Ho avuto una formazione cinematografica al rovescio: ho iniziato con i video nella periferia più sperduta, per poi scoprire soltanto in città i film al cinema. Questa traiettoria, dal piccolo al grande schermo, ha una logica tutta propria. Come osserva Thomas Elsaesser in “Cinephilia, or the Uses of Disenchantment”, un saggio pubblicato nell'antologia Cinephilia: Movies, Love and Memory, l'odierna stirpe del cinefilo è cresciuta in un purgatorio accademico – nei postumi della critical theory – e l'attitudine a rovistare tra i cassonetti è una delle sue caratteristiche distintive.

Queste cose sono collegate tra loro. Al college (diploma in storia dell'arte) avevo la sensazione che tutto fosse stato già detto, già messo in discussione, già ripetuto e già rielaborato: la camera dell'eco della teoria. Io invece spasimavo per scoperte tangibili. Volevo tuffarmi nel buio per trovare qualcosa di meno logoro, di più autentico, che non era stato ancora smanacciato fino a esserne guastato.

La cinefilia è alfabetismo cinematografico – essere capaci di guardare e di leggere la storia del cinema. Ma pur discutendo, scrivendo e pubblicando storie dalle tesi revisioniste, l'oggetto specifico di questo culto sta scomparendo. La Film Foundation stima che metà dei film americani fatti prima del 1950 e il 90% di quelli fatti prima del 1929 siano definitivamente perduti. Come archivista e curatore, mi pare che spesso le discussioni sul cinema del ventunesimo secolo siano troppo focalizzate sul cambiamento dei contesti di ricezione e troppo poco sulla materialità del film. In particolare, mi preoccupano tre luoghi comuni parecchio pervasivi. Primo, che la proiezione al cinema di un 35mm è l'unico, legittimo e sacrosanto modo di guardare un film. Secondo, che la proliferazione di dispositivi digitali implichi che non ci si interessi più al formato corretto (andando in giro per New York in metro, non direi che la maggior parte della gente guardi film dagli iPhone). Terzo, che tutta la storia del cinema sia a porta di mano grazie ai DVD e ad Internet.

Siccome questo atteggiamento nei confronti del cinema sembra collassare attorno a delle linee generazionali, non ha senso nascondere la propria età quando si scrive di cinefilia. Io sono nato nel 1982 nel nord del Texas. L'estinzione delle salette di periferia in quella regione è stata già soggetto di un romanzo di Larry McMutry del 1966, che è poi stato adattato da Peter Bogdanovich nel 1971, L'ultimo spettacolo. Per vedere un film dovevi raggiungere il centro commerciale distante venti miglia. Così, il mio primo legame con i film è stato attraverso il video: film registrati dalla televisione e noleggiati dall'unica catena aperta in paese, Blockbuster (il loro quartiere generale non era tanto lontano da lì, e la compagnia continua a essere tra i principali datori di lavoro della zona). Nel periodo in cui avevo dodici anni i miei genitori istituirono una “movie night” che ebbe breve vita. Per come la ricordo, al primo giro c'erano Il laureato, Arancia meccanica e Improvvisamente l'estate scorsa. I film erano tanto carichi di sesso che guardarli con i genitori era atrocemente imbarazzante, ma nonostante l'imbarazzo capivo la generosità del loro gesto: stavano cercando di dotare me e mia sorella di una vista abbastanza forte da riuscire a vedere al di là della Bible Belt.

In college avevo il mio giro di videoteche indipendenti. Non avevo amici cinefili, grazie alle VHS vagavo per il cinema in modo autonomo e un po' a casaccio. Mi sono fatto le spalle con Buñuel, John Waters, Polanski, Wender, Herzog. Ricordo meglio Fassbinder: tutti i suoi film avevano una tonalità verde-grigio malaticcia. L'immagine era scura, pastosa e poco contrastata, ma continuavo a prenderli a noleggio. Dato che avevo già guardato tutto Paul Morrissey, intuivo che quell'aspetto schifoso dei film di Fassbinder doveva essere una scelta artistica. È stato dopo che mi sono trasferito a New York a ventidue anni e ho visto Le lacrime amare di Petra von Kant al MOMA che ho capito quanto mi sbagliassi. In 35mm, l'immagine, i colori, i volti e la musica erano di una bellezza sconvolgente; all'uscita dalla sala ero ancora in lacrime. Da allora ho avuto innumerevoli fremiti nel regno dei classici. I primi che mi vengono in mente: una copia in nitrato de Il ritratto di Jennie alla George Eastman House; Blow Out nel Dolby originale al BAM; uno dopo l'altro Per un pugno di dollari, Brivido nella notte e L'ispettore Callaghan alla Film Society del Lincoln Center (seguiti da una intervista via Skype con Clint Eastwood, in vacanza alle Hawaii e con indosso una camicia hawaiana); L'orgoglio degli Amberson e La morte corre sul fiume al Landmark Loews, un cinema di Jersey City vecchio ottanta anni.

Gli introiti del video hanno rivaleggiato (o superato) quelli delle sale per almeno due decenni. La proiezione in 35mm è gradualmente scomparsa dalla vita quotidiana e si è trasformata in esperienza da museo, da cultura alta. Essendo cresciuto in questo ambiente, mi pare bizzarro che alcuni scrittori di generazioni precedenti discutano della scomparsa della pellicola e dell'invasione del digitale come se fosse una scelta volontaria, come se noi avessimo “sacrificato” la qualità dell'immagine e l'aspetto rituale della sala per una maggiore selezione, convenienza e varietà di titoli. Per esempio, nel saggio del 1996 “The Decay of Cinema”, Susan Sontag dichiara:

Forse non è il cinema che è finito ma soltanto la cinefilia – il nome di uno specifico tipo di amore che il cinema ispirava… Vedere un grande film soltanto in televisione è come non averlo visto affatto… Il livello di attenzione in uno spazio domestico è radicalmente irrispettoso del film… Per essere rapiti, bisogna essere in una sala, seduti al buio tra anonimi estranei.

Oppure si considerino le recenti osservazioni di James Quandt in “Everyone I Know Is Stayin' Home: The New Cinephilia”: “Nella spensierata celebrazione della cultura cinematografica nata dai new media, pochi sembrano voler ammettere che quel che conta davvero è stato perso per via dell'accettazione incondizionata dei formati recenti”.

Analizziamo l'idea di Sontag per prima. Guardare un film in video è radicalmente irrispettoso? Sì, ma solo a condizione di essere disposti a invalidare tutta la storia del cinema fuori dalla sala. Nel 1923 Pathé introduce il Pathéscope, un formato 9,5mm per la proiezione domestica di film commerciali, e per i cinque decenni successivi, fino all'arrivo del videoregistratore, le copie in formato ridotto hanno costituito una parte significativa dell'educazione dei cinefili (come Paul Schrader fa notare a Peter Biskind in Easy Riders, Raging Bulls: “La gente oggi si lamenta dei film in videocassetta. Tu hai mai guardato una copia in 8mm di Nosferatu proiettata su un lenzuolo?”). Cineteche e università hanno collezioni di 16mm che gli studiosi possono visionare in moviola. L'archivista Leo Enticknap spiega nell'intricata storia in Movie Image Technology: From Zoetrope to Digital:

Dagli anni Trenta in poi, il 16mm è stato anche usato da un gruppo di entusiasti che formavano film society in cui mostrare pellicole commerciali in formato ridotto, spesso comprendendo anche quei film la cui distribuzione in 35mm era stata proibita per ragioni politiche.

Così come il piccolo schermo non è stato soltanto televisione e home video, anche il grande schermo è sensibilmente cambiato durante la sua storia, dai nickeleodeon degli anni Dieci ai movie palace degli anni Trenta, ai teatri in affitto di Broadway degli anni Cinquanta, ai drive-in degli anni Sessanta, ai cinema d'essai degli anni Settanta. Completamente ignorato dal saggio di Sontag è anche il fatto che gli inconvenienti della sala – altoparlanti fuori uso, rumore di fondo, sedili scomodi, macchinari mal funzionanti, proiezionisti incompetenti – possono guastare l'esperienza (e che l'abitudine degli “anonimi estranei” di bisbigliare, muoversi continuamente, ruttare, maneggiare sacchetti di plastica, eccetera, è un rischio in cui si incappa anche nei più esclusivi cinema di Manhattan).

