“Essere estremo per me significa essere a-normale, cioè fuori dalla norma. La norma è sopore, staticità, accettazione passiva dell’esistente. La norma è immorale perché vuole essere morale. La norma disconosce l’etica universale. Essere normali significa non progredire e accettare soltanto ciò che protegge i meccanismi dell’esistenza. L’anormalità è desiderio di progresso, è ricerca e scoperta di nuove etiche e morali adeguate ai cambiamenti che la norma nega. Sono anormale, non estremo”. Così si autodefinisce Alberto Cavallone (1), intervistato sulle pagine di Nocturno nel 1997, un anno prima della sua prematura scomparsa. Ma per il cinema italiano Cavallone non è mai scomparso, perché semplicemente non è mai esistito. Se Duchamp soleva dire che l’unica soluzione possibile per l’artista del futuro è quella di rifugiarsi nell’underground, Cavallone allora ha perseguito questo precetto fino ad auto-obliterarsi, pagando la propria volontà di indipendenza con il pressoché totale disinteresse della critica ufficiale e della distribuzione (sommo sberleffo: Cavallone ebbe un buon successo nel circuito di film a luci rosse), che non avevano voluto prendere sul serio quell’intellettuale con l’esigenza di esprimere la propria magmatica cultura attraverso opere così artigianalmente grezze e pericolose, tanto imperfette quanto immaginifiche, in grado di immergersi nelle profondità della psiche e rappresentare con estremo anticipo sui tempi la disgregazione dell’uomo e della società contemporanea. Opere che, nonostante gli innumerevoli ostacoli, il regista era riuscito a realizzare grazie alle nicchie di libertà che il cinema di allora ancora riusciva a garantire e dentro le quali poteva prendere forma anche il cinema oscuro e anarchico di un autore maledetto come lui.   

Ed è proprio Blue Movie (1978) il punto più apocalittico della sua filmografia, in cui il pessimismo estremo si esplica attraverso il gioco al massacro tra i due sessi, onirico incontro/scontro finalizzato al puro dominio e sottomissione dell’altro. Già in Spell dolce mattatoio (1977) Cavallone fotografava con lucidità implacabile il microcosmo paesano, portandone alla luce i retroscena più reconditi e proibiti, in cui è proprio il rinvenire gli stimoli malati del comportamento interpersonale a garantire la sicurezza della normalità. Ne consegue perciò che repressione e perversione servono paradossalmente a garantire un equilibrio sociale a scapito della purezza della pulsione disinibita scevra da sovrastrutture sociali e mentali, pagando un prezzo ben più gravoso di quello della desocializzazione, ovvero la disgregazione dell’individuo, imbarbarito dai dettami della società stessa. Se Spell termina con l’omicidio coadiuvato dalla coprofagia, è naturale che in Blue Movie scaturisca appieno la trasformazione attuata dalla nuova “società dei consumi”, dove uomini e donne sono sottomessi all’oscenità di quei segni che al loro interno nascondono l’immondizia che generiamo continuamente e di cui ci nutriamo.

Da perfetto guerrigliero visivo, Cavallone attacca la cultura di massa con la crudeltà del proprio sguardo, mettendo in scena le contraddizioni della realtà per poterne recuperare la dimensione altra, accettando in maniera totale gli stimoli feroci di ciò che ci circonda e adeguando ad essi un linguaggio cinematografico omogeneo a quel che racconta. Cavallone oppone all’omologazione mercificante del potere (potere che c’era allora e che c’è tuttora) un sistema di segni speculari a quelli della società dei consumi e del culto dell’immagine. E’ quindi perfettamente funzionale l’utilizzo della pornografia, con l’handjob di Dirce Funari e la lunga fellatio di Leda Simonetti con l’attore afroamericano Joseph Dickson. Il porno mira all’espressività del sesso, con l’allucinante gusto dei dettagli e la prossimità assoluta alla cosa vista, mette completamente a nudo l’oggetto lasciandolo preda alla pura concupiscenza dello sguardo, trasformando il reale nell’iperreale pornografico. È quello che viene definito da Jean Baudrillard come processo di evacuazione, ovvero “espellere le cose nel reale, e qui costringerle a manifestarsi” (2). Il fotografo Claudio (Claude Maran), uomo manipolativo ossessionato dalla merce e dagli oggetti, prima di instaurare il patto di degradazione spersonalizzante con la sua modella Silvia, le confessa: “Mi piacciono le cose, le loro superfici mi danno la calma, ma quando il corpo vuole trasformarsi in oggetto mi incazzo, perché vuole fuggire la realtà, rifugiarsi in un mondo che non esiste, si rifiuta senza conoscersi”.

