22 Settembre 2014. Siamo stati raggiunti dalla triste notizia della morte di Peter von Bagh, avvenuta il 17 Settembre 2014.

 

In Citizen Peter, il libro su Peter von Bagh a cura di Antti Alanen e Olaf Moeller pubblicato l'anno scorso nella sua nativa Finlandia, l'oggetto dello studio viene definito “uomo rinascimentale”; il che non è di certo un'esagerazione, visto che nel corso della sua lunga, poliedrica carriera, Von Bagh ha diretto il Finnish Film Archive, firmato più di 40 libri, e presieduto il Midnight Sun Film Festival co-fondato dai fratelli Kaurismäki fin dalla prima edizione. A questi traguardi si aggiunga, per maggiore completezza, la rivista cinefila Filmihullu, al timone della quale è rimasto più di 40 anni, e il suo incarico di direttore artistico de Il Cinema Ritrovato (festival organizzato dalla Cineteca di Bologna), ed è facile dimenticare che prima di tutto von Bagh è lui stesso un cineasta di primissimo livello, che partendo da materiali d'archivio compone collage eccezionali.

Oltre ai suoi più di 50 documentari, le parti meno conosciute della sua filmografia, troppo poco viste, includono anche un lungometraggio di finzione, The Count (1971), ammirato da nientemeno che Douglas Sirk. Chris Marker una volta affermò di preferire Helsinki Forever (2008) di von Bagh al riverito classico di Walter Ruttmann Berlino: Sinfonia di una grande città (1927). Uomo dalla cultura davvero enciclopedica, Von Bagh è ugualmente esperto di film, musica, letteratura, arti visive, architettura e politica. Fare film è il suo modo di dar conto della storia del suo amato paese natale; i suoi film sono dunque pieni di predilezioni e di opinioni forti, film che scrutano dentro all'anima umana con grande intensità ed ardore.

In Remembrance—A Small Movie About Oulu in the 1950s (2013), il regista ripensa alla prima volta in cui è andato al cinema nella sua vita: a sette anni, vide un film su una spedizione artica, e all'improvviso capì quanto coraggio ci volesse per essere semplicemente un essere umano. Il tema ricorrente del suo lavoro è l'illimitata abilità del cinema di passare in esame il ventesimo secolo; il suo medium è il tessuto stesso del tempo. Fare film permette a von Bagh di soddisfare la sua sete di immagini del passato, perché il secolo intero è stato trattenuto sulla pellicola. La somma totale delle immagini catturate dalla cinepresa è un tesoro nascosto, senza fondo, che non cessa mai di farci viaggiare nella memoria. Socialism è il suo capolavoro, un mosaico assemblato meticolosamente nel corso degli anni. Come ha espresso Olaf Moeller, “von Bagh, forse il più vero di tutti i Benjaminiani del cinema moderno, mostra che il socialismo e il cinema – tutto il cinema, sia il documentario che la finzione – sono una cosa sola, e che la vita sta tutta in questo senso di non essere mai soli, ma sempre una cosa sola; che il cinema e il socialismo ci saranno sempre, proprio come sapeva Tom Joad” – Boris Nelepo

 

La caduta del muro di Berlino, e il successivo crollo del “Socialismo reale”, furono seguiti da uno dei film più sperimentali degli anni '90, la prima guerra del golfo. Quei segni verdi su uno sfondo notturno, espressionisti, trasmessi in diretta dalla CNN, la Pravda neoliberale, hanno fornito al pubblico globale un nuovo cattivo che facesse da capro espiatorio. Nel periodo che seguì la fine dell'Unione Sovietica, Hollywood dovette all'improvviso fronteggiare una penuria di cattivi. I russi infatti avevano densamente popolato i film americani, dai film di fantascienza maccartisti fino a Rocky IV (1985) e alla catarsi finale di Caccia a Ottobre Rosso (1990). Ex alleato degli Stati Uniti, Saddam Hussein riuscì a occupare il vacante trono del male, inaugurando così un nuovo capitolo della mitologia hollywoodiana: quello del musulmano cattivo. Forse Kathryn Bigelow dovrebbe riconoscergli, in parte, il merito del suo Oscar… La prima guerra in Iraq alteró pure l'alchimia tra le due componenti principali del cinema: l'immagine e il suono. In Lezioni d'oscurità (1992), Werner Herzog immortalò la preminenza delle immagini mostrando un bambino lasciato senza parole dagli orrori della guerra. Le gocce nere del petrolio sigillavano la prima guerra interamente teletrasmessa, appropriatamente combattuta con le immagini e che nascondeva le sue vittime dietro un muro di silenzio.

