La Guerra Fredda per il dominio del cosmo – o meglio, per quella ridicola porzione di spazio che circonda la Terra – non è stata combattuta solo in termini di competizione scientifico-esplorativa tra Stati Uniti e Unione Sovietica, ma anche sul piano immaginifico dell’invenzione artistica: la fantascienza, proiettata nell’empireo delle visioni futuristiche, specchio dei sogni e delle speranze del presente, si è prestata spesso ai fini propagandistici di entrambi i contendenti, rielaborando in veste creativa o metaforica le ansie di conquista delle due superpotenze. Particolarmente arguto e sottile, in tal senso, è il cromosoma propagandistico che si nasconde nel DNA di alcuni film di fantascienza sovietici, dove il ritratto della società del futuro riflette quell’utopia tecnologica che, nella fantasia chimerica delle istituzioni, rappresentava il luminoso avvenire delle repubbliche socialiste. Certo, il confronto tra le utopie immaginate sullo schermo e la realtà dei fatti rischiava di essere sin troppo impietoso: dopo l’iniziale fioritura degli anni Venti, segnati dal successo dei pionieristici Aelita (1924) e Il raggio della morte (1925), negli anni Trenta la fantascienza perse i favori del regime, da un lato perché le sue utopie apparivano troppo distanti dalla dura realtà contemporanea, e dall’altro perché l’estetica fantascientifica contraddiceva i canoni del realismo socialista. La morte di Stalin nel 1953 e il lancio dello Sputnik 1 nel 1957 – che dimostrò la supremazia del programma spaziale russo su quello americano – contribuirono a mutare lo status quo: il cinema del blocco sovietico riscoprì la fantascienza in quanto naturale estensione dei successi scientifici (Gagarin compì il primo viaggio nello spazio nel 1961, cui seguirono altri primati), e cominciò a produrre opere notevoli come Sojux 111 – Terrore su Venere (1960) o I sette navigatori dello spazio (1962).

In questo contesto si inserisce anche il cecoslovacco Ikarie XB-1 (1963), degno erede di una paese che aveva già offerto un apporto significativo alla fantascienza: non dimentichiamo che la parola “robot” (da robota, “lavoro forzato”) è stata coniata da Josef Čapek e poi utilizzata da suo fratello Karel nel dramma in tre atti R.U.R. (1920), dove il termine è comparso per la prima volta. I precedenti, però, non mancano nemmeno in ambito cinematografico – soprattutto considerando l’exploit de La diabolica invenzione (1958), in cui il regista e animatore Karel Zeman ha anticipato di svariati decenni l’estetica steampunk – ma Ikarie XB-1 resta l’unico esempio di film di fantascienza cecoslovacco ad alto budget e con intenti seri, non comici o satirici. A conferma della sua eccezionalità, si noti che lo stesso regista Jindřich Polák, che ha scritto il film con Pavel Juráček, era reduce da un’esperienza di stampo ben più leggero: appena un anno prima di dedicarsi a Ikarie, aveva infatti diretto un film di fantascienza per bambini intitolato Il clown Ferdinand e il razzo.

Ambientato nel 2163, Ikarie XB-1 narra l’epopea spaziale dell’omonima astronave, partita alla volta di Alpha Centauri per indagare su eventuali forme di vita extraterrestre. Trattandosi di un viaggio di ben quindici anni fra andata e ritorno, l’equipaggio tenta di replicare le dinamiche della quotidianità negli ambienti ristretti della nave: l’Ikarie diventa così un microcosmo sociale dove si alternano tensioni amorose, gelosie, momenti di svago e di esercizio fisico, intervallati dal consumo di curiosi bastoncini odorosi che, una volta annusati, risvegliano “proustianamente” il ricordo della Terra. Le prime complicazioni sorgono quando l’Ikarie si imbatte nel relitto di un’astronave del XX secolo, la Tornado, carica di cadaveri e di testate nucleari, antiche vestigia di un passato barbaro; a questo proposito, è interessante notare il fatto che uno dei personaggi, guardando al relitto con sprezzante senso di superiorità, identifichi il Novecento solo come l’epoca di Auschwitz e Hiroshima, che non a caso incarnano le due grandi colpe storiche dei principali avversari dell’Unione Sovietica. L’intento propagandistico, comunque meno pressante rispetto ad altri film di fantascienza sovietici, sfocia però in un sogno di pace e fratellanza tra “diversi”: i nostri eroi, giunti nei pressi di Alpha Centauri, scoprono una misteriosa stella oscura che emana radiazioni nocive, provocando paranoia e aggressività in uno dei membri dell’equipaggio, ma vengono salvati dall’intervento di una benevola civiltà aliena che abita un luminoso pianeta bianco. I vagiti di un neonato appena partorito a bordo dell’astronave, primo bambino nato lontano dalla Terra, annunciano l’avvicinamento al pianeta bianco e inaugurano un nuovo corso per l’umanità, che ha saputo espandere i propri orizzonti e prepara il contatto con un’altra forma di vita intelligente. Il successo dell’Ikarie si contrappone così al fallimento della Tornado, rivelando un palese dualismo fra due modi opposti d’intendere la società: la Tornado, espressione di una mentalità militarista e capitalista, si è trovata a corto di ossigeno e ha imboccato la strada dell’autodistruzione attraverso la logica dell’homo homini lupus, mentre l’Ikarie, frutto di una società pacifica basata sulla cooperazione internazionale (l’equipaggio è multietnico), predilige la diplomazia e la solidarietà umana, valori che le permettono di raggiungere indenne Alpha Centauri. Questa componente dualistica è però evidente anche nei due corpi celesti incontrati dall’astronave: la stella nera, emblema di lassismo e corruzione, trasmette un’influenza malevola che si oppone alla forza salvifica del pianeta bianco, quasi a simboleggiare il binomio tra un passato oscuro e un futuro radioso, privo di frontiere.

