Ho riservato per la fine il più singolare, e senza dubbio il solo veramente geniale, di questi cineasti oscuri: l'italiano Vittorio Cottafavi. Non c'è nulla che lo accomuna ai cineasti precedentemente citati, se non l'ignoranza nella quale lo teniamo, e probabilmente anche l'inclinazione per il melodramma, genere che fu disprezzato e che ci ha fornito una della migliori chiavi per la “specificità” della settima arte. “Avventure straordinarie e inverosimili; sentimenti romanzeschi teneri o feroci; spettacolo che sostituisce l'analisi caratteriale…” (Vincent, “Teoria dei generi letterari”): questo è – in apparenza – l'ambiente ambiguo nel quale si immergono Milady et les mousquetaires [La vita avventurosa di Milady], Le bourreau de Venise [Il bravo di Venezia] o Femmes libres [Una donna libera]. Detto questo, noi non vogliamo in ogni caso fare un processo alle intenzioni. Perché, perfettamente cosciente dei limiti del genere nel quale lui lavora, Cottafavi non cerca di illuderci o farci qua e là qualche strizzatina d'occhio giocosa: al contrario lui conserva fino alla fine una totale buonafede nel suo racconto e nei suoi personaggi. Lui si lascia prendere dal gioco – puerile o retorico che sia – e noi ci lasciamo prendere con lui, malgrado noi lo conosciamo. Ironia e non più l'esplosione romantica alla Abel Gance: non sono comparabili in questo senso la frenesia di Dame aux camelias [La signora delle camelie] di quest'ultimo (1934) con Fille d'amour [Traviata '53] (1953), pacato, sereno, quasi “classico”. Io non esito a vederci una trascendenza del genere – un po' come nel Fritz Lang di J'ai le droit de vivre [Sono innocente] (con tutte le proporzioni, tuttavia).

Tanto che gli eroi di Cottafavi, i loro gesti, i loro portamenti esercitano sullo spettatore attento la stessa inesplicabile fascinazione che può trovare in Lang o, in maniera minore, in  Preminger. È la stessa tensione che si risolve bruscamente in una situazione pacifica (o viceversa), le stesse smorfie che non sono altro che porte aperte sulla pura bellezza. Quando Eddie Costantine, braccato dai suoi vecchi complici, tenta di scappare da loro per le strade di Roma (seconda scena di Repris de justice [Avanzi di galera]), quando Barbara Laage, sola nella penombra di una strada, si mette a correre senza meta, tallonata da una camera che la fiancheggia all'unisono (Fille d'amour [Traviata '53]), quando Anna ripudiata dal suo amante vaga con passo costante nel grigiore piovoso di un giardino pubblico (Vengeance de femme [Una donna ha ucciso]), noi crediamo che stia cadendo il mondo davanti ai nostri occhi, per il solo effetto di una messa in scena ammirabilmente in sincronia con i personaggi e i loro sentimenti del momento, provocando come una improvvisa “rivelazione” del mondo “dove ogni dettaglio è l'elemento di un mosaico luccicante, il quale guida la nostra partecipazione grazie a questo equilibro interno ottenuto con la precisione meravigliosa della sua collocazione”.

Aggiungiamo a queste virtù d'ordine puramente formale (e forse incosciente), la sempre eccezionale cura all'accompagnamento musicale, che contribuisce non poco al “fascino” duraturo che emanano questi film, donando loro un'agilità quasi felina (Fille d'amour [Traviata '53] dev'essere in questo senso comparato a Chronique d'un amour [Cronaca di un amore] di Antonioni, per l'ammirabile utilizzo del trombone e del flauto), l'intimismo fremente nella direzione degli attori, l'arte del “recitato” che nessun italiano – tranne Rossellini – possiede fino a questo punto, e abbiamo appena abbozzato lo studio indispensabile che invoca questo autore “maledetto” nel confronto con tutti gli altri. Un barocco placato, ecco quello che è il mistero italiano di cui dovremmo ammettere prima o poi “l'inverosimile verità”.

Cosa ho voluto dimostrare (alcuni diranno: per assurdo)? Che nulla, o quasi, è stato detto sulla Storia del Cinema. Che la nostra conoscenza delle arti è frammentaria, e specialmente quella della settima arte che propone tante opere su cui riflettere, e noi siamo portati ad escludere in maniera sempre più severa, sempre più casuale. Che è un eccellente guerra per mettere continuamente in dubbio i valori consacrati, qui più che da qualsiasi altra parte, e riesumare dall'ombra coloro sui quali il giudizio dell'attualità (così tendenzioso) si è affrettatamente pronunciato. Che alla fine una conoscenza esatta dell'arte che noi amiamo è a questo prezzo.

Esatto? Che bel sogno! Quanti tentativi ancora da fare! Verrà un giorno in cui tutto sarà chiaro. Quando i credi autentici saranno etichettati e assaporati senza il rischio di sbagliare, di confusione con le denominazioni volgari. Per adesso ancora tutto scorre, pressapoco indistintamente sulla nostra tavola.

(testo originariamente pubblicato su Cinéma 59, n.40, ottobre 1959, pp. 79-80; traduzione di Alberto Beltrame)