La prima definizione della cosiddetta "Greek Weird Wave" può essere rintracciata in un articolo del Guardian del 2011 firmato da Steve Rose, in cui l'autore sosteneva che "il Paese più a soqquadro del mondo sta producendo il cinema più a soqquadro al mondo". Ovviamente, i film che spingevano Rose a tale affermazione – Dogtooth di Yorgos Lanthimos (2009) e Attenberg di Athina Rachel Tsangari (2011) – non erano tanto a soqquadro quando attentamente confezionati, il primo un dramma da camera rigorosamente proporzionato; il secondo una fiaba di formazione che rinunciava a ogni cliché. Bizzarri ("weird"), certamente, ma anche molto scaltri. Il fatto che questi film contengano la loro porzione di sesso (duro) e violenza (brutale) non è che la conseguenza dei cambiamenti interni ai modelli del cinema d'autore internazionale e allo stesso tempo lo specchio di uno zeitgeist nazionale carico di tensione. Dogtooth è un film infinitamente più debole se interpretato come un'allegoria per la corruzione dei valori nazionali, piuttosto che un intenso e immaginifico esercizio attoriale (come il regista è sempre parso più felice di descriverlo).

Quali siano i loro meriti, Dogtooth e Attenberg – e in maniera minore il successivo e sottovalutato Alps di Lanthimos – hanno improvvisamente trasformato il cinema greco in un luogo di interesse. Forse non a favore dei cineasti greci, che continuano a lavorare in un vuoto di finanziamenti locali, obbligati a cercare il supporto di fonti esterne ("Il Greek Film Centre sta combattendo contro una lenta agonia", ha dichiarato Tsangari in una recente intervista). Ma tutto il Mediterraneo è diventato, d'un tratto, un luogo d'attrazione principe per i programmatori dei festival. La scelta di fare di Atene l'epicentro dell'annuale sezione del TIFF City to City, dopo Tel Aviv, Buenos Aires e Mumbai, è particolarmente tempestiva. E anche se né Lanthimos né Tsangari avevano un nuovo film pronto per l'occasione, la loro ombra incombe su parecchi tra i dieci film inclusi nella selezione, particolarmente intenti a replicare austeri freak show à la Dogtooth.

Il reperto numero 1 è Miss Violence di Alexandros Avranas, presentato in concorso all'ultimo festival di Venezia: uno studiato coacervo di scene e stili presi in prestito da una varietà di autori (o sarebbe meglio dire scultori del ghiaccio?). Dopo appena cinque minuti di film un'angelica ragazzina si butta giù dal balcone di un appartamento (un prologo simile a quello di Antichrist), mentre l'arcano alla base del film – come mai un'undicenne allevata in una famiglia benestante e amorevole decide di togliersi la vita? – ricorda la pietra miliare di Haneke, Il settimo continente (1989), che sempre di più si sta configurando come il "paziente zero" alla base della pluridecennale esplosione di raggelato cinema festivaliero. C'è anche una scena di ballo pop con una pubescente che ricorda in maniera sospetta quella analoga presente in Curling di Denis Côté – anche se va detto che Avranas ottiene miglior effetto grazie all'oculato uso di Leonard Cohen in colonna sonora (servirsi di Dance Me to the End of Love per accompagnare un atto di autolesionismo è davvero subdolo, comunque).

Il problema di Miss Violence non ha a che fare con il latrocinio in sé ma con la mano pesante di chi lo compie. Una volta compreso che la famiglia greca medio-borghese che si dimena sotto l'egida di un padre dall'occhio porcino (Themis Panou) è solo apparentemente comune; che è sempre andata così e che il dolente stato delle cose può essere sovvertito solo attraverso un radicale sollevamento dall'interno del contesto domestico, non si può far altro che attendere l'inevitabile atto di sadismo messo in cantiere da Avranas (una protratta scena di stupro in inquadratura fissa che richiama Irreversible di Gaspar Noe). In Miss Violence non mancano momenti di cinema "brillante": le composizioni delle inquadrature sono ricercate, con i protagonisti decapitati dall'immagine (ancora una volta richiamando alla mente Dogtooth) o raccolti intorno a un tavolo da pranzo, così da poterne studiare i pensieri e le emozioni sui volti. E Panou è assai abile a modulare le proprie intenzioni, passando dal minaccioso al mostruoso. Il film è pressurizzato in maniera impressionate, ma l'aria è stantia. Non toglie il respiro: soffoca.

