“Il sistema funziona sempre e sempre funzionerà perché è freddo, inflessibile, matematico”: così parlò il professor Zupan, il nemico di classe della pellicola firmata dall’esordiente cineasta sloveno Rok Biček. L’inflessibilità è il trait d’union tra gli avversari che si sfidano nella guerra di nervi raccontata dal film.

Con felicissima intuizione, Biček sceglie di ambientare la sua storia esclusivamente all’interno delle mura del liceo. Niente esterni; niente interni “altri” rispetto all’edificio scolastico. La scuola diventa così un bunker in cui ognuno dà il peggio di sé (insegnanti, alunni, genitori) e in cui la chiusura di spazi si fa metafora di una chiusura mentale, ovvero l'incapacità di affrontare situazioni difficili, quando non drammatiche, senza cercare capri espiatori, bypassando l'assunzione di responsabilità o il semplice porsi delle domande e sforzarsi di comprendere una realtà che è sempre più complessa di quanto non si sia disposti ad ammettere. Il suicidio di Sabina, ragazza troppo fragile e sopraffatta dal suo senso di inadeguatezza, viene assunto a pretesto dai suoi compagni di classe per canalizzare una rabbia esistenziale, un malessere profondo e lacerante in cerca di una valvola di sfogo.

Obiettivo fin troppo facile diventa l’autoritario professor Zupan, il nuovo insegnante di tedesco, agli antipodi rispetto alla sua più compiacente e amichevole predecessora. I modi schietti, duri, tutt’altro che concilianti di Zupan mettono in luce le mancanze, la superficialità e l’indolenza di questi ragazzi che vedono nella scuola un nemico (che appesantisce con carichi di lavoro eccessivi e pretende ottimi voti) e in Zupan la sua paradigmatica incarnazione. I metodi “nazisti” dell’insegnante vengono individuati come la causa del suicidio di Sabina ma dietro questa infamante accusa si nasconde la necessità di trovare una giustificazione che alleggerisca il peso delle proprie mancanze.  Prima di morire Sabina aveva pochi amici, passava inosservata ai più e un limitato numero di persone poteva dire di conoscerla realmente (c’è chi non ne ricorda nemmeno il cognome). Il suicidio della ragazza lascia i suoi compagni smarriti e arrabbiati, disperatamente alla ricerca di una motivazione per quel gesto estremo, una ricerca febbrile e furiosa che assume i connotati di una preventiva autoassoluzione per le proprie possibili colpe. Ragazzi che si aggrappano con dolente vigore a fragili certezze, refrattari a mettere in dubbio il proprio accanimento contro un capro espiatorio designato.

Uno sguardo impietoso e intelligente da cui nemmeno gli insegnanti vengono risparmiati. L’orgogliosa e reiterata intransigenza di Zupan, ai limiti della crudeltà gratuita (si veda l’ultimo colloquio con Sabina) fa da contraltare al lassismo abulico dei suoi colleghi, ma entrambi gli atteggiamenti si mostrano alla lunga deleteri. “Thomas Mann si rifiutò di andare al funerale del figlio morto suicida, secondo voi perché?”, chiede Zupan alla sua classe il giorno dopo i funerali di Sabina. Il confine tra sadismo compiaciuto e amaro disincanto è sottilissimo: Zupan sostiene che è necessario andare avanti e fa di tutto per mostrarsi stoicamente impermeabile al dolore. Un personaggio gelido, respingente, ma mosso da una sua etica e da una missione pedagogica che intende perseguire ad ogni costo, incurante delle reazioni negative dei suoi studenti.

Biček gira un war movie claustrofobico, chiuso nelle trincee dell’edificio scolastico, in cui la complessità tematica e di costruzione dei personaggi va di pari passo con una messa in scena essenziale, attenta i dettagli, alla caratterizzazione delle figure secondarie (memorabili il secchione insensibile o il cinese che rinfaccia ai compagni “Voi sloveni se non vi suicidate, vi ammazzate tra di voi”) e in cui i costanti scontri verbali e fisici determinano il ritmo di questa faida logorante: uno scontro tra posizioni inconciliabili e sorde alle ragioni altrui che non può produrre alcun vincitore, ma solo vinti. 

 

Class Enemy, regia di Rok Biček, Slovenia 2013, 112'.