Prima l’alba, poi il tramonto, ora la notte. Il tempo fa il suo giro e il cerchio cinematografico di una giornata o poco più (a che ora cominciava l’avventura dei due innamorati di Prima dell’alba?) ha impiegato quasi vent’anni a unire le sue estremità, dal primo film della trilogia di Jessy e Céline, cioè di Ethan Hawke e Julie Delpy, più la loro guida Richard Linklater, che era del 1993, passando per il 2004 di Before Sunset – Prima del tramonto e ora per il 2013 di Before Midnight, presentato lo scorso febbraio al Sundance e a Berlino e uscito a giugno nelle sale americane.
Nel frattempo, Jessy e Céline sono sempre stati lì, giovani da interrail a Vienna, adulti seducenti a Parigi e finalmente insieme oggi, in vacanza su un’isola greca, entrambi maturi e un po’ sciupati ma ancora bellissimi, con due gemelle ancora bambine e un figlio adolescente avuto da lui dal matrimonio precedente.
Come sempre, anche questa volta (chissà se l’ultima) noi spettatori siamo lì con loro, non potrebbe essere altrimenti: un film e un progetto del genere li vivi dal di dentro, altrimenti li molli immediatamente. E se mai ce ne fosse importato qualcosa, di Jessy e Céline, o anche di Ethan Hawke e Julie Delpy, che quando vestono questi panni sono entrambi il doppio di loro stessi, mimetici e mimetizzati, se mai ce ne fosse importato qualcosa, siamo sollevati all’idea di sapere che ce l’hanno fatta, che le cose tra loro siano durate e durino ancora. Al terzo capitolo, come se non ci si fosse mai lasciati, loro e noi insieme, ci ritroviamo a ricordare i trascorsi, a goderci il presente, a ipotizzare un futuro.
Perché prima di Jessy e Céline, il vero protagonista della trilogia è il tempo, fin troppo facile riconoscerlo. Il tempo come durata delle scene, come scarto tra un prima e un dopo, come terra piatta e desolante sopra la quale costruire, distruggere e forse ricomporre una relazione. I dialoghi sono tutto in Before Midnight, e dai dialoghi, a partire da un parola, una frase, un passo falso in quella sfida a due che è la coppia, nascono lenti e crescono devastanti i litigi, le discussioni, le parole di troppo che fanno dimenticare il passato e portano a un passo dalla separazione. Il tempo è soprattutto quello presente, dunque, e come tale si offre nella sua piattezza, nella sua noia. Linklater gioca sulla tenuta stilistica di uno stile invisibile, su campi e controcampi infiniti (in macchina, a tavola), su carrelli a precedere che inquadrano Jessy e Céline o sui long shot che osservano i loro scontri verbali. In scena non c’è l’amore, no no, ma la durata di una relazione.
Per questo Before Midnight è tutto ciò che una commedia non può e non dovrebbe essere: il racconto dell’orribile verità che contraddistingue l’amore e che giustamente Hollywood, nei tempi andati così come in quelli attuali, non si è mai sognata di mettere in scena. Dicono l’abbia fatto anche Judd Apatow con Questi sono i 40, ma le sue verità sono costruite per diventare un manuale d’uso: anche Linklater costruisce e pesa le situazioni al millimetro, figuriamoci, ma è capace di prendersi il tempo che ci vuole, di lasciare che siano i suoi attori e la macchina da presa a decidere quando e come tagliare o dare lo strappo che fa cambiare il passo. Il cinema c’è, ma sceglie di non staccare e di stare a guardare.
Il problema in fondo è che l’amore – la materia narrativa per eccellenza – in realtà è troppo noioso per essere raccontato con una commedia: a pensarci bene ha poco a che fare pure con il cinema e con i desideri degli spettatori. La prospettiva dell’amore o, meglio ancora, il desiderio dell’amore, quelli invece sì, quelli funzionano da sempre. Ma l’amore vissuto, no.
L’amore vissuto, diversamente da quello che fa il pur volenteroso Apatow, va oltre il genere, oltre la narrazione, e appartiene piuttosto a un limbo indistinto dove il senso di realtà influenza ogni sensazione e dove la familiarità tra i personaggi e lo spettatore conta più di qualsiasi aspetto formale del cinema stesso. E infatti Before Midnight rinuncia a qualsiasi tipo di costruzione che non riguardi ciò che succede dentro l’inquadratura e non coinvolga i soggetti dell’amore stesso, i corpi e le teste parlanti dei due innamorati, accettando il peso (altrimenti difficile da tollerare) di un’ambientazione mediterranea da ufficio turistico, di una musichetta da filmino delle vacanze e di stacchi di montaggio da sitcom.
A contare sono lo snodarsi della dolorosa banalità di ogni relazione che funzioni e ogni tanto si intoppi, l’interazione naturale tra Hawke e la Delpy, la consapevolezza di saperli fittizi e il desiderio di averli per veri; soprattutto, a contare è la normale eccezionalità di un’esperienza uguale a milioni di altre nella vita vera. Ma non è la vita, e anche qui lo sappiamo fin troppo bene: è il miracolo di un amore che si rende visibile e credibile. Cosa che solo il cinema può mettere in scena, avendo dalla sua il tempo e i corpi.
Before Midnight realizza così il sogno di una finzione che dura il tempo di una vita e di un cinema che può vivere oltre se stesso, ricominciando ogni volta non da capo, ma un poco più avanti della volta precedente, nove anni fa con il ritrovamento dopo l’abbandono e ora con la normalità del quotidiano. Non c’è bisogno di raccontare nulla, se non la dinamica di una coppia che gestisce la propria vita come milioni di altre e proprio per questo, per essere credibile, non può e non deve separarsi. Altrimenti, addio alla credibilità e al sogno. Addio, soprattutto, a quello stato di grazia dove il desiderio incontra il senso di realtà, unendo su un solo piano il massimo della finzione con il massimo della banalità.