Il cinema di Agnès Varda, pur sfuggendo alla classificazione rigida dei generi, delle correnti e degli stili, è immediatamente riconoscibile. Oltre ad alcuni film di finzione, la sua opera è composta infatti da una gran quantità di testi ibridi, a cavallo tra documentario e, appunto, finzione. Una costante segna il lungo arco della sua attività registica: la narrazione, la potenza fabulatrice, il bisogno di raccontare se stessa e il mondo attraverso quelle che potremmo definire, preferibilmente, audioimmagini, visto il ruolo che nei suoi testi assumono i suoni, e in particolare le voci, prima fra tutte la sua voce. Così, il taglio narrativo caratterizza tanto un film di finzione come Cléo de 5 à 7 (1961), quanto un documentario come Les dites cariatides (1984), nel quale l'occhio e la voce di Agnès ci guidano attraverso le strade di Parigi per farci ammirare le cariatidi poste sulle facciate dei palazzi. Ed è proprio questo il primo elemento da sottolineare con forza parlando del suo cinema, anche perché, col passare del tempo, ne è diventato sempre più cifra distintiva: la potenza narrativa si irradia a partire da un punto di vista – è il caso di dirlo –, che è insieme uno sguardo e una precisa sensibilità. L'io di Agnès non ci abbandona mai nel percorso narrativo che ci viene proposto, mentre la realtà viene documentata attraverso un filtro soggettivo e sentimentale che interpella costantemente lo spettatore, costringendolo, oltre che a prendere posizione, soprattutto ad assumere, sì, il dato reale ma per abbandonarsi, poi, ad un percorso immaginativo personale.
 
Sono anni, ormai, che nelle stanze della sua abitazione di rue Daguerre, dove ha sede anche la casa di produzione CinéTamaris, Varda edita, con la cura di una abilissima artigiana, i dvd dei film suoi e del marito, Jacques Demy. Ogni dvd è un nuovo progetto audiovisivo e narrativo, in cui vengono commentate motivazioni o scelte di regia, in cui al film o al documentario preesistente vengono ad aggiungersi appendici o aggiornamenti. Seduta in giardino, Agnès si rivolge a noi per raccontarci com'è nato un progetto e come si è sviluppato, sul momento e nel tempo. Ci racconta e si racconta. È questo lo spirito con cui ha licenziato, pochi mesi fa, un cofanetto contenente ben 22 dvd e che porta il titolo di Tout(e) Varda. Preoccupa, ogni volta, l'aspetto definitivo che sembrano avere alcuni suoi lavori, come nel caso di Les plages d'Agnès (2008), un autoritratto nel quale ripercorre la storia del suo cinema attraverso un intreccio sapiente di materiali antecedenti e nuove idee, in parte già presenti in una importante mostra-istallazione presentata presso la Fondation Cartier nel 2006 con il titolo L'île à elle (1). Pur augurandoci che il Tout(e) sotto cui il cofanetto dvd raccoglie la produzione della regista sia presto superato da nuovi progetti e film, va detto che questa operazione editoriale consente allo spettatore di attraversare tutto il percorso di ricerca della regista compiuto finora, rintracciando sia la tensione tra realtà e finzione, presente fin dagli esordi e che nel corso del tempo si è mantenuta altissima, sia l'aspetto soggettivo di un cinema che ha spesso toccato due generi narrativi confinanti come l'autobiografia e l'autoritratto.
 
 
Carnets de notes d'une femme à la caméra
 
All'origine del narrare audiovisivo di Agnès Varda c'è l'immagine fissa. La doppia natura di documento e di oggetto artistico della fotografia, tanto discussa nei decenni da fotografi e intellettuali, catturò Varda quando nei primi anni Quaranta prese in mano la macchina fotografica per assecondare quella che sentiva come un’esigenza di concretezza, lei che si era messa alla ricerca di una forma di artigianato in cui la dimensione intellettuale fosse, però, predominante su quella manuale. Il suo apprendistato avviene infatti fotografando quadri, sculture, luoghi di Parigi o documentando l’attività dell’amico Jean Vilar fin dal 1947, prima al Festival di Avignone e poi nel progetto del Théâtre National Populaire (T.N.P.). Proprio lavorando con Vilar e con gli attori del T.N.P. (2), ai quali faceva ripetere in funzione della registrazione fotografica alcune scene già provate, Varda apprese l’arte della messa in quadro, insieme a quella di costruire un rapporto efficacemente espressivo tra luci e ombre. Per un cineasta, la centralità dell’atto di selezionare porzioni di realtà, inserendole nei margini del quadro, è stata costantemente ribadita dalla regista. Pochi anni fa, durante la rituale lezione che al Festival di Cannes (3) è invitato a tenere di anno in anno un cineasta differente, la regista parla appunto della centralità della mise en cadre nel processo di apprendimento della narrazione per immagini. Non basta guardare bene, bisogna soprattutto imparare a eliminare dall’inquadratura porzioni di visibile, rinunciare a qualcosa e nasconderlo, secondo la stretta relazione tra cadrer e cacher su cui aveva insistito André Bazin.
 