In Socialism, Peter von Bagh fa quasi il contrario: usa le immagini per dare una voce e un volto umano a un obiettivo politico. Il socialismo: un sogno fallito sconfitto da un incubo di successo. Il film ha la dignità cupa e luttuosa di coloro che, sfidando le mode opportunistiche, sostengono ancora le cause perse, nella ferma convinzione che solo l'unità e la solidarietà possono garantire la felicità universale, per imperfetta che sia. Guardare alla storia (e alla Storia) del socialismo attraverso le lenti del cinema vuol dire riconoscere le loro affinità (s)elettive. Senza l'industrializzazione non sarebbero esistiti né il cinema né il socialismo, ed eentrambi hanno sviluppato una relazione contraddittoria con le forze meccaniche del progresso. I primi vagiti del cinema dei Lumiere furono in una fabbrica, e le fabbriche furono anche gli epicentri delle rivolte operaie. L'omologazione della catena di montaggio e il sabotaggio creativo, la normalità e l'insorgenza, l'arte e l'artificio; la stessa antinomia dialettica ha accompagnato il cinema mondiale e le rivoluzioni mondiali. Tanto il primo quanto le seconde hanno trasceso i confini geografici e unito popoli e pubblici diversi; hanno funto da motore utopico della storia moderna, ma anche partecipato ai suoi crimini più abietti.

In maniera molto simile al cinema, il socialismo è un movimento cinetico verso una terra immaginata, un mondo di possibilità ma anche uno specchio delle nostre stesse mostruosità (in)umane.

Quello che il film di von Bagh ci ricorda è che la differenza tra il cinismo e gli impulsi utopici sta nella direzione verso cui ci indirizzano. Il primo è pavido e conservatore, mentre il secondo è immaginario e senza paura. In ultima analisi, Socialism è un film sulla vita e sul nostro ruolo in essa. A differenza dei film, il socialismo non avrà mai un final cut, richiederà costantemente la nostra partecipazione consapevole nella sua sceneggiatura sempre in corso. Spettatori nell'infinito montaggio della vita, senza un barlume di rimorso… – Celluloid Liberation Front 

 

Celluloid Liberation Front: Il tuo film, Socialism, arriva in un'epoca nella quale l'idea stessa di benessere collettivo, di emancipazione collettiva, si sta inabissando sempre più a fondo nelle “acque gelide dell'egoismo” e dell'interesse personale. Ci puoi raccontare perché hai sentito il bisogno di fare questo film, e in che modo è venuto in essere?

Peter von Bagh: Lo dico con un po' di imbarazzo, ma ciò che il film sarebbe diventato alla fine, all'inizio non lo sapevo. Avevo bisogno di dare una forma al mio interesse per il socialismo, che mi porto dietro da una vita, ma l'angolazione del film è arrivata solo poco a poco, in fase di montaggio; come al solito, non avevo una sceneggiatura. Come tutti i miei film più recenti (Helsinki Forever; Splinters, 2011; Story of Mikko Niskanen, 2010-11; Sodankylä Forever, 2010; Remembrance), anche questo è, in maniera molto forte, una visione del cinema – qualcosa che è visto attraverso quella prospettiva unica che solo il cinema può fornire, che esprime verità che non si riuscirebbero ad afferrare in altro modo. E così è nata quest'equazione strana ma forte: cinema/socialismo.

CLF: Tu consideri il ventesimo secolo “il secolo del socialismo”. