A la limite…traces, di Regina de Almeda, Kamel Regaya e Anne Toussaint, Francia 2009.

(1) Alienante, straniante, disturbante. Non c'è una storia, né un protagonista: solo la desolazione e la constatazione di una vita che non si può considerare tale. Lo squilibrio non proviene tanto dallo spazio ristretto quanto dalla ripetizione incessante di azioni quotidiane che si succedono inesorabilmente, provocando la perdita della cognizione del tempo. Ma la ripetizione non sta solo nella successione dei gesti o nella pronuncia meccanica di parole prive di connessione. Perfino le inquadrature ricalcano quest'aspetto della vita carceraria, attraverso la ricorrente alternanza di tre dettagli ravvicinati: un occhio, la fronte e infine la base del collo di uno dei detenuti, di cui non si intravede il volto. È proprio l’impossibilità di scorgere il viso dei condannati a dimostrare come nell'ambiente descritto non esistano più gli individui, né le singole personalità e, a volte, venga a mancare persino la ragione. (Denise Augusti)

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(2) Gli oggetti sono intrappolati nell'inquadratura e circoscrivono il limite della vita assurda del carcere, tracciano lo spazio attraverso i gesti ossessivi della quotidianità, raccontano i sentimenti imprigionati in un metro quadro di esistenza. La decisione radicale di affidare le riprese del corto a un detenuto della prigione parigina Santè porta l'immaginario di chi vive la detenzione a travalicare le mura del carcere. Chi riprende non parla e non si mostra: immagini ripetitive, racchiuse in dettagli fotografici profondi e silenziosi, ritagliano lo spazio, dilatano e raccontano il tempo immobile. Mangiare, dormire, lavarsi, lavorare, scrivere. Di chi siano quelle mani, quei visi, quei gesti comuni, quegli oggetti, non è importante. Uniche finestre aperte sul il mondo, un quadro e la tv sempre accesa, a tracciare il confine tra ciò sta fuori e ciò che sta dentro, presenza surreale sul paradosso del limite. (Paola Cireddu)

 

Anna, di Spiros Charalambous, Cipro 2012.

In un villaggio a Cipro vive un uomo, anziano e malato. Di lui si occupa una giovane donna filippina che lui si ostina a chiamare Anna, come la protagonista della soap che guarda in televisione. Facendo ordine nella stanza dell'uomo, la donna rinviene una scatola con alcune foto di famiglia e scopre che quel nome ha a che fare con il passato dell’uomo. Al suo primo cortometraggio, il regista racconta una vicenda di solitudine, ma anche di complicità e di affetto, di compassione e pietà reciproca. Michalis è abbandonato a se stesso dalla figlia che non se ne occupa e che rimprovera Mary, trattandola con diffidenza, perché estranea alla famiglia. Vengono così messe in luce le difficoltà affrontate da un estraneo alle prese con l'inserimento in un delicato equilibrio familiare. Notevole la fotografia in bianco e nero, scelta per evitare che lo spettatore dia importanza al colore della pelle e che circoscriva la storia a un episodio di razzismo. (Davide Angioi)

 

Buhar, di Abdurrahman Öne, Turchia 2012.

Una donna ascolta distrattamente la televisione, intenta ad apparecchiare la tavola in attesa del marito. Sullo schermo scorrono immagini in cui alcune coppie raccontano esperienze fallimentari di matrimonio. All'arrivo dell'uomo, i dialoghi vengono ripresi di riflesso su uno specchio, spesso offuscato dal vapore ("buhar") di una teiera a pressione posizionata proprio sotto lo specchio, così da lasciare all’immaginazione ciò che accade nella casa. Girato interamente in bianco e nero, il corto si serve di pochi elementi per denunciare la condizione di vita delle donne turche, sottoposte alle angherie di uomini che possono decidere come e quando "servirsene", e qualora non adempiano ai loro doveri, sostituirle come fossero oggetti. Un piccolo gioiello di eleganza e rigore che raggiunge l'essenziale con il minimo indispensabile, uno specchio e il vapore. (Simona Cao)

 

Buio, di Jacopo Cullin, Italia 2012.