Il primo lungometraggio di Varda, intitolato La Pointe Courte e girato nell’estate del 1954, è da questo punto di vista illuminante. Ambientato in un quartiere di pescatori di Sète, paese in cui era cresciuta, nel film procedono parallele le immagini dal sapore documentario della vita degli abitanti del piccolo villaggio di pescatori e la crisi di crescita di una coppia parigina. Il documentario quasi antropologico e il film di finzione procedono, dunque, di pari passo, e questo aspetto fa di La Pointe Courte un punto di partenza decisivo per cercare di leggere il percorso di Agnès Varda e di molti suoi testi, in prevalenza cortometraggi, da lei cinécrits (4). Un percorso che, pur nella sua singolarità, è stato più volte, e a ragione, legato alla complessiva svolta segnata dalla Nouvelle Vague francese. Tale nesso è da rintracciare nel modo in cui, riprendendo un’espressione di François Niney, il cinema (della Nouvelle Vague in particolare) porta a éprouver le monde (e il termine è qui utilizzato nella doppia accezione di sperimentare e sentire) e a procedere alla rappresentazione di un senso della vita (5). Questa componente, com’è ben noto, caratterizza il cinema fin dalle origini, non a caso nato da tutta la successiva sperimentazione legata alla riproduzione fotografica.
 
La tensione verso la forza finzionale del reale, fortemente legata all’istanza di materialità e di rapporto concreto con la vita, appare evidente in L’opera-Mouffe. Carnet de notes filmées rue Mouffetard à Paris par une femme enceinte en 1958, in cui la regista filma se stessa durante gli ultimi mesi di gravidanza e lascia che il suo occhio venga rapito dal paesaggio umano, dalle forme e dai suoni del mercato alimentare prossimo alla rue Mouffetard, oggi strada chic del Quartiere Latino ma nel 1958 territorio popolare e rifugio di diseredati. Donna (incinta) con la macchina da presa, Agnès, il cui corpo richiama al flusso naturale e biologico della vita, fa i conti con il ciclo della vita (nutrimento/procreazione), con l’istinto di sopravvivenza, attraverso lo sguardo che apre sulla vecchiaia, e con la spinta autodistruttiva, incarnata dalla disperazione di clochards e di alcolisti. Il suo cine-occhio registra attraverso inquadrature deformanti quei prodotti della natura che servono ad alimentare la catena biologica, e pare registrarne anche gli odori e i colori. Anche in questo caso, il processo di significazione fa convivere materialità – dei corpi, degli alimenti, dei luoghi – e astrazione della realtà. Il cine-occhio della donna incinta è un cine-occhio soggettivizzato, poiché la presenza di Varda dietro la macchina da presa e il suo stato sono dichiarati sin dall’apertura del cortometraggio in un autoritratto che svela il corpo florido e gravido. Inoltre esso cattura spesso gli sguardi in macchina dei passanti instaurando un nesso tra il suo occhio che guarda e quello degli spettatori, che vengono chiamati in causa. La predilezione per un ordine di discorso artistico in cui venga denunciata la labilità del confine tra realtà e finzione, tra documentario e fiction sembra rafforzata, in sintesi, dal filtro ‘sentimentale’ del je soggetto dell’enunciazione.
 
 
CinéVardaPhoto: oltre l'occhio, la voce
 
In molti lavori di Varda domina un elemento: la voce di Agnès. Come ha scritto Michel Chion (6), la voce è "uno strano oggetto" da analizzare. Un oggetto teorico diventato centrale, soprattutto a partire dalla fine degli anni Settanta. Innanzitutto non va sottovalutata la parte che ha avuto il movimento femminista. Non è un caso che le Editions des Femmes sia stata una delle prime case editrici a pubblicare libri parlati, registrati su cassette. Il discorso femminista oppone spesso la voce come espressione fluida, continua, allo scritto nella sua rigidità e discontinuità; oppure la parola, col suo carattere limitato, circoscritto, regolatore. La voce rappresenterebbe uno spazio di libertà che la donna deve riconquistare. Si tratterebbe di produrre una nuova parola prossima al ciangottio (mito della "libertà" vocale che precede il linguaggio), prossima – per essere espliciti – alla meravigliosa lingua originaria: quella della Madre. Una lingua incarnata che sarebbe totalmente voce (7). 
 
