Se nella critica cinematografica è buona norma separare il creatore dalla sua opera è evidente come ci siano autori, soprattutto oggi – in un momento in cui il cinema attraversa vari tipi di fruizione e lavorazione – che richiedono, invece, uno sguardo che va oltre il film e che arriva direttamente alla loro figura. Il lettore ci perdonerà se quindi, per parlare del nuovo film di Pippo Delbono, Sangue, terremo presente il contesto che lo ha accolto, il Festival di Locarno 2013.

Come ha più volte dichiarato in conferenza stampa e durante l’incontro con il pubblico, il film, per l’attore e regista ligure, è stato un mezzo per unire due dolori conseguenti a due morti, quella di sua madre, ripresa fino all’ultimo in un letto d’ospedale, e quella, solo evocata, della compagna dell’ex terrorista Giovanni Senzani, Anna Fenzi, sorella del noto militante Enrico (che pur prendendo le distanze dalla lotta armata lo ha atteso tutta la vita). Il racconto di due dispersi, il cui senso di solitudine e disorientamento è sottolineato, forse volontariamente, dalle immagini della martoriata città dell’Aquila e dalla presenza di alcuni frammenti relativi alla messa in scena dello stesso Delbono della Cavalleria rusticana di Mascagni. Un percorso che vorrebbe mescolare e assolutizzare il dramma privato, ma che inchioda invece tutto il film all’ego del regista. Questo è emerso, a Locarno, proprio dal comportamento di Delbono nei confronti degli spettatori che hanno “osato” chiedergli conto di determinate scelte. A costoro, il regista ha risposto spesso malamente, evitando le questioni teoriche e ribaltando le curiosità in provocazioni. Un atteggiamento aggressivo che non è riuscito a nascondere le evidenti pecche teoriche, politiche ed etiche del suo lavoro, e che anzi ha ribadito la mera volontà di provocare e il cinismo con cui Delbono sfrutta i suoi “attori”. È il caso di Bobò, un sordomuto microcefalo reduce da quarantacinque anni di manicomio, che il regista utilizza spesso per i suoi spettacoli, e che lo ha accompagnato anche a Locarno, dove, durante i vari incontri, è stato esibito alla stregua di un fenomeno da baraccone di fronte allo sguardo indignato del pubblico.

All’aggressività del regista si è contrapposta l’agghiacciante freddezza del terrorista assassino, che nel film rievoca l’esecuzione di Roberto Peci, la cui unica colpa era quella di essere il fratello di un pentito delle Br e che il 3 agosto del 1981 venne appunto giustiziato dopo cinquantacinque giorni di prigionia. Senzani, sempre imperturbabile, ha parlato anche di pietà, quella che lo avrebbe spinto a infliggere alla vittima “il colpo di grazia”, evitando così il rischio di una morte in agonia. Se i macchinosi accostamenti tra le varie storie raccontate nel film risultano più che altro pretestuosi e poco efficaci, inaspettatamente Sangue stabilisce una terribile corrispondenza interna tra il racconto privo di emozione di Senzani e lo sguardo oggettivo delle videocamere e dei telefonini, che arrivano a soffermarsi per lunghissimi minuti sul cadavere della madre di Delbono (con tanto di sottofondo musicale). In questo caso risultano inutili le prese di distanza di Delbono da Senzani in nome di un indefinito buddismo. L’analogia c’è ed è inquietante: è tutta in questo distacco nei confronti della morte.

Se in Nick’s Movie, spesso citato a sproposito da molti critici favorevoli al film, l’agonia di Nicholas Ray era accompagnata da una riflessione sulle modificazioni e le possibilità delle nuove tecnologie audiovisive (il film alterna riprese in pellicola a riprese video, che colgono con brutale immediatezza il progredire della malattia), per Delbono la tecnologia è invece un feticcio che non è interrogato criticamente, ma è adoperato con una sorta di inquietante entusiasmo, come nel momento in cui l’autore usa lo smartphone alla guida dell’auto, intonando per alcuni minuti la famosa canzone Comandante Che Guevara. Per Delbono le possibilità che offrono le tecnologie leggere di registrazione e riproduzione video dovrebbero garantire una maggiore aderenza al reale, eppure l’esibizione delle stesse e il compiacimento con cui vengono usate rendono Sangue una sorta di sterile e povero esercizio di stile. L’inautenticità delle motivazioni e dei risultati del suo lavoro deflagrano nel momento in cui Delbono si mostra piangere. L’atto del mettersi in scena e quello naturale dell’esplosione del proprio dolore sono, a nostro avviso, incompatibili. Di conseguenza o Delbono orchestra il proprio pianto in favore di camera, e quindi recita, o filmare è diventato per lui un gesto vicino alla psicopatologia. Non si tratta di una questione di cattivo gusto (che pure si spreca) né di pudori, come lui ha rimproverato a chi lo ha accusato di sconfinare in una pornografia del dolore, bensì di una mancata consapevolezza del mezzo, schiavo del narcisismo del proprio autore anche nei momenti che si vorrebbero più sinceri.

L’ironia e l’amarezza è stata quella di vedere Sangue all’interno di una rassegna che ha dedicato a Werner Herzog un omaggio, nonché lo spazio per una densa masterclass. Proprio durante l’incontro pubblico Herzog ha ribadito, parlando soprattutto di Grizzly Man, come sia necessaria nel documentario, come più in generale in tutto il cinema, una presa di posizione etica, la coscienza dell’esistenza di un limite che presuppone la necessità di lasciare inviolata “l’intimità della morte” e che quindi non può essere ovviamente confusa con il moralismo. Questa incapacità di comprendere ciò che è lecito mostrare e cosa non lo è, prova, ancora una volta, quanto Delbono non sia un cineasta aperto al mondo, come Herzog, ma totalmente autocentrato e ombelicale.