Il risultato è frutto di una commistione tra fede – intesa non in senso religioso, ma come generica fiducia negli istinti umani e nella perfezione dei meccanismi cosmici – e rigore scientifico, peraltro incarnati dalle differenti convinzioni ideologiche di vari membri dell’equipaggio, che tendono a suddividersi tra “uomini di fede” e “uomini di scienza”. Non ci troviamo nei territori della hard science fiction, poiché i particolari tecnici sono soltanto sporadici (anche se ben mirati), ma la credibilità del film è rafforzata dalla folta schiera di consulenti scientifici che hanno supportato Polák nel corso della produzione. In effetti, le ambizioni di Ikarie XB-1 traspaiono anche da questa cura preliminare nei dettagli, di carattere sia tecnico sia visivo: gli effetti speciali, supervisionati dal direttore della fotografia Jan Kališ, sono superiori alla media del periodo, mentre la ricostruzione ambientale si giova di scenografie minuziose, verosimili, con geometrie prospettiche che emanano un fascino ipnotico. È il caso, in particolare, degli algidi corridoi esagonali che avrebbero poi influenzato Stanley Kubrick per 2001 – Odissea nello spazio (1968), e che confermano l’importanza seminale di Ikarie XB-1 non soltanto nella storia del cinema fantascientifico, ma anche, più in generale, nella costruzione dell’immaginario collettivo.

Certo, lo stesso film di Polák non è immune da influenze esterne: la sceneggiatura è basata – seppure non ufficialmente – su un racconto di Stanislaw Lem intitolato La nube di Magellano (1955), mentre il robot Patrick, che accompagna il Dr. Hopkins (František Smolík) a bordo dell’Ikarie, è chiaramente ispirato al celebre Robby de Il pianeta proibito (1956); senza contare le similitudini con il già citato Sojux 111 – Terrore su Venere, la cui utopia futuristica è basata sulla medesima idea di cooperazione internazionale fra paesi un tempo nemici, ma con un equipaggio ancora più palesemente multiculturale. Eppure, al di là di questi precedenti, Ikarie XB-1 dimostra di aver codificato una notevole quantità di cliché visivi e narrativi che, come vibrazioni su una corda di violino, si sono ripercossi sull’intera cinematografia dei viaggi spaziali. Oltre ai corridoi esagonali, 2001 recupera il design delle tute spaziali e degli ambienti interni, l’idea delle videochiamate alle persone care, l’attenzione ad alcuni dettagli non narrativi (le fasi di svago e rilassamento durante il viaggio) e il concetto di avventura interstellare alla ricerca di vita extraterrestre; mentre Gene Roddenberry, quando concepì la prima bozza di quello che sarebbe diventato Star Trek, aveva in mente sia Il pianeta proibito sia Ikarie XB-1 come principali fonti d’ispirazione, soprattutto per quanto riguarda la composizione multiforme di un equipaggio che, pur con le dovute differenze anagrafiche, sessuali e culturali, lavora in perfetta armonia. Fondamentale è anche il tòpos narrativo dell’astronave abbandonata, il cui ritrovamento scatena conseguenze spesso catastrofiche: l’idea ritorna prima in Terrore nello spazio (1965) e poi in Alien (1979), anche se il film di Mario Bava è tratto da un racconto antecedente a Ikarie XB-1. Non c’è dubbio, però, che Sunshine (2007) di Danny Boyle paghi un debito più o meno consapevole al film di Polák, sia nel nome dell’astronave (Ikarus II) sia in alcune dinamiche narrative, compresi l’equipaggio multietnico e il ritrovamento del relitto di una precedente missione spaziale.

Tralasciando i dettagli, e osservando Ikarie da una prospettiva più ampia, si potrà notare che il suo valore pionieristico supera di gran lunga i singoli elementi della trama. In un’epoca in cui la fantascienza era ancora percepita, almeno al cinema, come forma d’intrattenimento marginale, trionfo di produzioni zoppicanti e soluzioni visive bizzarre, Polák ha costruito un film ambizioso in termini sia produttivi sia tematici, basandosi su un approccio innovativo perché razionale, pragmatico, mai surreale o fiabesco. È vero, il riscatto “istituzionale” della fantascienza sarebbe arrivato solo con il capolavoro di Kubrick, ma Ikarie XB-1 ha avuto il merito di aprire le danze, dimostrando le enormi potenzialità della space opera anche in campo cinematografico.

 

IKARIE XB-1, regia di Jindřich Polák, Cecoslovacchia 1963, 86’ (Second Run)