Fin dai primi film, non escluso Cléo de 5 à 7 (1961), il discorso femminista è ben presente nel lavoro di Varda, come dimostrano in maniera lampante i documentari Black Panthers (1968) e Réponse de femmes. Notre corps, notre sex (1975) o, in maniera diversa, Sans toit ni loi (1985) e Jane B. par Agnès V. (1986-1987). Più in generale, la voce di Agnès esprime una forte sensibilità femminile, qualsiasi sia l'oggetto che il suo sguardo decide di indagare e raccontare.
Ritroviamo questa voce e questo sguardo, ad esempio, nei tre cortometraggi raccolti sotto il titolo CinéVardaPhoto (2004), realizzati in un arco temporale ampio, dal 1963 di Salut le Cubain, che chiude la raccolta, a Ydessa, les ours et etc…, ultimo ad essere stato realizzato nel 2004, che invece la apre. Dei tre è Ulysse (1982) ad accogliere e dispiegare ancor più degli altri la doppia spinta che sembra aver fondato la scrittura per immagini – documentario, finzione o docu-fiction – della cinescrittice, quella tensione tra rappresentazione e racconto che si traduce nella modalità soggettiva che ella ha di interrogare il reale nel rapporto che esso instaura con le manifestazioni dell’arte, e viceversa.
 
Ciò che ha per titolo Ulysse è innanzitutto una fotografia, scattata il 9 maggio 1954 a Saint-Aubin su Mer. Dopo i titoli di testa, il film, cinécrit da Agnès Varda, si apre con l'immagine fissa della fotografia, che resta lì, evocatrice. In essa sono ritratti su di una spiaggia un uomo nudo che, di spalle, scruta l’orizzonte, un bambino disteso sui sassi che guarda nella nostra direzione e, più in primo piano, il corpo di una capra morta. Passato il tempo necessario al nostro sguardo per perlustrare la superficie dell’immagine, operazione che viene intensificata dall’ambiente sonoro (suono del fluttuare del mare e versi di gabbiani) ricostruito quasi per mettere in movimento la nostra immaginazione insieme alla fissità della fotografia, subentra, infatti, una voce che assai rapidamente si dichiara come la voce di colei che ha scattato la fotografia, come la voce di Agnès Varda. Inizia il racconto: "C'était une dimanche sur la côte au bord de la Manche, quand j'ai pris cette photo…". Ed ecco il je, autore dell’atto creativo e dell’oggetto artistico che ne è derivato, offrirsi come filtro immediato alla decifrazione di un’immagine calata nell’indeterminatezza spazio-temporale (un uomo, un bambino, una capra, una spiaggia ecc.).
 
 
Fu il corpo disteso, morto, inanimato, della capra a richiamare l’attenzione della fotografa: l’animale inane pare immerso in un deserto che esso, denunciando la propria finitudine, contribuisce a rendere inabitato. Potrebbe essere un bel soggetto da fotografare, si disse Agnès ventiseienne: un soggetto per una composizione, una natura morta o un paesaggio con figure. Come in ogni fotografia, anche in Ulysse, però, ciò che riempie l’immagine ha un proprio referente fotografico. Roland Barthes in La chambre claire. Note sur la photographie sottolinea che per referente fotografico egli intende «non già la cosa facoltativamente reale a cui rimanda un’immagine o un segno, bensì la cosa necessariamente reale che è stata posta dinanzi all’obbiettivo, senza cui non vi sarebbe fotografia alcuna» (8), quella cosa per la quale non si può negare che è stata là, che interfuit: «ciò che io vedo si è trovato là, in quel luogo che si estende tra l’infinito e il soggetto (operator o spectator); è stato là, e tuttavia è stato immediatamente separato; è stato sicuramente, inconfutabilmente presente, e tuttavia è già differito» (9). La realtà, una realtà posta in un fuori campo simbolico, bussa alla porta dell’immaginazione dello spectator che osserva la fotografia. Fuori campo c’è la storia, il tempo che è passato: la Storia della Francia e la storia dei singoli, del bambino, Ulisse, e dell’uomo, Eliha l’egiziano. C’è però la storia anche di un’altra persona che nell’hic et nunc in cui è stato premuto l’otturatore della macchina fotografia si trovava nell’immediato fuori campo: Agnès Varda, l’artista, la fotografa, la donna.
 
