“Sachons aimer, boire et chanter, 
C'est notre raison d'exister, 
Il faut dans la vie 
Un brin de folie!“

(Boyer, Strauss, Aimer, boire et chanter)

 

“Resnais non ha che un soggetto, corpo o attore cinematografico, l'uomo che ritorna dai morti.”

(Gilles Deleuze, Ottimismo, pessimismo e viaggio. Lettera a Serge Daney,  1986)

 

Tanto vale dirlo subito: Aimer, boire et chanter è entrato, suo malgrado, nel novero di quelli che potremmo definire “film-congedo”, ovvero in quel ristretto gruppo di opere la cui realizzazione si è legata indissolubilmente alla dipartita del proprio realizzatore. Difficile, in questi casi, sottrarsi alla banale suggestione del cortocircuito fra arte e vita, o all'altrettanto banale tentazione di leggere nel film i presagi della fine imminente (tanto più che, a quanto pare, Resnais stava già mettendo mano a un nuovo lavoro). E tuttavia quel che ci rimane è questo Aimer, boire et chanter, allegra danse macabre, estremo tentativo di giocare, esorcizzandolo, quel Grande Mietitore che in Vous n'avez encore rien vu aveva le fattezze (e l'impermeabile) di Mathieu Amalric.

Un film inevitabilmente terminale, dunque, ma non senile. A differenza del Clive/John Gielgud di Providence, che nel suo tentativo di allontanare lo spettro della propria morte riusciva soltanto a produrre immagini di sfacelo, rovina e violenza, Resnais non si è mai tirato indietro:  ha affrontato a viso aperto le catastrofi del XX secolo (la Shoah, la bomba atomica, il colonialismo, le dittature) senza mai smettere di frugare nella discarica della modernità (quante macerie, quanti rifiuti nei suoi film!) per rimettere pazientemente insieme i cocci del mondo secondo prospettive sempre nuove e inaspettate. Per questo a più di novant'anni è stato capace di costruire una ratatouille (parole sue) di materiali eterogenei, un film, se possibile, più “sfilacciato” e  libero dei  precedenti.

Del resto, la figura di Resnais ha sempre oscillato fra due poli: da un lato  il “cruciverbista”, il fautore di «un cinema di idee, allegorico e un po' freddo», come lo definiva Serge Daney; dall'altra l'artigiano, o, come amava definirsi, il bricoleur che gioca con il cinema «come in altri tempi si giocava con il meccano». Da una parte avremo quindi Vous n'avez encore rien vu, cioè il “film-summa”, il monumento (funebre) solido e compatto, tutto rivolto alle Grandi Questioni dell'esistenza, l'Amore, la Vita e la Morte (anche quelle dell'autore e del cinema); dall'altra  Aimer, boire et chanter, il “film-postilla” nel quale, messo da parte il Sublime, il cineasta si diverte, con programmatica sprezzatura stilistica, a far collidere – e soprattutto  a fare stridere – fra loro i diversi linguaggi: teatro e cinema in primo luogo, ma anche la sitcom (la staticità dei piani, l'effetto chroma key), i fumetti (i siparietti disegnati da Blotch) e il mai dimenticato teatro boulevardier di Sacha Guitry. «Je garde le goût intact de faire se rencontrer des choses qui ne devraient pas se rencontrer, c'est ce que j'appelle l'attrait du danger, du précipice». 

Tutto il film ha in effetti l'aria di un valzer spensierato sull'orlo del baratro, e forse non è un caso che Resnais abbia sostituito il titolo originale della pièce di Alan Ayckbourn, da cui il film è tratto, con quello di un celebre brano di Lucien Boyer su musica di Strauss Jr., che fa capolino in più di una sequenza. C'è ancora, nonostante tutto, la voglia di “amare, bere e cantare”, anche se il motore immobile (e invisibile) della vicenda è un malato terminale di cancro, e l'ultima immagine del film un memento mori.

I personaggi sono ombre che si materializzano dal nulla, chiamate a recitare il copione già scritto  delle proprie nevrosi (si veda l'incipit, con Kathryn/Sabine Azéma e Colin/Hippolyte Girardot che dimenticano le battute), oppure bloccate nella ripetizione meccanica delle proprie azioni (Simeon/André Dussolier che prende ripetutamente a calci un tronco d'albero). Ma davanti a questa umanità, in passato assimilata ai topi di Mon oncle d'Amérique o alle meduse di Parole, Parole, Parole…, l'atteggiamento di Resnais non è più quello dello scienziato che fa «per gioco, per ironia o per gusto del morboso dei film simili ad esperimenti» (ancora Daney). Indossati, per quest'ultimo spettacolo, i panni del burattinaio, egli muove le proprie marionette tra una finta aiuola e un telo dipinto di uno Yorkshire inesistente, che però, davanti agli occhi incantati dello spettatore si trasforma istantaneamente nel cinema, nel mondo, nella vita.