Un atleta entra in campo correndo. Si gira. Rientra dal lato opposto. Si gira ancora, esce di nuovo dal confine del fotogramma. Le immagini sono quelle, note, dei film scientifici che si giravano agli inizi del cinema e che, pur essendo delle esperienze, degli studi sulla fotografia in movimento e del movimento umano, avevano già toccato l'apice di quell'arte appena nascente, e esprimevano un'emozione così pura che il seguito, perfino nei suoi esempi più sublimi, non ha potuto che ritrovare, mai superare.

Leos Carax dorme, disteso in un letto. Si sveglia. Gli occhi ancora socchiusi, procede a tentoni. Si alza. Una strana chiave, impiantata nel dito medio della sua mano destra, apre la serratura di una porta segreta camuffata da un trompe l'oeil che, dipinto su una grande parete, dà a quest'ultima le sembianze di una foresta immersa nella nebbia. Oltre la porta c'è una sala cinematografica colma di spettatori mezzo addormentati. Questo pubblico di dormiglioni, siete voi. Voi guadate o sognate le immagini che passano sullo schermo. Quelle delle cronografie intraviste all'inizio. Altre ancora: film muti, sonori… Tutti i film del mondo.

Niente di aneddotico in quest'inizio in cui assistiamo al risveglio di un vampiro che da tredici anni (da Pola X) dormiva o sonnecchiava (il cortometraggio Merde!, nel 2008). Per introdurlo e siglarlo, la celebre didascalia di Nosferatu di Munau che, declinata al plurale, apre Vous n'avez rien vu di Alain Resnais, sarebbe andata a pennello. È cosa nota, questa didascalia possiede un potere magico: colui che la legge, ne sarà per sempre incantato. I meno sensibili, almeno per alcuni giorni. Avendola riletta nel film di Resnais, l'avevo ben in mente durante i primi minuti di Holy Motors: “Quando ebbe passato il ponte, i fantasmi gli vennero incontro”.

Quello che lo spettatore ancora non si spiega prende senso poco alla volta. Ma di una cosa è già certo: Holy Motors è evidentemente un film sul cinema. Dopo quello di Alain Resnais, un altro film francese in concorso a Cannes coglie nell'autobiografia l'occasione per offrire uno sguardo sulla storia del cinema, storia che per Resnais si svolge nello spazio, imponente ma limitato, di un maniero e che, per Carax, si fabbrica in una limousine trasformata in camerino, dove Denis Lavant si traveste da uomo d'affari, da vecchia mendicante, da sicario cinese, da esperto di arti marziali, da starek pazzo (come il mostro che tormentava le folle e rapiva belle donne in Merde!)… Una galleria di personaggi del cinema dell’autore, tra cui lo stesso Carax (di cui Lavant è sempre stato un sosia/alter ego).

A questi due esempi di ripiegamento del cinema in un interno, potremmo aggiungere quello di Io e te di Bernardo Bertolucci, altro ritorno di un cineasta il cui ultimo film data più di un lustro, altro film-testamento, altro film-caverna. Il suo caso stupisce tanto più che Bertolucci è sempre stato un cineasta del grande formato. Incontestabilmente, è il solo europeo della sua generazione ad aver girato, complice una falange di 10 000 comparse messa a disposizione dall'Armata del Popolo, un colossal (L'ultimo imperatore, 1987) della dimensione dei film dell'età classica di Hollywood. Niente di questa volontà di grandezza è persa quando la macchina degli Studios è ridotta alla taglia di una cantina di un appartamento romano. C'è tutto, in abbondanza. I mobili accumulati si spostano su rotelle, adattando rapidamente lo spazio alle esigenze della scena in corso. Quando i due protagonisti, un adolescente introverso e la sua sorellastra scapestrata, si ritrovano a dividere il nascondiglio, l'uno per sfuggire alle vacanze invernali, l'altra per disintossicarsi dall'eroina, decidono di giocare al cinema: il guardaroba di una vecchia contessa è là a disposizione. Un formicaio, che il giovane eroe del film ha comprato in un negozio di animali, è pronto a rigurgitare migliaia di comparse. Altro elemento messo lì a evocare il set di un film: prima di rinchiudersi, il ragazzo ha comprato sette pasti, tutti uguali, uno per ogni giornata.