Il giovane e disilluso Vincenzo e l'anziano e saggio Mario, seduti su una panchina, riflettono sull'amore. Con fare paterno, il primo invita il secondo a non perdere mai la speranza e lo coinvolge in un viaggio fuori porta. Qualcosa cambierà. Cullin, all'esordio come regista, confeziona un cortometraggio fresco, solare, a tratti poetico. L'eterno e mutuo confronto tra giovani e anziani, essenziale e prezioso per entrambi; il piacere della scoperta dell'inatteso, sempre dietro l'angolo; un inatteso di cui il regista si serve con sapienza per concedere circolarità alla storia dal sapore di apologo. Elegante nei movimenti di macchina e caratterizzato da una fotografia rilucente, il corto merita anche per la presenza di Cullin nel ruolo di Vincenzo, i cui occhi tradiscono spesso e volentieri la sua naturale inclinazione alla comicità. (Massimo Atzori)

 

Chamomili, di Neritan Zinxhiria, Grecia 2012

(1) Una vecchia donna rimane sola dopo la morte del marito, il bosco innevato attorno alla casa in cui vive è freddo e inospitale, il mondo civilizzato è lontano, indifferente. La donna trascina il cadavere dell'uomo attraverso la foresta, ma arrivata alla strada nessuno si fermerà ad aiutarla. Al suo secondo cortometraggio il regista greco Zinxhiria filma (in 35mm) una parabola sulla vita e la morte che lascia esterrefatti: l'assenza di dialoghi e i pochi rumori ambientali si coniugano bene a una fotografia di rara bellezza, immergendo lo spettatore nel desolato mondo della protagonista. La macchina da presa indugia sul volto della donna, ma tra i solchi delle rughe non c'è traccia di dolore, solo l'intensa determinazione nel voler dare una degna sepoltura al corpo ormai freddo del marito. Uno splendido ritratto dell'assordante silenzio della morte. (Simone Senis)

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(2) “She is alone. The land of the living is far away, while the world of the dead smells like chamomile.”

Un rigido inverno, una baita isolata e un asino fanno da cornice alla vita di una donna sul cui viso, segnato da profondi solchi rugosi, pare quasi possibile leggere la fatica di una vita intera. La vediamo intenta a prendersi cura del marito appena morto, e la sua dolcezza porta con sé l’odore della camomilla. La regia pacata e delicata del giovane Neritan Zinxhiria rende bene l’idea della condizione d’isolamento attraverso un uso intelligente della profondità di campo. Altri elementi, come il ronzio della linea telefonica, l’asino che prima non vuole seguirla e poi scappa, un’automobile che la vede e non accenna a fermarsi, danno vita a un forte simbolismo arcaico; e la fotografia, fortemente esplicativa, parla al posto della protagonista silenziosa per mezzo di fotogrammi che rimangono impressi a lungo negli occhi e nella mente. (Marina Porcheddu)

 

Mali Debeli Rakun (The Little Raccoon), di Barbara Vekarić, Croazia 2013.

Dubrovnik, 1991. Lily ha otto anni e nella sua città capita, a volte, che dal cielo cadano bombe. Durante i coprifuoco, la piccola si rifugia con la famiglia e i vicini in un seminterrato, nel quale trascorre le lunghe ore di attesa truccando le coetanee. Lily sa che presto si imbarcherà con la madre incinta su una nave che le porterà in salvo; ciò che non sa è che suo padre non potrà seguirle. Mali Debeli Rakun racconta la guerra attraverso lo sguardo di una bambina, riuscendo a non estremizzarne i tratti infantili né quelli prematuramente adulti. Ma il corto rende con lucidità anche la vita di una coppia tra abitudine e dolore, il delicato rapporto tra padre e figlia, la cattiveria delle inimicizie tra bambini, il gioco usato come filtro per accettare la realtà. E il centro storico del capoluogo croato è ripreso in una dolente luce di nostalgia. (Paola Carboni)