"Con il suo potere suggestivo, la sua frenesia, il suo invito al viaggio nel territorio della meraviglia oscura e della fantasia erotica, il nuovo horror inglese non è forse il vero free cinema?"

Jean-Paul Török, Positif, luglio 1961

 

La restituzione dei mostri alla nazione che li aveva partoriti è una storia appassionante da raccontare. Non solo è la storia del risveglio di un genere che giaceva comatoso in preda a sberleffi parodici e sussulti erotici, ma anche dell'ascesa di una casa di produzione, la Hammer, destinata a entrare nella leggenda per aver tirato a lucido l'intero immaginario orrorifico tra la fine degli anni '50 e la fine dei '60, e di un regista, Terence Fisher, capace di affermarsi come uno dei pochi veri maestri che l'horror abbia conosciuto nel secolo scorso, al pari di Roger Corman e Mario Bava.

Quando, nel 1957, venne distribuito La maschera di Frankenstein, il cinema inglese era reduce da anni di crisi nera, dovuta principalmente alla decisione da parte degli Stati Uniti di interrompere le pratiche di coproduzione con l'Inghilterra. La Hammer Films, fondata dieci anni prima da William Hammer ed Enrique Carreras, esercenti già sodali nella Exclusive Films, non navigava in buone acque ma si era specializzata in noir a basso costo e aveva tentato timide incursioni nel fantascientifico: Il triangolo a quattro lati (Four-Sided Triangle) e Strade spaziali (Spaceways), entrambi firmati da Fisher nel 1953, ormai affermatosi come regista di punta della casa (suoi, in quegli anni, anche i notevoli Tragica incertezza [So Long at the Fair, con Dirk Bogarde e Jean Simmons] e Volto rubato [Stolen Face, 1952, con Paul Henreid e Lizabeth Scott]). Che il fantastico costituisse la via per la ripresa divenne evidente con L'astronave atomica del dott. Quatermass (The Quatermass Xperiment), firmato da Val Guest nel 1955 e ispirato a un serial televisivo scritto da Nigel Kneale: l'immediato successo spinse la casa a un sequel immediato, I vampiri dello spazio (Quatermass II, Val Guest, 1956) e a una variante, X contro il Centro Atomico (X the Unknown, Leslie Norman, 1957). Un male ignoto, informe e contagioso era atterrato nel mezzo della placida brughiera inglese, trasformandola nello scenario ideale per il ritorno dei mostri che avevano terrorizzato le platee di tutto il mondo negli anni'30: Dracula, Frankenstein, la Mummia, l'Uomo Lupo e altri ancora.

Insediatasi negli studi di Bray, e con un comparto tecnico stabile e affiatato, la Hammer mise in produzione a distanza di meno di un anno La maschera di Frankenstein (The Curse of Frankenstein) e Dracula il vampiro (Dracula, negli USA Horror of Dracula), entrambi per la regia di Fisher: sono film con cui, abbandonato una volta per tutte il bianco e nero spaziale dei Quatermass, l'orrore si tinge di rosso, un rosso denso e sgargiante che non aveva mai conosciuto in precedenza e che già di per sé costituiva motivo di terrore. Rosso sangue sono le enormi lettere a caratteri gotici che campeggiano sui titoli di Dracula il vampiro, e continueranno a esserlo anche nei sei film successivi che porteranno avanti la saga per un decennio e mezzo. L'irruzione del colore nel cinema horror non è prerogativa della casa inglese, ma mai, prima, il sangue aveva avuto un aspetto così vivido e mai, prima, i dilemmi etici e morali, così come le pulsioni sessuali alla base dei miti e della società che li aveva generati erano stati affrontati in maniera altrettanto esplicita.