Torniamo a Resnais e Carax. I muri che li rinchiudono sono gli stessi in cui si proietta lo spazio senza confini delle loro finzioni. Resnais non smette di ingannare le pareti del suo teatro attraverso l’uso di paesaggi digitali. L'automobile-camerino di Carax è come un razzo che, lanciato attraverso Parigi, abbatte le porte di luoghi da lungo tempo inaccessibili, come il palazzo della Samaritaine. Piegarsi, ripiegarsi, dispiegarsi. Si esce, si rientra… soprattutto si attraversa. Ogni volta, l’alta tecnologia, gli schermi verdi, le microcamere, i led della motion capture ci riportano al cinema degli inizi: la cronografia, il teatro filmato e anche il mestiere dell'attore, in ciò che ha di più sofisticato (Resnais), di più fisico (Carax), ma anche di più umile e artigianale (Denis Lavant): le maschere, il trucco, le parrucche, i baffi finti…

Tutto sommato, si può pensare che queste aperture testamentarie siano convenzionali. Non mancano di semplicità. Chiaramente simboliche, sarebbero indigeste se si trattasse di sentire nell'una e nell'altra i due cineasti affermare: “il cinema è questo, e questo sono io”. Averli visti uno dopo l'altro aiuta a superare l'apparente riflessività di questo cinema. Il parallelo rivela invece che, malgrado le differenze di approccio e di linguaggio, entrambi dicono esattamente il contrario, hanno in comune un gesto aurorale senza il quale il film non potrebbe cominciare: la scomparsa dell'autore.

In Vous n'avez encore rien vu, Denis Podalydès incarna un drammatugo, Antoine Danthac, nel quale riconosciamo un alter ego di Alain Resnais. Il film comincia con la sua morte. Un assistente annuncia il lutto agli attori che hanno collaborato con Danthac (vale a dire con Resnais): Sabine Azema, Pierre Arditi, Michel Piccoli, Lambert Wilson, Matthieu Amalric… Tutti sono invitati a recarsi nella casa dello scomparso per la lettura delle sue ultime volontà. Sul posto, il drammaturgo parla loro per mezzo di un grande schermo. In una video conferenza post mortem, spiega che, da vivo, la Compagnia della Colomba gli ha inviato una registrazione di un adattamento della sua opera Euridice (in realtà, di Jean Anouilh), opera che gli eredi di Danthac hanno, sotto la sua direzione, interpretato più volte in epoche diverse. A causa della sua dipartita, Danthac non può giudicare la qualità della messa in scena, lascia quindi il compito ai suoi vecchi collaboratori. Ecco le sue ultime volontà.

Le si potrebbe interpretare alla lettera: morto il regista, il potere passa agli attori. Giusto, ma con questa riserva: essi non diventano registi a loro volta. Non si danno delle indicazioni. Non commentano la performance della Compagnia della Colomba; si auto-dirigono senza dirigersi, rimanendo quello che sono: attori. Si danno allora la battuta, recitano con i personaggi dello schermo, poi tra loro, i ruoli che hanno molte volte incarnato.

Holy Motors fa eco a questa presa di potere degli attori sugli autori. Carax, l'abbiamo detto, appare all'inizio, poi scompare e lascia il posto a Denis Lavant. Eco imperfetta, dal momento che Denis Lavant è solo a ricevere il testimone di Carax, mentre in Resnais siamo in presenza di una vera e propria compagnia, quasi una comunità, con al suo interno una geometria di rapporti più o meno privilegiati, di inimicizie, gelosie, amori e separazioni che l'Euridice si occupa di riflettere. Ma non è che un dettaglio. Per quanto solo, Oscar porta bene il proprio nome, il secondo di Carax, ma anche quello della statuetta che i grandi attori di ogni epoca hanno bramato e qualche volta ottenuto: Oscar può essere chiunque, qualunque ruolo. Uomo, donna, vecchio, cinese, povero, ricco, musicista, atleta. Oscar ha tutte le età, tutti i visi, tutti i corpi di tutti i personaggi del mondo.

Questo dettaglio, che per quanto riguarda la differenza tra il cinema di Carax e quello di Resnais, è lungi dall'esser di poco conto, non ha importanza per la questione alla base di entrambi i film: che cos'è un cinema senza regista? Questa domanda, venendo da parte di due cineasti francesi, dal Paese che ha inventato la “politica degli autori”, pesa doppio. Senza, i due film non avrebbero molto peso ma solo l'apparenza di un cinema rinchiuso in se stesso, abbarbicato al proprio dispositivo. Nel cinema hollywoodiano abbiamo visto spesso all’opera il dispositivo che sorregge i film di Resnais e Carax, utile a presentare un circolo narrativo: mostrare un sistema, una giornata, un modo di vita “normale” dell'eroe o degli eroi del film. Di solito avviene durante i titoli di testa. Il vero film comincia dopo, quando un incidente perturba il ciclo normale di un sistema che sembrava perfetto. Il resto del film si occupa di riparare l'errore e creare, dopo una serie di vicende e squilibri, un nuovo equilibrio. Uno sceneggiatore americano che leggesse gli script di Resnais et Carax direbbe che il titolo del film di Resnais esprime il problema di entrambi: tutto resta da vedere. Nessun incidente perturba l'opera in cinque atti da un lato, né la missione in nove appuntamenti dall'altro. I due cicli potrebbero ripetersi all'infinito. Vuol dire che sono perfetti? E che possiamo fare a meno dell'autore, lasciar riposare il vampiro nella sua tomba?

No. Sentiamo al contrario che qualcosa non va in questo sistema di autogestione. Affrontiamo la questione dal lato di Carax, che ne parla in maniera diretta. L'attore è stanco. Oscar non vorrebbe confessarlo a Michel Piccoli che glielo rimprovera, a nome di un’imprecisata associazione di spettatori. Non confessa la sua fatica, Oscar, ma esprime una certa stanchezza. Una prima volta quando chiede alla sua autista, che gli fa anche da assistente, se uno degli appuntamenti della giornata non lo porti in una foresta (la risposta è no). Una seconda volta, con Piccoli, al quale Oscar spiega il suo punto di vista: “una volta, dice, quando tutto questo (la finzione del film, che riguarda Oscar e la sua strana occupazione, ma potremmo dire semplicemente “il cinema”) è iniziato, le macchine da presa erano grandi come uomini. Poi abbiamo visto arrivare nuovi dispositivi sempre più piccoli. Oggi, non li vediamo nemmeno più. Sono miniaturizzati, istallati sotto la pelle, negli occhi. Ci chiediamo in continuazione se sono lì, se ci guardano. Diventiamo paranoici”. Questo discorso si sposa a una nota politica che il film rende evidente, soprattutto allo spettatore francese, evocando a più riprese il Fouquet's, lussuoso ristorante degli Champs Elysées dove Nicolas Sarkozy nel 2007 ha festeggiato la propria elezione, circondato dai più facoltosi uomini del Paese.

Quello che affligge il protagonista di Holy Motors è soprattutto l'assenza di uno sguardo. La sua lamentela sembra riunire in un solo sentire due tendenze, entrambe affaticate: quella del cinema filmato e quella del cinema del reale. È quasi una banalità: oggi, ogni film ha l'aria di filmare il cinema. Vale a dire di filmare, prima ancora che un'azione, uno stile. D'altro canto, nulla è attualmente più filmato che il reale, quasi ogni evento che accade nel mondo trova pronta una o più macchine da presa a registrarlo. Certo, da quando il cinema esiste, le macchine da presa hanno registrato la Grande Storia. La novità è che non c'è bisogno di chiamarsi Kennedy perché la propria morte sia filmata. Se vi trovate in spiaggia e, mentre piantate l'ombrellone, un cane divora i vostri sandwiches, ci sono buone probabilità che la scena, tre ore più tardi, venga messa in rete e che decine di “mi piace” siano stati tele-espressi. Questo non fa di voi Buster Keaton. È probabile, del resto, che la stessa scena sia già stata filmata da un “autore” australiano che cercava di rifare lo stile di Rozier. È là che il cinema filmato incontra il cinema del reale. Da cui il problema di Oscar, professionista dell'arte o della vita? Sa quando sta vivendo, recitando, dormendo?