La lettura alla quale Agnès sottopone la sua fotografia è di tipo barthesiano. Allo studium, all’analisi della modalità con la quale è stata scattata, a come si colloca nel contesto della produzione dell’artista Varda di quel periodo, all’inserimento nella sua epoca storica, si associa l’azione del punctum che può sollecitare letture diverse. Per Barthes il punctum è «ciò che mi punge» (10). C’è dunque una relazione forte tra ciò che è rappresentato nella fotografia e ciò che lo spettatore aggiunge alla fotografia mentre la guarda, attingendo alla propria esperienza e memoria. La fotografia è allora insieme spazio statico legato al proprio referente fotografico, oggetto su cui possiamo esercitare sia lo studium che il punctum, e testo attraverso il quale ci guida la regista. L’immagine fissa diviene elemento della realtà da rifilmare: da supporto si trasforma in oggetto da filmare e, attraverso dettagli e particolari, attraverso zoom e dissolvenze, attraverso il montaggio, diviene racconto. È come se, attraverso l’immagine fotografica associata alla tecnica cinematografica, Varda mettesse il punctum in motion: ciò che nella fotografia ci punge viene posto in movimento (11).
 
 
Nel 2000 in Les glaneurs et la glaneuse Varda ha proposto uno studio sulla società contemporanea interrogando nuovamente, attraverso l’uso del digitale, lo statuto ontologico dell’immagine fotografica. Nel film documentario si racconta di varie specie di spigolatori, figure che un tempo andavano nei campi a recuperare i resti dei raccolti. Da questa immagine, il discorso si estende al consumo sfrenato che caratterizza la nostra società, al divario sempre più netto tra Nord e Sud del mondo, e alla necessità di fare del riciclaggio, anche alimentare, una parola d'ordine fondamentale. In questo lavoro girato con una piccola macchina da presa digitale, il processo di cinescrittura avviene attraverso qualcosa di molto simile alla scrittura automatica, come se il nuovo ritrovato tecnologico imponesse, ancora di più, un ritorno al predominio dell’interiorità dell’artista teorizzato da André Breton. L'uso della maneggevole videocamera digitale sembra imporre anche una diversa mise en cadre. Sempre durante le lezioni di Cannes, proseguendo nell’elogio dell’arte del cadrage a cui abbiamo già accennato, la regista cita la particolare natura delle inquadrature di Degas, pittore che ha, secondo lei, un modo di inquadrare inaudito: "C’è sempre nel suo cadrage, un personaggio che è sul punto di uscire dal quadro: un piede, una gamba, uno scampolo di gonna… qualcuno entra nel quadro, un poco […] E ciò che non bisogna assolutamente imparare o che non bisogna fare è proprio dirsi: un bel quadro è quando tutto è messo al suo posto, quando tutti gli spazi sono perfetti, quando c’è proprio ciò che ci vuole a destra, a sinistra, nel mezzo, sopra. Bisogna invece capire che il quadro non è che una parte di ciò che nel quadro non c’è, il fuori quadro, quello che viene prima, non sola nella durata ma anche nell’immagine. Bisogna dare allo spettatore la possibilità di immaginare ciò che non vede. Guardo a Michael Snow e al suo film Wavelength. E penso a Sleep di Andy Warhol" (12). 
 
Se in Les glaneurs et la glaneuse la caméra numérique-stylo sembra accorciare la distanza tra vissuto e rappresentato, essa accorcia anche la distanza con il destinatario delle immagini rendendo più serrato lo scambio dialettico con il tu a cui l'io di Varda si rivolge. Flusser ha sottolineato che nel nostro mondo «le immagini tecniche onnipresenti intorno a noi sono sul punto di ristrutturare magicamente la nostra “realtà” e trasformarla in uno scenario globale di immagini. Si tratta essenzialmente, in questo caso, di un oblio. L’uomo dimentica di aver creato lui le immagini per orientarsi nel mondo grazie ad esse. Non è più in grado di decifrarle e ormai vive in funzione delle proprie immagini: l’immaginazione si è volta in allucinazione» (13). In Les glaneurs et la glaneuse, la mise en cadre sempre più inaudita sembra voler ridare spessore a ciò che possiamo, in quanto spettatori, spigolare nel fuori quadro/immagine, e che rischia di assottigliarsi irrimediabilmente. Varda, soprattutto in seguito all’avvento del digitale, si è fatta sempre più glaneuse della realtà, per aiutarci in qualche modo a combattere l’allucinazione che il nostro mondo sovraffollato di immagini può produrre. Una battaglia che si può vincere attraverso lo scanning (14) soggettivo delle immagini, che solo l'immaginazione può attivare. Film dopo film, documentario dopo documentario, il cinema di Varda, anche grazie a Tout(e) Varda e ai suoi circa tremila minuti di audioimmagini oggi raccolti in dvd, continua, insomma, a sollecitare e a dare respiro all'immaginazione dello spettatore, invitandolo a éprouver le monde con lucida fantasia.
 
