È stata un'idea sana, quindi un'idea comasca, quella di fondare una Mostra annuale della Cinematografia turistica e scientifica.

Film documentari vengono regolarmente presentati, come sapete, anche alle Mostre veneziane. Non meraviglierà nessuno però se si ripete che, al Lido, il documentario è fatalmente schiacciato, nella gerarchia dei programmi come nella curiosità degli spettatori, dalla vicinanza dei suoi concorrenti a grande metraggio. La sera in cui c'è una prima della Hepburn, è naturale che il pubblico venga per vedere la Hepburn, non i cavalli dell'allevamento di Stato prussiano; o che dopo aver palpitato per due ore di seguito ai casi di Lady Jane Grey, non abbia più pazienza per interessarsi ai singolari modi usati per pescare dai contadini della Volinia. Non meraviglierà nessuno perché anche la pratica dell'esercizio cinematografico dimostra come sia difficile la vita per il povero documentario di fronte alla strapotente invadenza del film di spettacolo. Il documentario è sempre stato la Cenerentola dei programmi. Lo è nel cartellone, dove  è degnazione se ne compare il titolo, magari in calce agli eccentrici acrobatici o alle otto Danubian Girls. Lo è sul giornale, dove una riga in più di avviso a pagamento non sarebbe mai spesa per esso. Lo è nel borderò, su cui gli toccano appena i rotti della modica somma riserbata a quello che continua a chiamarsi simbolicamente «fuori programma».

Colpa del pubblico che non apprezza? Non è esatto; il pubblico apprezza il buon documentario, tanto è vero che lo desidera; come provano le frequenti richieste dei lettori ai giornali affinché si facciano paladini della sua divisione. Ma fino a quando lo spettacolo sarà quello che è adesso, sarà cioè organizzato in modo da puntare tutto sul nome di una stella, sul titolo di un soggetto, o sulla sorpresa di un intreccio, inevitabilmente la massa andrà al cinema per cercarvi un ordine di diletti diverso da quello che può essere offerto dal documentario: per cercarvi favole non paradigmi, emozione non riflessione, per soddisfare un desiderio di eccitazione non di sapere. E così la fantasia, la matta di casa, avrà ancora una volta la partita vinta.

Il risultato di questo stato di cose è che la dieta mentale del frequentatore di cinematografo è molto uniforme. È un prodotto che alimenta quasi esclusivamente le nostre facoltà immaginative, con fatale esclusione delle altre. Non c'è confronto, per esempio, con la varietà di interessi e di temi che compongono la quotidiana razione di un lettore medio. Si può dire che, in un certo senso, forse anche sotto la spinta empirica ed enciclopedica del giornalismo, la vetrina del libraio non è mai stata più profusa in generi diversi e più ricca, non ha mai cercato di equilibrare le esigenze della distrazione con quelle dello scibile. Proprio il contrario si direbbe che stia avvenendo sullo schermo. Perché? Forse perché manca una produzione adeguata? Nemmen per sogno. La produzione del documentario, in tutte le sue branche, ha preso in questi ultimi anni uno sviluppo formidabile. Il documentario ha ormai dovunque produttori propri, propri teatri di posa, registi e operatori specializzati. Una tecnica nuova si è rapidamente formata, estendendo l'osservazione cinematografica a campi e a soggetti mai immaginati prima. Il perfezionamento della ripresa accelerata, pervenuta ormai, dai primi esperimenti di Robinson a un rigore assolutamente scientifico, permette di cogliere processi arcani, di analizzare il volo di un'aquila o di cronometrare la crescita di un  seme. Nuovi metodi di ripresa sottomarina portano il mirino dell'esploratore negli abissi. La microcinematografia, questo meraviglioso buco della serratura sull'infinitamente piccolo, ci schiude la vita e i pettegolezzi di famiglia dei bacilli e delle spore. Il sonoro, permettendo la dissociazione dei suoni dall'immagine, e la loro rielaborazione concettuale, ha aperto insospettate possibilità anche per il documentario, come provano i tentativi di Cavalcanti in Inghilterra; mentre il commentario parlato, lasciati i modi pedanti e discorsivi del monologo, si va ormai facendo uno stile proprio, uno stile che ha il ritmo e l'immediatezza del montaggio cinematografico.

Armati di questo strumento modernissimo e sensibilissimo, ogni giorno, nei laboratori industriali, nei gabinetti scientifici, nei boschi, sui fiumi, tra i mari e i continenti del mondo, ricercatori pazienti scrutano per voi gli aspetti e i fenomeni più disparati e lontani, per portarveli sotto agli occhi animati del palpito e del movimento stesso della vita. Quanta e quale varietà di argomenti e di motivi, in questi piccoli film, risultato talora di interi anni di osservazioni e di studio, e in cui la realtà inattesa si sposa sovente alla meraviglia decorativa dell'immagine. Che cosa preferite? Le statue del Hradcany di Praga o i lebbrosi dell'Isola di Pasqua? La vita dei Trappisti o gli amori delle seppie? La fabbricazione del formaggio olandese o la lotta contro i parassiti del legno? Le danze della Pavlova o l'allenamento del corridore Ladoumègue? La questione del corridoio di Danzica o la viticultura delle regioni renane? Gli usi e i costumi delle cimici o il servizio postale sull'espresso Londra-Glascow [sic. N.d.R.]? L'origine dell'inno nazionale americano o i luoghi dove visse Dante? L'industria degli orologi col cucù o un'operazione di fistola polmonare? È inutile enumerare, perché l'assortimento è praticamente illimitato. Ora, fate il conto, quanta parte di questo enorme materiale arriva sino a voi. Sì e no, nell'anno, qualche fettina appena, schiacciata in quei quindici minuti di attualità, fra gli eterni lottatori giapponesi (auff) o il rituale balletto sul grattacielo. Ma, lo abbiamo visto, il programma ordinario non lascia o punto o poco posto al documentario, e sempre meno ne lascerà, se dura la tendenza presente a trattare i film come i «tiramolla» delle fiere. E allora non c'è che una soluzione, ridare al documentario l'indipendenza. Creare lo spettacolo, sul tipo di quelli che l'Istituto LUCE organizza al Planetario di Roma, quando non addirittura la sala specializzata, come ne esistono in molte città all'estero, con brevi programmi composti esclusivamente di «giornali» e di cortometraggi ben variati, questo è lo scopo a cui bisogna arrivare. Là in un ambiente a sé, non sviato e confuso da richiami e suggestioni d'altro ordine, il pubblico imparerà a conoscere e ad amare questo prodotto così vitale e moderno della creazione cinematografica: e quindi ad amare meglio, se non più, il cinematografo.

Ecco perché l'iniziativa di Como sarà salutata dagli amici del documentario con la più sincera compiacenza: perché è la prima affermazione ufficiale della sua autonomia. È attraverso questa autonomia ch'esso prenderà sempre più coscienza della sua forza e della sua funzione, che esso diventerà finalmente un mezzo normale di svago e di educazione delle masse, uno strumento permanente di scambio e di comprensione tra gli uomini.

(da: Il Broletto, "Primo Concorso Internazionale del film scientifico e turistico di Como", numero speciale, settembre-ottobre 1936)