Per una dozzina di anni nessun regista in Francia – e, nel suo genere, in assoluto – ha potuto eguagliare la fama, tanto effimera quanto pruriginosa, di cui Roger Vadim ha sapientemente goduto. In perenne equilibrio tra tabloid e box office, il nome di Vadim richiama quelli di Brigitte Bardot, Catherine Deneuve e Jane Fonda. Solido direttore di attori, rabdomante della provocazione, ebbe uno straordinario talento nell'autopromuoversi come ultimo esemplare del bon viveur che alle soglie della rivoluzione sessuale era ancora in grado di rappresentare, per giunta senza apparente contraddizione, una sorta di critica radicale della mentalità borghese, gli ultimi fuochi del moralismo libertino oltre che un edonismo dopato dal jet set, dai paparazzi e dalla più che dolce vita di Saint-Tropez (del cui mito, per inciso, è stato uno degli artefici; nonché, a suo stesso dire, l'inventore del termine “discoteca”). Di quello che fu una star, oggi rimane una filmografia incostante, sbiadita e tenuta assieme esclusivamente dal mestiere e dall'esplorazione epidermica della sessualità femminile: un carosello di donne in amore, di ammiccamenti ai tabù e ai vezzi dell'epoca, di trovate che piacciono ai ben più imbranati alleati dei Cahiers. Tra le poche eccezioni nell'abisso di luccicante mediocrità, Barbarella sembra oggi l'unica ragione per non dismettere del tutto Vadim (un giudizio comunque affrettato, specialmente a fronte di alcune perle di piccole dimensioni come Un corpo da possedere – Héllas; Il sangue e la rosa – Et mourir de plaisir e qualche episodio memorabile de Il piacere e l'amore – La ronde).

Barbarella segue la bizzarra vicenda dell'omonima astronauta incaricata dal Presidente della Terra di rintracciare lo scienziato Durand Durand, il quale è in grado di costruire un'arma di distruzione di massa in un universo che da millenni ha rinunciato alla guerra (e, cosa più importante, al sesso come si deve). Giunta nel pianeta Tau Ceti, Barbarella entra in contatto con una tirannia feroce che opprime il popolo e vive nella depravazione della Città Nera, in cui l'eroina riuscirà a penetrare per sconfiggere il male, non prima di aver superato una serie di prove di resistenza, coraggio e intraprendenza. Tra gli aiutanti, nonché partner sessuali della nostra, un angelo biondo, cieco e seminudo (John Philip Law), un villosissimo “acchiappabimbe” (in originale “catchman, Ugo Tognazzi) e il capo della resistenza partigiana (David Hemmings).

Tuttavia, già dal celeberrimo incipit dello spogliarello antigravitazionale sui titoli di testa – che nascondono quel poco che del corpo di Jane Fonda non viene esibito – è evidente quanto l'intreccio sia un accessorio tutt'altro che indispensabile. Grazie allo statuto di cult che il film ha conquistato negli anni, a fronte di un'uscita in sala piuttosto tiepida, Barbarella affascina, oggi come allora, per essere il concentrato più instabile e strampalato di quello che un recensore dell'epoca su “Playboy” ha definito “l'apopteosi dell'erotismo”. Detto altrimenti, Barbarella a suo modo inventa (o forse solo consacra) cinematograficamente due cose: la pop art e l'orgasmo femminile. 