L'atmosfera è decisamente più respirabile in September di Penny Panayotopoulou, anch'esso debitore da più parti (soprattutto da The Forest of the Trees di Maren Ade [2004]), ma dotato di una propria, evidente autonomia. L'algida e spigolosa Kora Karvouni interpreta Anna, una donna single trentacinquenne impegnata in un umile lavoro di cameriera la cui vita ruota tutta intorno al proprio cane, Manu. In una serie di rapidi colpi incisivi, Panayotopoulou tratteggia il ritratto di una solitudine allo stesso tempo temperata ed esacerbata dalla costante compagnia canina. La routine di Anna, caratterizzata da pasti frugali consumati nel parcheggio del ristorante in compagnia di Manu, è un circolo vizioso che appare insostenibile tanto per la protagonista quanto per il film stesso. Quando Manu muore, la donna si ritira ulteriormente dal mondo prima di essere raggiunta in soccorso da Sophia (Maria Skoula), un'attraente vicina che la tratta con tutta la pazienza e la compassione concessa dalla propria, confortevole posizione di moglie e madre benestante.

Laddove Miss Violence tende a trarre il meglio dal proprio titolo il prima possibile, September brucia a fuoco lento, e minimizza qualunque senso di minaccia. Le iterazioni di Anna con Sophia e le sue figlie sono alquanto innocue, anche se il marito di quest'ultima (Nikos Diamantas) la percepisce come una sanguisuga. Vedere l'attaccamento di Anna farsi disperato (proprio come accade in The Forest of the Trees) è piuttosto sgradevole, ma il film non rischia mai di trasformarsi in un totale festino d'angosce. La sceneggiatura evita qualunque ricorso a scappatelle à la Attrazione fatale a favore di ricadute attenuate, quasi del tutto prive di note stonate. Non si tratta di un cinema sorprendente, ma la regia di basso profilo di Panayotopoulou, in cui l'immobilità della macchina da presa fa il paio con la sensazione di impasse della protagonista, surclassa la "brillantezza" di Avranas scegliendo di non manifestare il desiderio di intrappolare lo spettatore. Miss Violence termina con una porta chiusa, mentre la conclusione di September è aperta e, se vista dall'angolazione giusta, decisamente più inquietante di qualunque svelamento di orrori sepolti dell'altro film.

Il lato più interessante di September è che né Anna né i suoi problemi sono metafore per qualcosa di più grande. Il film non è altro che l'accurato studio di un personaggio – e, direi, per fortuna. Altrove, la selezione del City to City tradisce parecchia sociologia concettuale, che in quasi tutti i casi si riduce a una variazione del vecchio epigramma: "è l'economia, stupido". Per esempio, metafore di decadimento fisico non si fanno più esplicite che nel caso del riverito protagonista di The Eternal Return of Antonis Paraskevas, interpretato da Christos Stergioglu di Dogtooth (che ha anche un cameo in Spetember) in una variazione di ruolo del recluso fuori di zucca. Il protagonista del titolo è un decaduto conduttore di talk show televisivi tornato a fare notizia dopo aver organizzato il proprio rapimento ed essere rimasto nascosto in attesa del momento opportuno per compiere un glorioso ritorno: è contemporaneamente Rupert Pumpkin e Jerry Langford riuniti in un singolo essere in decomposizione. Questo re della commedia desidera tornare ai clamori degli anni '90, e probabilmente l'aspetto più divertente del film è la maniera in cui inquadra l'inebriante decennio e il seguente collasso all'interno di una serie di imperi greci svaniti nel nulla. Come se, a due millenni dai fasti dell'ellenismo delle origini, il meglio cui possa sperare il Paese sia il ritorno a un'epoca in cui quantomeno tutti guardavano lo stesso talk show in TV. La sceneggiatrice e regista Elina Psykou, al debutto, non si sforza di ricercare simbolismi azzardati, facendo abitare il proprio antieroe in un hotel fatiscente, scenario più che appropriato per un'icona costretta a fare i conti con la propria provvisorietà.