Come ben sottolinea Teo Mora nella sua seminale Storia del cinema dell'orrore (Fanucci, 1978), Fisher ritorna ai classici del genere reinterpretandoli come metafora di una lotta incessante tra il Bene e il Male: "l'opposizione titanica fra i due principi riassume e rafforza una serie di antinomie (umanità/animalità, famiglia/sesso, ordine/caos, scienza/superstizione) che sono messe in scena nello scontro tra Van Helsing e Dracula, nella dilacerazione interna dei suoi Frankenstein e dei suoi Jekyll". Christopher Lee e Peter Cushing incarnano magistralmente le due anime contrapposte e, per la prima volta, l'avversario e il mostro hanno uguale spazio sullo schermo: sono personificazioni speculari di un conflitto che ha radici profonde nella natura umana e nei suoi recessi più oscuri, e se la creatura è spesso dilaniata in quanto reietta, lo scienziato lo è altrettanto a causa del desiderio di trasgredire le norme e i limiti imposti. Lo scontro tra istinto è razionalità è tanto fisico quanto filosofico. Sempre Mora: "l'attenzione al sociale (che si riflette in una rappresentazione realistica del milieu vittoriano in cui le storie sono invariabilmente ambientate) e lo scavo psicologico dei personaggi (la partecipazione alle loro sofferenze, la raffigurazione pietosa di ogni deformità, fisica e morale), il compatto realismo della sua mise en scene, non devono far dimenticare che il tessuto dei suoi film è soprattutto filosofico".

Il dualismo oppositivo è alla base di tutti i film di Fisher, ne innesca l'intreccio e ne fomenta il motore propulsivo: "nessun regista è stato tanto assorbito dal conflitto tra istinto e intelletto; e se i suoi film non hanno indugiato sui mostri, essi hanno illustrato il pericolo del pensiero che vive in un vuoto emotivo: quello che queste menti possono lasciarsi sfuggire, come quello che possono raggiungere" (Harry Ringel, "I doppi di Terence Fisher", in Hammer e dintorni, a cura di Emanuela Martini). Attrazione e repulsione sono indissolubilmente intrecciate nell'opera del regista inglese – non solo nei vari Dracula e Frankenstein, o in Jekyll, ma anche in L'implacabile condanna (The Curse of the Werefolf, 1961), Il fantasma dell'opera (The Phantom of the Opera, 1962) e Lo sguardo che uccide (The Gorgon, 1964), e se è vero che "i sette film con Christopher Lee nel ruolo di Dracula non costituiscono solo un canone all'interno del cinema vampiresco ma sono anche il fulcro dell'intera produzione Hammer" (Jack Hunter, House of Horror), è all'interno della saga di Frankenstein che Fisher realizza le sue opere più interessanti e originali, declinando in maniera via via più radicale e coraggiosa l'umanità del mostro.

Già in La vendetta di Frankenstein (The Revenge of Frankenstein, 1958), la creatura non è più raffigurata nei suoi aspetti patetici o grotteschi, la sua mostruosità non più riflesso di quella intellettuale del creatore quanto piuttosto la conseguenza di un contesto allo stesso tempo naturale e sociale ("non ho mai voluto isolare il mostro dal mondo circostante" ha ripetuto spesso Fisher). E se fa bene Emmanuel Carrère a considerare La maledizione di Frankenstein (Frankenstein Created Woman, 1967) il capitolo più triste e commovente della saga, protagonista la giovane Christine (Susan Denberg) in cui il folle barone impianta il cervello dell'uomo amato, trasformandola così in uno "zombi bellissimo e mostruoso nel quale l'anima di un morto grida vendetta", l'apice del tormento viene raggiunto in Distruggete Frankenstein! (Frankenstein Must Be Destroyed, 1969), in cui la creatura non solo ha volto umano ma possiede consapevolezza della propria mostruosità. L'umanesimo che caratterizza lo sguardo del regista assume qui toni dolenti di una drammaticità senza precedenti: si pensi alla scena in cui la creatura si specchia per la prima volta, in un rimando al capolavoro breve di Lovecraft, "The Outsider". Incolmabile l'abisso che separa i film della saga girati da Fisher da quelli del pur bravo Freddie Francis (La rivolta di Frakenstein [The Evil of Frankenstein], 1964) e dallo sceneggiatore Jimmy Sangster (Gli orrori di Frankenstein [Horror of Frankenstein], 1970) autore del capitolo più scadente della serie.