NOTE
 
(1) Si veda il catalogo Agnès Varda, L'île à elle, Fondation Cartier, Paris 2006.
 
(2) Passaggio dalla riproduzione di arti statiche a quella di arti dinamiche. Ricerca in corso sulle fotografie di scena e su Vilar.
 
(3) AA.VV., Les leçons de cinéma, Festival de Cannes – Éditions du Panama, Dijon 2007, pp. 125-142.
 
(4) È questa la dicitura che compare nei titoli di testa di corto o medio metraggi realizzati dalla regista e che ella ha esteso anche al lavoro di altri registi. Nella prima parte di quella sorta di autobiografia artistica che è Varda par Agnes (Editions Cahiers du cinéma, Paris 1994), alla voce C comme Cinécriture di un originale dizionario intimo, troviamo indicato: «J’en ai tellement assez d’entendre: C’est un film bien écrit, sachant que le compliment est pour le scénario et pour les dialogues. Un film bien écrit est égalment bien tournè, les acteurs sont bien choisis, les mouvements, les points de vue, le rythme du tournage et du montage ont été sentis et pensés comme les choix d’un écrivain, phrases denses ou pas, type de mots, fréquence des adverbes, alinéas, parenthèses, chapitres continuant le sens du récit ou le contrariant, etc. En écriture c’est le style. Au cinéma, le style c’est la cinécriture.»
 
(5) Cfr. F. Niney (a cura di), L’épreuve du monde: entre réel et fiction, ACOR, Saint-Sulpice-sur-Loire 2000, in particolare il suo articolo Le sens de la vie (pp. 7-14) che funge da introduzione alla raccolta di testi di Epstein, Metz, Leblanc, Kramer; F. Niney, L’épreuve du réel à l’écran. Essai sur le principe de réalité documentaire, De Boeck, Bruxelles 2002, studio del quale sarebbe difficile selezionare una singola parte: attraverso l’estetica, Niney rintraccia, nella storia del cinema, l’evoluzione della dialettica oggettivo/soggettivo in relazione alla messa in discussione costante e progressiva del rapporto tra filmé/flmeur/spectateur all’interno di testi che ibridano documentario e finzione e che, instaurando un patto documentario, ri-guardano lo spettatore.
 
(6) La voix au cinéma, Editions de L'Etoile, Paris 1982.
 
(7) Ivi, p. 10.
 
(8) R. Barthes, La camera chiara. Nota sulla fotografia, Einaudi, Torino 1980, p. 77.
 
(9) Ivi, p. 78.
 
(10) Ivi,  p. 43.
 
(11) Salut les cubains e Ydessa, les ours et etc. il tipo di lettura sollecitato da Ulysse qui analizzato è suscettibile di non meno intense declinazioni. CinéVardaPhoto va, del resto, messo in relazione con altri testi, tra cui vanno qui ricordati almeno Daguerréotypes (1974) e Une minute pour une image (1983). Per un'approfondimento dell'analisi qui proposta cfr. A. Masecchia, La materia dell’immaginazione: Agnès Varda tra fotografia e cinema, «La Valle dell’Eden», X (2008), 20-21, pp. 229-240.
 
(12) AA.VV., Les leçons de cinéma, cit., pp. 129-130.
 
(13) W. Flusser, Für eine Philosophie der Fotografie, European Photography Andreas Müller-Pohle, Berlin 1983, tr. it. Per una filosofia della fotografia, Bruno Mondadori, Milano 2006, p. 6.
 
(14) Ivi, pp. 3-4.

Tout(e) Varda (Arte)

36 film, regia di Agnès Varda, Francia 1954-2011