La narrazione a base di rapimento si fa ancora più diretta con The Daughter, al cui centro campeggia il tema del debito: a un certo punto c'è persino una scena in cui il rapitore legge dal dizionario il significato del termine "debito" alla propria vittima. Non è particolarmente credibile che una ragazzina di 14 anni sequestri il figlio di 8 anni del partner in affari del padre, e lo è ancora meno che riesca a tenerlo segregato in un deposito di legname abbandonato (luogo, che al pari del titolo scelto, segnala il fatto che il regista Thanos Anastapoulos deve aver visto Le fils dei Dardenne [2005]). Ma al di là della superficie, The Daughter non è un film realistico: è un film a tesi su quanto la povertà e l'umiliazione spingano a compiere atti di vendetta, in questo caso per conto di un proletariato dalle tasche vuote. "Il guidatore dell'auto è responsabile dell'incidente", si spiega nel film con l'aiuto del dizionario.

Cercate il termine "esplicito" nel dizionario, intanto, è probabilmente troverete una foto di The Daughter, o forse di Standing Aside, Watching di Yorgos Servetas, un dramma sul tema del ritorno del figliol prodigo che osa chiamare la propria eroina Antigone. Basti dire che gli uomini che popolano la cittadina sul mare cui la donna fa ritorno dopo il deludente soggiorno in una grande città, fanno bene a stare all'erta: questa Antigone, nell'interpretazione di Marina Symeou, è una bomba a orologeria pronta a esplodere in faccia al patriarcato (titolo alternativo: Miss Violence). Standing Aside, Watching non è particolarmente compassionevole nei confronti della piccola città: il posto è squallido (la macchina da presa torna di continuo a un deposito di rottami) e la severità di Antigone si trasforma così in una virtù di per sé. Peccato che sia il film ad essere troppo "pulito": la sua struttura è quella tipica dello slow-burn che all'apparenza fa credere allo spettatore di star guardando qualcosa di pazientemente riflessivo, mentre il regista sta solo battendo la fiacca.

Il ritmo si fa ancora più punitivo in To the Wolf, film d'esordio co-diretto dal londinese Aran Hughes e dall'ateniese Christina Koutsopyrou, allo stesso tempo l'elemento più fragile e permaloso della rassegna. Il film non è ambientato ad Atene ma in un villaggio nebbioso i cui abitanti non sentono la necessità di infuriarsi contro lo svanire della luce: il sole è costantemente oscurato da nuvole e montagne. Ammassati in tuguri o squallidi bar, gli abitanti curvi e rinsecchiti non fanno che parlare di politica ("un tempo c'era uno Stato ma l'abbiamo distrutto") e discutere del segnale televisivo ("il canale è in sciopero"). Una donna che calcia un sasso lungo una stradina si domanda se sia possibile mangiarlo; intestini (non si sa di chi) giacciono sul pavimento per il piacere dei cani. Preso come documentario, è estenuante; in quanto finzione rischia di finire dalle parti della caricatura etnica alla Borat. Ma To the Wolf si muove a cavallo tra i due binari. Filmato con la piena collaborazione dei propri soggetti, il piano originario del regista di realizzare un "film verità" sul villaggio è stato modificato di fronte alla consapevolezza che le notizie – e le conseguenze – della crisi finanziaria andavano ben oltre i confini nazionali. Anziché fare un film sulla reazione di un personaggio nei confronti dello sfacelo economico greco – come in The Eternal Return of Antonis Paraskevas o, in maniera più ovvia, in The Daughter – Hughes e Koutsopyrou focalizzano la propria attenzione su gente dalle opzioni drasticamente limitate, dando vita a qualcosa di realmente suggestivo. In un Paese abituato a strombazzare il proprio senso storico, To the Wolf cancella qualunque tipo di nostalgia per il passato. Le torri telefoniche in agguato come treppiedi marziani nello sfondo non fanno che rafforzare il senso di isolamento – l'informazione, da qui, passa in un'unica direzione – e, per di più, sembrano qualcosa di veramente greco: antiche rovine. Il predatore del titolo è il tempo, che sembra cacciare a ritroso. To the Wolf offre la strana visione di un passato distante, pronto a divorare un presente inquieto e zoppicante.

(traduzione di Alessandro Stellino)