Fin dal titolo, Blue Movie fa il verso all’omonimo film di Wim Werstappen (1971) e di Andy Warhol (1969 – Cavallone inoltre condividerà con Warhol una seconda omonimia filmografica con il suo Blowjob, 1980), mentre per affinità scatologico-social-sessuale, Blue movie è imparentato ad opere come Salò di Pasolini e La grande abbuffata di Ferreri, ponendosi soprattutto in dialogo diretto con Sweet Movie (1974)  di Dusan Makavejev, con il quale condivide la matrice surrealista e la pratica di inframmezzare la pellicola con filmati d’archivio che mostrano le violenze causate dalla guerra e dalla bestialità dell’uomo. E se in Sweet Movie la protagonista Carol Laure annegava nella cioccolata, qui Dirce Funari, completamente asservita al volere di Claudio e tenuta prigioniera in una stanza, è costretta a riempire pacchetti di sigarette e lattine con le proprie deiezioni in cambio di cibo e sigarette, fino a doversi spalmare completamente di merda e toccare così il fondo della dignità umana, degradandosi al punto da cancellare ogni traccia di personalità e ridurre se stessa ad una mera fabbrica di feci. In questo modo Cavallone va oltre le suggestioni batailliane e buñueliane di Spell per creare “un apparato cortocircuitale che sfocia in un equivalenza tra merce e merda” (3) di inequivocabile efficacia (per quanto didascalico).

Anche la confusione dell’intreccio è funzionale a sottolineare la dimensione onirica e schizofrenica nella quale si muovono i due protagonisti (Danielle Dugas e Claude Maran), figure speculari che provano a rubarsi le reciproche identità e si contendono i ruoli di carnefice e vittima. L’identikit della figura di Claudio è in particolare affine a quello della fotografa svedese Ursula del precedente Le salamandre (1969). Anche lei donna alla deriva, schiacciata dalla solitudine, sfruttatrice del corpo e dei sentimenti della modella brasiliana Uta, con la quale instaura un rapporto ambiguo. Ma se in Le salamandre si intravede ancora un velo di comprensione umana, di tenerezza, che una volta strappato è in grado di generare l’esplosione sanguinosa (del sentimento), in Blue Movie Cavallone radicalizza il suo nichilismo e con piglio entomologico tratta Eros e Thanatos in chiave assolutamente derisoria. Il montaggio frenetico, la musica classica e la sensualità dei corpi sono elementi che non fanno altro che enfatizzare ironicamente l’imposizione di vitalismo edonista, di un culto dell’immagine feticizzato dall’obiettivo della macchina fotografica, vera secondina e violentatrice del film, nonché strumento attraverso il quale si suggella l’ottenimento della tanto ambita omologazione repressiva dell’essere umano, imprigionandolo in un abisso siderale, senza possibilità di ritorno.

BLUE MOVIE, regia di Alberto Cavallone, Italia 1978, 92' (Rarovideo)

NOTE

(1) Nocturno n.4, settembre 1997, p.46

(2) Jean Baudrillard, Le strategie fatali, 1983

(3) Definizione di Alberto Pezzotta su Nocturno Dossier Controcorrente: il cinema milanese di Eriprando Visconti, Cesare Canevari, Alberto Cavallone, p. 47