cerca in tutti i modi di riprendere in mano la propria creazione, arrivando persino ad entrare nel film per rimettere tutto a posto. Nulla da fare: sotto gli occhi annoiati di una famiglia che come tutte le sere (non) guarda la Tv, il regista finisce per essere fagocitato dal mezzo televisivo.

Più complicato da riassumere che da vedere, Ladri di saponette segna l'inizio del secondo periodo della filmografia nichettiana. Da qui in poi l'attore-regista milanese non si limiterà più a rinverdire i fasti di una grande tradizione comica (Keaton, Laurel & Hardy, Tati e altri), ma svilupperà, film dopo film, una forma di commedia fantastica in cui le gag si fanno più rarefatte, quasi collaterali rispetto alla trama, e in cui la stessa “maschera” comica del protagonista tende a perdere centralità rispetto alle figure di contorno (si vedano ad esempio le ottime caratterizzazioni di Renato Scarpa e Caterina Sylos Labini) o a scomparire: raddoppiandosi (è il caso del Nichetti-regista e del Nichetti-Piermattei, senza baffi né occhiali, in Ladri di saponette), moltiplicandosi (i cinque “Stefano” di Stefano Quantestorie, 1993),  addirittura trasformandosi (il cartoon di Volere Volare).

4. Per motivi di spazio non ci addentreremo nell'analisi dei molteplici livelli di cui è composto il film, cosa che altri hanno già fatto in altra sede[6] – e molto meglio di quanto potremmo fare noi. Al di là dell'innegabile perizia nella costruzione en abîme, infatti, quello che qui interessa è osservare come dopo un quarto di secolo Ladri di saponette sia più attuale che mai. All'epoca della sua uscita, registi e intellettuali, capeggiati da un ancora sconosciuto Walter Veltroni, si stavano scagliando, al grido di “Non si interrompe un'emozione”, contro un altrettanto sconosciuto Silvio Berlusconi, “reo” di massacrare i film trasmessi dalle sue televisioni con raffiche di spot pubblicitari. Il film di Nichetti (il quale peraltro non aveva sottoscritto l'appello veltroniano e aveva realizzato Ladri di saponette in collaborazione con la berlusconiana Reteitalia[7]) venne preso quindi per un semplice pamphlet contro gli abusi delle televisioni private[8]. O, nel migliore dei casi, semplicemente come un confronto, pieno di rimpianto, fra il mondo genuino dell'Italia “povera ma bella” degli anni Quaranta e la volgarità degli opulenti, “edonistici” anni Ottanta[9].

In realtà l'obiettivo di Nichetti è ben più alto: dietro la patina di divertimento “post-moderno”, vagamente oulipien, Ladri di saponette ci appare da un lato come una pessimistica (e profetica) riflessione sulla marginalizzazione del cinema all'interno dei media; dall'altro, come la constatazione del definitivo trionfo dell'immaginario sul reale. Tutto il film è ambientato in spazi chiusi (lo studio televisivo, l'appartamento, lo stesso televisore) che rimandano ad un altrove (il film nel film, la pubblicità) assolutamente fittizio. Non c'è letteralmente più spazio per la dimensione urbana/umana che caratterizzava i primi film di Nichetti,[10] poiché  nessuna immagine rimanda più alla realtà, ma solamente ad altre immagini: tutto è citazione, pastiche, falsificazione (lo stesso “film nel film” non è forse il rifacimento di un altro film?[11]).

Così, mentre il finale di Domani si balla! ci ricordava come il cinema possieda (ancora?) una forza dirompente e liberatoria, Ladri di saponette si chiude sulle grida inascoltate del regista (“VOGLIO USCIREEE!!!”), ormai prigioniero dello schermo televisivo, davanti a una telespettatrice indifferente che lo mette a tacere spegnendo l'apparecchio.

NOTE

[1] È probabilmente il settimanale L'Espresso (n.44 del 4 novembre 1979) a lanciare l'espressione, mettendo Nichetti in copertina e titolando "Invadono l'Italia i nuovi comici". All'interno, un articolo firmato Dante Matelli fa confluire tra i "nuovi comici", oltre allo stesso Nichetti (citato quasi di sguincio), Verdone (che sta preparando Un sacco bello), i "Giancattivi" Alessandro Benvenuti, Athina Cenci e Francesco Nuti, fino a un improbabile Bracardi e ad un assai poco comico Nanni Moretti. Insomma, nient'altro che un'etichetta buona à tout faire.

[2] Cfr. Ezio Alberione, Nichettivù, in Massimo Causo, Carlo Chatrian (a cura di), Maurizio Nichetti. I film, il cinema e…, Cantalupa, Effatà Editrice, 2005, pp. 108-115.

[3] Attività che lo stesso Nichetti aveva svolto, a partire dal 1973, presso la Bozzetto Film.

[4] In anticipo sullo Scorsese di Goodfellas (1990) e sui Coen di Barton Fink (1991).

[5] Interpretato con intelligente autoironia da Claudio G. Fava nei panni di se stesso.

[6] Si veda Augusto Sainati, Il visto e il visibile: sul comico nel cinema, Pisa, ETS, 2000, pp. 85-89.

[7] Intervistato da Nuccio Orto nel 1990, Nichetti spiegava: "… Non avevo fatto un film politico, ma un film comico che poneva il problema nella sua complessità […] Da due anni lavoravo al film per dire queste e altre cose, quindi mi sembrava riduttivo alla fine del lavoro mettere una firma […] aderire a una protesta che in fondo limitava l'analisi del problema ad un rifiuto della pubblicità" (Nuccio Orto, Maurizio Nichetti. Un comico, un autore, Chieti, Métis, 1990, pp. 72-73).  Una posizione ribadita quindici anni dopo: " La cosa mi sembrava riduttiva, perché  per me era un film contro la televisione in generale. Anche allora cioé io non facevo differenza fra Tv pubblica e Tv privata, avevo lavorato per entrambe…" (Il mio mestiere è comunicare. Conversazione con Maurizio Nichetti di Massimo Causo e Carlo Chatrian, in Causo, Chatrian, op. cit., p. 52).

[8]   Svincolato dall'asfissiante dibattito nostrano, altrove Ladri di saponette ha dato vita a riflessioni di ben altra portata: si veda Jonathan Rosenbaum, Chicago Reader, 14 settembre 1990 (disponibile online qui: http://www.jonathanrosenbaum.com/?m=199009).

[9] Cfr. Roberto Escobar, Il Sole-24 Ore, 26 febbraio 1989. Al contrario, il film vinse il primo premio al Festival di Mosca per i motivi opposti:  "Alla proiezione c'erano duemila persone che urlavano perché vedevano la loro vita in bianco e nero, contaminata dalla vita consumistica occidentale" (Nichetti in Causo, Chatrian, op. cit.  p. 56).

[10] Cfr. Massimo Rota, Storie di una città, in Causo, Chatrian, op. cit. pp. 92-97.

[11] Sempre a proposito di citazioni, la stessa famiglia di telespettatori (Carlina Torta e Massimo Sacilotto) è ripresa da Ho fatto splash (il cui slogan, oltretutto, fa capolino durante un'interruzione pubblicitaria).

LADRI DI SAPONETTE, regia di Maurizio Nichetti, Italia 1989, 82' (Mustang Entertainment – Cecchi Gori Home Video)