Ecco perché il meno riuscito tra gli adattamenti fisheriani è La Mummia (The Mummy, 1959): nonostante la maestria della messa in scena e il fascino dei valori produttivi (straordinari il decor "paludoso e brumoso, in perenne putrefazione" di Bernard Robinson e lo sfarzo oleografico del technicolor di Jack Asher), il regista non trova modo di innestare nella vicenda le problematiche che gli stanno a cuore, colpa della sceneggiatura di Sangster che appesantisce il tutto con una maldestra struttura a flashback e si dimostra incapace di scavare sotto la superficie. Molto meglio farà Fisher l'anno dopo con Gli strangolatori di Bombay (The Stranglers of Bombay, 1960), in cui le forze del Bene e del Male si opporranno con esiti raramente così sadici e brutali e in cui "la lotta per il potere, tra i sessi o all'interno dello stesso sesso, è la norma, e l'inganno lo strumento principale per vincerla" (Ringel).

Per il regista, scomparso nel 1980, il miglior film della sua carriera restava comunque il primo Dracula. Fisher ha affermato spesso di non aver mai letto i romanzi a cui si ispiravano i film e di non aver mai rivisto le versioni della Universal prima di girare le proprie, propenso a dare una visione il più personale possibile di miti che riteneva archetipici, per sottolinearne aspetti rimasti fino ad allora sopiti. "Il vero compito di un regista che si misura con il fantastico" ha dichiarato "riguarda l'integrità delle proprie intenzioni, e se i miei film riflettono la mia personale visione del mondo è perché credo nel trionfo del Bene sul Male, e i film parlano di questo". Alla fine trionfò il Male, però, e gli eleganti gotici della Hammer vennero spazzati via da orde di morti viventi, macellai armati di seghe elettriche, stupratori e cannibali. Un nuovo orrore era arrivato.

In conclusione, una postilla sulle edizioni in dvd. A differenza di altri Paesi, dove si è fatto del marchio Hammer un traino editoriale (la collana proposta dalla americana Anchor Bay agli albori del dvd), da noi la produzione della casa inglese è sparpagliata su più etichette, alcune non più esistenti; e per motivi poco comprensibili i film più attesi fino all'altro ieri non erano ancora disponibili sul mercato. Sia dunque fatta lode ai misteriosi (sinistri?) tipi di Sinister Film che stanno provvedendo a colmare una lacuna paradossale. Insieme ai tre capostipiti fisheriani, hanno appena pubblicato anche il raro Il mistero del castello (Kiss of the vampire, Don Sharp, 1964) e il loro, sterminato catalogo comprende ormai tanti capolavori targati Hammer: dalla versione "bisex" di Jekyll & Hyde Barbara il mostro di Londra (Dr. Jekyll & Sister Hyde, Roy Ward Baker, 1970) alla discendenza patologica di Gli artigli dello squartatore (Hands of the Ripper, Peter Sasdy, 1971), passando per l'incursione nel fantastico di Losey con Hallucination (The Damned, 1963). Ma se la saga di Frankenstein e quella della Mummia sono ormai al completo, da quella dedicata al vampiro manca ancora all'appello un tassello importante: Una messa per Dracula (Taste the Blood of Dracula, Peter Sasdy, 1970), ultimo sussulto d'orrore vittoriano prima che il lugubre conte, in un disperato tentativo di mettersi al passo con i tempi, venisse trasportato ai giorni nostri con i due film diretti da Alan Gibson, 1972: Dracula colpisce ancora (Dracula A.D. 1972, 1972) e I satanici riti di Dracula (The Satanic Rites of Dracula, 1973). Lo attendiamo con ansia.

 

LA MASCHERA DI FRANKENSTEIN (The Curse of Frankenstein), regia di Terence Fisher, 1957, 82' (Sinister Film)

DRACULA IL VAMPIRO (Dracula), regia di Terence Fisher, 1958, 82' (Sinister Film)

LA MUMMIA (The Mummy), regia di Terence Fisher, 1959, 88' (Sinister Film)