Gli attori dell'ultimo Resnais vi diranno la stessa cosa. Hanno passato ore ed ore seduti in una grande stanza. O si sono perduti in mezzo a un set dalle pareti verdi, senza sapere quello che Resnais voleva da loro. C'è senza dubbio una parte di vezzo in questa idea del film che si fa da sé. Dove non si danno indicazioni. Dove gli attori sono abbandonati a un'erranza, mobile o immobile, a un'azione senza direzione.

C'è soprattutto un'emozione. Quella dell'atleta delle cronofotografie. Il film di Resnais è emozionante a dispetto della sua freddezza. Anzi, emoziona proprio nella sua freddezza digitale: lo si sente nelle scenografie, nei treni, nelle stazioni, nelle stanze d'albergo. La sua immagine è carica di sentimento. Un'emozione che viene dall'impressione che tutto ciò che si vede sia la rincorsa verso una ferita, un evento, una situazione indicibile. Gli spettatori che conoscono la vita e l'opera di Resnais nomineranno forse questa chimera. Nessuno ne ignorerà la presenza. Il cineasta sparisce, si nasconde, lascia che i propri attori corrano verso di noi al posto suo. Quando riappare, è per farci capire che non è mai stato così potente come nella sua pretesa assenza. È così, semplicemente: doveva passare il ponte, diventare un fantasma, perché le immagini tornassero verso di noi.

Carax chiude con un'altra nota. La scena merita di essere descritta, seppur brevemente. Una folla di limousine bianche, tra cui quella di Oscar, vengono depositate in un gigantesco capannone. Quando l'ultimo degli autisti si è allontanato, cominciano a parlare tra loro. Non riescono a dormire, si inquietano per il loro avvenire, sembra di sentir discutere le piccole case di produzione del cinema francese. Lo sanno, e se lo dicono: la loro ora è suonata, presto saranno obsolete, forse lo sono già. Poi una di loro taglia corto e si mettono tutte a dormire.

La scena ci ricorda un'altro ponte: quello del cinema “di mezzo” di cui si parlava in un libro pubblicato da un collettivo di gente di cinema, capeggiati dalla regista Pascale Ferran. Il titolo formulava una diagnosi impietosa: il cinema “di mezzo” (quello per intenderci tra il grande pubblico e il cinema sperimentale) non è più un ponte ma un abisso. Era il 2008 e da quel momento il cinema che chiamiamo talora “di mezzo” talora “d'autore” non ha smesso di ritornare su se stesso, film dopo film, come una lunga sessione di autoanalisi collettiva. Carax non rinuncia a partecipare al gioco. Ma nemmeno di far capire che di un gioco si tratta. Ciò che stupisce è la sua ironia. Da un cineasta che gira sempre meno, che ritorna dopo tredici anni di assenza, ci saremmo potuti aspettare dell'acrimonia, e nel caso scusarla; invece siamo qui a celebrarne l'autoderisione, nei panni di una persona/attore che non smette mai di girare nuove scene. E poiché queste scene sono allusioni al suo stesso cinema, è come se ci dicesse: “in verità, ho vissuto solamente durante le riprese dei miei film”. Se avessimo avuto l'occasione di incontrarlo, gli avremmo chiesto: “e nei tredici anni in cui non hai girato, che cosa hai fatto?”. Lui ci avrebbe risposto: “Sono andato a letto presto”.

(testo pubblicato originariamente su Independencia, per gentile concessione dell'autore)