Della sensibilità pop, virata felicemente in camp, ancora più spensieratamente in kitsch e di lì a poco in lisergico, il cinema della seconda metà degli anni Sessanta è un ricettacolo in cui si annidano le forme più alte dell'art cinema: un popolare vigoroso e scanzonato, i fremiti e le inquietudini che condurranno al Sessantotto, un accenno di ricambio generazionale che convive con il canto del cigno dei maestri esorditi tra gli anni Quaranta e i primi Cinquanta. Sotto uno stesso tetto, dunque, si ritrovano Godard e Tinto Brass, Antonioni e Jacques Demy, Preminger e Makavejev, Losey e Oldrich Lipsky, Kubrick e Ken Russell, Ferreri e Richard Lester (gli accoppiamenti sono doviziosi, ma la lista prenderebbe giorni – senza dimenticare il contributo autoriale di sceneggiatori, scenografi e costumisti che spesso è addirittura più rilevante). Sensibilità, appunto, e non movimento o corrente, il carattere distintivo del pop al cinema è un sistema di flussi indisciplinati e tensioni emergenti largamente indebitato con pratiche artistiche, mediali e culturali disparate: se la pop art nello stesso periodo aveva razziato dal cinema l'immaginario e il carattere di industria culturale, ovvero le strutture di profondità, il cinema risponde cannibalizzando gli elementi di superficie tipici della pop art – colori, forme, gesti, vezzi – ed eleggendo quindi a guida tre “arti minori” ma fulgidamente moderne, la moda, il design e, in misura minore, il fumetto. Fenomeno transnazionale che riguarda tanto il Giappone quanto l'Europa dell'Est, curiosamente la sensibilità pop si manifesta in forma più energica tra Francia ed Italia, spesso nella forma di coproduzioni che, inaugurando una tradizione che germoglierà nell'exploitation, dissimulano i caratteri nazionali in favore di un esperanto di matrice USA che ha in Mr. Freedom e, appunto, in Barbarella i suoi esempi più clamorosi. D'altronde, la sensibilità pop è un'invenzione dei produttori. 

Non a caso, Barbarella nasce dalla testa di Dino De Laurentiis come doppio, sorella gemella, volendo, del Diabolik di Mario Bava. Il codice genetico è il medesimo: una coproduzione impegnativa, un cast internazionale, un regista affidabile e frizzante, una squadra solida di sceneggiatori (i modesti Brian Degas e Tudor Gates in entrambi, e il guitto Terry Southern in Barbarella), due dei direttori della fotografia (Mario Bava stesso e Claude Renoir) e dei costumisti (Piero Ghirardi e Paco Rabanne) tra i migliori che possono trovarsi sul mercato, attori non ancora smaliziati che la fanno da padrone (Jane Fonda, John Philip Law, Marisa Mell e David Hemmings) e più scafati professionisti da spalla (Ugo Tognazzi, Marcel Marceau, Michel Piccoli, Claudio Gora). Ma i due film condividono anche e soprattutto la comune derivazione da fumetti molto popolari specialmente tra i giovani, un'operazione che negli anni in cui l'immagine pubblica del fumetto è ancora appannata dagli echi delle crociate degli anni Cinquanta ha dell'audace. Di adattamenti da fumetti, d'altronde, nella seconda metà degli anni Sessanta non se ne vedono moltissimi: certo, c'è il Batman televisivo (che di questa colonia pop è il cardo, mentre Demy è il decumano), Modesty Blaise e Kriminal, una serie preistorica di Superman negli Stati Uniti, poco altro. Ed è l'ascendenza poco nobile che causerà i rifiuti eccellenti per Barbarella di Virna Lisi, Brigitte Bardot (alla quale era peraltro ispirato il fumetto) e, uno dei più allettanti “what if” della storia del cinema, Sophia Loren. Vadim stesso, racconta, recupera il progetto di De Laurentiis dal cestino della spazzatura in cui la moglie l'aveva gettato dacché “un personaggio da un fumetto non può essere una cosa seria”. Lui la forza ad accettare promettendole un successo che aprirà la strada a nuovi generi, ad un nuovo modo di far cinema e assicurandosi al tempo stesso il ruolo di regista. A distanza di non molti anni, una Jane Fonda plasmata dalla militanza ricorderà soltanto la sfilza di torture e di abusi che il suo corpo avrebbe subito sul set.