Soprattutto il titolo di Sontag è bizzarro. Fa riferimento a una “decadenza” del cinema, a un “disdicevole, irreversibile declino”, ma non nomina mai il decadimento del film – il problema della celluloide, che con il tempo si decompone, fisicamente e chimicamente. Nello stesso anno in cui Sontag pronunciava la morte dell'amore per il cinema in America, il Congresso approvava il Film Preservation Act, il quale fondava la National Film Preservation Foundation (una specie di ratifica dell'idea di preservazione come forma di filantropia privata). Sempre nello stesso anno, Jeffrey Selznick e Paolo Cherchi Usai creavano il primo corso accademico per archivisti alla George Eastman House a Rochester. Da allora, dieci corsi di laurea sono venuti al mondo, e ognuno sforna una decina di laureati all'anno (io ho frequentato il “Moving Image Archiving and Preservation Program” alla New York University e ho girato per parecchi incontri professionali: posso confermare che c'è carenza di lavoro, ma non di ventenni e trentenni disposti a tirocini non pagati).

E questo mi conduce alla tesi di James Quandt a proposito della “accettazione incondizionata dei formati recenti” da parte della new cinephilia. Nel mio campo i nuovi formati sono la prima causa di ulcera. Dal momento che l'obsolescenza colpisce velocemente le tecnologie di storaggio dati, non esiste un metodo condiviso di preservazione in digitale. C'è da augurare buona fortuna a chi voglia guardare un LaserDisc o recuperare i dati di un Floppy. Visto che è l'unico a essere rimasto relativamente inalterato per quasi un secolo, il 35mm è il solo formato “archivistico”, e la via più logica per “preservare” un film è creare un nuovo negativo e quindi una nuova copia dall'originale. Ovviamente questo è molto più costoso della digitalizzazione. Dunque, la disponibilità di ogni titolo in forma digitale non significa affatto che l'originale sia stato preservato, o addirittura che la copia sia disponibile per essere proiettata.

Infine, c'è la diffusa convinzione che grazie al digitale adesso “ogni cosa sia accessibile”. Una menzogna, evidentemente, e già Thomas Elsaesser (che ha fondato il Preservation and Presentation of the Moving Image M.A. Program all'Università di Amsterdam) scriveva nel saggio sopraccitato che “il cinefilo moderno deve sapere come assaporare l'anacronismo ingenerato dalla disponibilità di tutto, dal fatto che l'intera storia del cinema è qui ed ora”. La materialità del film, assieme con le forze del mercato e con le mutevoli preferenze culturali, preclude la possibilità di avere in effetti l'intera storia del cinema a nostra disposizione. Persino mettendo da parte la questione della preservazione per i posteri, se guardiamo a ciò che al momento è commercialmente disponibile, la situazione è problematica. Molte opere che sono state preservate copia per copia non sono disponibili su piattaforme digitali. Io ho lavorato su un progetto NFPF per il restauro dei film di Hollis Frampton, Mike e George Kuchar, Carolee Schneemann e Lawrence Weiner, e nemmeno uno dei prodotti finali è disponibile in un qualunque formato digitale (in verità, a distanza di poco tempo dall'uscita dell'articolo, Criterion ha reso disponibile alcuni lavori di Frampton in dvd, ndr). Nel regno del film di finzione (preservato o no che sia), la sempre maggiore varietà di scelta tramite le piattaforme digitali è un abbaglio. Mentre il miglioramento esponenziale della qualità di immagine e suono è una cosa positiva per il consumatore (non è necessario dire che il cofanetto Criterion della BRD-Trilogie di Fassbinder è incommensurabilmente meglio delle videocassette), c'è nondimeno un problema di avvicendamento dei formati. Ad ogni miglioramento tecnologico, il costo e le difficoltà di riformattare ci costringe ad una selezione: è più costoso riversare in Blu-Ray che in DVD, e a sua volta è più costoso riversare in DVD che in videocassetta. Jan-Christophe Horak, il capo del Film and Television Archive della UCLA, discute del problema nell'eccellente articolo “The Gap between 1 and 0”. Poco dopo la sua pubblicazione nel 2007, ho intervistato Horak:

Ogni formato ha ridotto la scelta di ciò che è disponibile. Questo è un fatto empirico. È enorme il numero di titoli che erano in commercio in videocassetta e che non lo sono in DVD, e che non potranno esserlo semplicemente perché è troppo costoso. E questo potrebbe verificarsi di nuovo se passiamo alla distribuzione su internet, anche se non è detto che sarà così. Ci saranno sempre nuovi formati, compressioni migliori, e la ricerca e lo sviluppo di nuovi formati terrà il prezzi alti.

L'idea che “tutto è disponibile” presuppone una definizione molto limitata di cinema, una in cui magari l'80% è fiction, il 15% documentario e il 5% sperimentale. Un'idea del genere è distorta dal mercato – dalla varietà di titoli disponibili e dalle particolari situazioni di copyright. Via via di più, i cinefili immersi negli ultimi trenta anni di home video vanno abbracciando una definizione più ampia di cinema (il successo dell'espressione inglese “moving image” lo conferma). In una tavola rotonda postata qui, Neil Young cita Manny Farber, le cui opinioni (pubblicate più di quarant'anni fa) in questo contesto sono insostenibili: “Adesso la gente che prende i film sul serio studia il porno, la pubblicità, lo Scopitone. La mole di quel che oggi passa per film, oltre agli entusiasmi per l'esistenza di così tante numerose “tipologie”, è una cosa che fa allentare le viscere.”

Negli ultimi anni sono stati proiettati all'Orphan Film Symposium, diretto da Dan Streible della NYU, il primo film di Sam Fuller, un documentario in 16mm sulla liberazione del lager di Falkenau da parte dell'esercito statunitense (1945), il j'accuse di Ed Bland contro l'America bianca, The Cry of Jazz (1958), e il corto del premio Oscar Saul Bass Why Man Creates (1968). Altre rassegne ancora più marginali, come “That's Undertainment!”, la recente retrospettiva dell'Antology Film Archive “Unessential Cinema” curata da Andy Lampert (“Soltanto per stanotte, i nostri presentatori dalla vista annebbiata mostreranno i loro ritrovati in un'esperienza di cinema espanso a quattro proiettori, un'incursione al cuore della monotonia”), e “A/V Geeks”, lo spettacolo itinerante di Skip Elsheimer composto dalla propria collezione di film industriali e didattici, dove tra l'altro ci si potrebbe imbattere in Shake Hands with Danger, un repellente film diretto dal regista di Carnival of Souls, Herk Harvey. Oppure, infine, la Barbara Gladstone Gallery di New York con “The Unfinished Film”, una ricognizione dei progetti abortiti di Pasolini, Kenneth Anger, Erich von Stroheim e altri venti filmmaker e artisti, a cura di Thomas Beard.

Culturalmente, noi viviamo nella transizione analogico/digitale. Allevati in un nido di oggetti concretamente analogici, molti di noi si sorprendono in atteggiamenti da collezionista compulsivo e si crucciano di fronte alla prospettiva di un futuro dai “contenuti immateriali”. Una delle cose buone della vita nel ventunesimo secolo è che si può vedere l'intero catalogo della Janus in pigiama. Ma a questo privilegio fa seguito l'impulso ad andare a rovistare tra gli archivi (o tra le cantine e le soffitte dei collezionisti e dei produttori amatoriali) in cerca di tesori abbandonati. Il cinefilo di oggi, come il cinefilo di ieri, deve uscire e scavare.

 

(testo originariamente pubblicato in Project: New Cinephilia; traduzione di Carlo Mezzasoma)