Sils Maria è il film della maturità di Assayas: è la lettera mancante sul foglio bianco che chiudeva l'Eau froide, il senso del ricordo che univa sotto un ciliegio gli amanti di Les destinées sentimentales, il riflesso del disegno di Joseph Beuys che sanciva un'amicizia in Fin août, début septembre.

Sils Maria mette in scena il non detto di tutto il cinema di Assayas, riprende l'idea di un correlativo oggettivo che racchiuda il racconto – un oggetto, un albero, un'opera d'arte, in questo caso un testo teatrale – e lo trasforma nel luogo dove si svolge veramente il film, l'altrove in cui prende forma. Quello che avviene sulla scena, invece (ed è qui la grandezza, lo spostamento che disorienta e costringe a trovare uno sguardo nuovo), è uno stato di esistenza che precede i fatti, una condizione universale e insieme metaforica, un sogno, uno senso di attesa che l'inusuale ambientazione ad alta quota rende magnetico e sinistro. 

L'attrice protagonista del film, una star cinquantenne che ritorna dopo anni sul testo teatrale che l’ha resa famosa, non più, però, nei panni di una giovane donna spregiudicata bensì in quelli di una matura signora sedotta, tra i passi e le cime di Sils Maria, località svizzera in Engadina, studia, prova, interpreta un testo che per imparare deve rivivere, accettando l'idea che la finzione rifletta la sua vita passata e quella presente, le sue scelte, le sue paure, la consapevolezza del tempo che passa e della vecchiaia che incombe. 

Il testo è il cuore del film, ma il film viene prima della messinscena del testo – lo si vede solo alla fine, in un teatro di Londra, e Assayas, a forza di accumulare tensioni e desideri fra l'attrice, la sua giovane assistente e la sua ancora più giovane compagna di scena, gira cinque minuti da pelle d'oca – e trasforma parole e gesti, intenzioni dei personaggi e sentimenti degli interpreti in stati d'animo assoluti, in visioni di desideri e azioni. 

Non solo Sils Maria è un film sulla vita, su ciò che si fa nella vita, su ciò che si sceglie e si sbaglia, su ciò che si accetta e ci si nega, ma è soprattutto un film che ha l'andamento della vita, insondabile, incerto, spaventato, con Assayas che al solito si prende tutto il tempo che gli serve per allestire un mondo di frammenti di altre vite e altre creazioni: la morte di un anziano regista, le immagini di un vecchio film muto di montagna (Le Phénomène nuageux de Maloja di Arnold Fanck), le lunghe battute di un testo teatrale, la bellezza paesaggistica di Sils Maria, la musica di Haendel e Pachelbel, le scene inventate di un blockbuster hollywoodiano e i filmati anche questi inventati dei guai con i paparazzi di un'attricetta americana…

Sils Maria è come un sentiero di montagna, tracciato ma incerto, aperto a mille altre traiettorie; è il serpente di nuvole che dal passo della Maloja si insinua nella valle di St. Morritz, denso eppure immateriale, spettacolare e spaventoso. Di fronte al tempo presente, come l'attrice protagonista affacciata sulla valle, ha la voglia di conoscere e la paura di non capire. Assayas ha detto di aver scritto il film pensando al suo rapporto con la Binoche, qui straordinaria interprete, al loro legame di artisti, al loro essere invecchiati insieme, all'indecisione di continuare a fare cinema nei tempi immateriali e fluidi del web e di YouTube, del digitale che appiattisce la luce e che le stesse domande sull'intimità di un personaggio, sui sentimenti evocati dalla finzione di un testo teatrale o di un film muto, se le pone di fronte a un combattimento in 3D. È una questione di rappresentazione, di vita da vivere e vita da raccontare, di azione e pensiero, e Assayas aggancia la riflessione sulla contemporaneità, con le sue ragioni e la sua quotidianità (il gossip, l'ossessione per la celebrità, l'invasione di immagini e parole), alla sua idea di cinema fisico e materico. In quanti sono mai stati così onesti e aperti di fronte al proprio cinema?

Perché in fondo le domande sono sempre le stesse: perché facciamo quel che facciamo? Cosa può ancora fare ciascuno di noi, in quel che resta della sua vita, prima di sparire, prima di essere ridotto al silenzio? Le risposte Assayas le scorge al di là del film, le racchiude negli oggetti e nei mondi con cui arricchisce la scena principale; le domande, invece, le fa gravare  sul corpo e il volto delle sue attrici (non solo la Binoche, ma pure l'assistente Kirsten Stewart e l'attricetta Chloë Grace Moretz), e le lascia sospese su una scena fragile, incerta, che scorre come le scenografie dell'allestimento teatrale nel finale, che è costruita su vari livelli, che tra ricordi, rimpianti, desideri si avvicina come quasi mai nessuno ha fatto, seconda forse solo alla profondità insondabile di un primo piano di Bergman, a esprimere quello che si prova quando ci si chiede chi siamo, cosa siamo stati e se potremo essere ancora qualcosa. 

Soli, ovviamente, di fronte alla natura che da sempre respira da sé, bellissima e incurante.

CLOUDS OF SILS MARIA, regia di Olivier Assayas, Francia/Svizzera/Germania, 2014, 124'