Ma per capire cosa resta del film al di là del suo aspetto di documento storico, quasi di manifesto di un'epoca (estetica) conclusa, occorre concentrarsi sulle torture e gli abusi di cui è invece vittima il suo personaggio nella finzione. Escludendo i capezzoli di Fonda generosamente offerti alla macchina da presa, Barbarella è straordinariamente parco nella messa in scena del sesso. Neppure un bacio (il preludio di classica hollywoodiana memoria all'ellissi dell'amplesso) palesa l'interazione fisica dei personaggi. A farci capire cos'è avvenuto sono i tanto espliciti quanto cortesi dibattiti che gli attori intrattengono per pattuire il rapporto sessuale (“se posso fare qualcosa per lei, non ha che da dirlo”; “beh, già che ci siamo… può farmi fare l'amore”) e le inequivocabili espressioni postcoitali della protagonista. Non si può negare che Barbarella risulti avanguardistico per l'attenzione che dedica al piacere femminile. Già dopo il primo “autentico” rapporto sessuale della disinibita eroina, è chiaro che siamo dalle parti di La vera gola profonda, con ben tre anni d'anticipo sul porno-chic di Damiano (ma solo di uno sul primo film a sdoganare l'orgasmo femminile sul grande schermo in Italia, il sottovalutato Brucia ragazzo brucia di Fernando Di Leo): Barbarella ha scoperto finalmente il sesso, di cui si credeva già un'esperta, pure un po' annoiata, e riparte con la sua navicella lanciando sguardi di languida gratitudine al virilissimo  Tognazzi. Del resto la terra, lontana dall'“era barbarica della contestazione globale”, è un luogo ormai progredito, dove non si fa la guerra ma neanche l'amore. Se Linda Williams nel saggio Screening Sex (2008) ha sostenuto che Jane Fonda ha rappresentato anche con i suoi personaggi l'icona del motto sessantottino “make love, not war”, bisogna osservare che in Barbarella è grazie a una missione in cui si avventura in galassie meno civilizzate, armata “come un antico selvaggio”, a suo stesso dire, che può finalmente scoprire un erotismo meno asettico e più appagante.

E però, passione ferina o meno, l'erotismo che il film predilige, e che sembra più adatto al godimento femminile, è proprio quello più cerebrale (“troppo scì scì” per il pragmatico Tognazzi) del fetish e del sado-maso. Le macchine e la violenza la fanno da padrone, in un connubio quasi lapalissiano nel mondo del fumetto e dell'exploitation dell'epoca e del decennio successivo. L'unico amplesso che viene effettivamente mostrato è quella con il carbonaro Hemmings, che avviene alla foggia terrestre, ovvero tramite congiunzione delle mani – previa verificata compatibilità psicometrica – ed ingestione delle pillole di sincrovoluttà (in originale “exaltation transference pills”). Quasi dispiace che Vadim non esplori fino in fondo la possibilità di stuzzicare l'immaginazione erotica del pubblico mostrando un rapporto sessuale basato solo sulla consapevolezza dello spettatore che i due stiano effettivamente copulando, e che risolva invece il tutto in una scena surrealmente comica. Ma proprio per questo è chiaro che il vero fulcro erotico del film è un altro: la scena dell'Orgasmatron. Jane Fonda è mostrata solo in volto mentre Durand Durand suona l'organo (!) – in “concerto per sadico e solista di sesso femminile” –, che trasmette le onde che dovrebbero farla “morire (letteralmente, n.d.r.) di piacere”. Il montaggio incrociato dei primi piani dei due sempre più concitati (quello di lei nei ripetuti orgasmi, quello di lui sempre più violento e fuori di sé) richiama inevitabilmente certa pornografia classica, ma i totali intervengono a ricordarci che Barbarella è distante, chiusa dentro a una macchina evidentemente più adatta, come osserva ancora Williams, a soddisfare un corpo, quello femminile, non volto al semplice raggiungimento del traguardo ma capace di sperimentare nel sesso “an ongoing pleasure”. 

Insoddisfatta da una sessualità terrestre del tutto de-eroticizzata e puritana, da svolgersi come un compito che va portato a termine con ordine, efficienza e pulizia, l'eroina vadimiana assaggia un po' di libertà hippy, tanto con irsuti campioni di virilità quanto con effeminati (e persino simbolicamente mutilati) angeli, rifiuta un “innaturale” rapporto lesbico per tornare infine alle macchine, annichilite nel proprio potenziale fatale e piegate al godimento dalla nostra, dotata a sua insaputa (perché il peccato originale, anche nel futuro immaginato da Vadim, è ancora come sempre nell'accorgersi di essere nudi, non nell'esserlo) di infaticabile capacità orgasmica. Una parabola profeticamente analoga a quella occidentale, in cui la liberazione sessuale ha non ha potuto limitarsi a un ritorno ad una sessualità “naturale”, ammesso che ne esista una. In un viaggio dalla repressione, alla natura, fino alla tecnologia al servizio dell'eros (o a un immaginario erotico plasmato dalla tecnologia). Tutto a bordo della navicella Alfa7.

BARBARELLA, regia di Roger Vadim, Francia/Italia, 1967, 98' (Cecchi Gori Home Video)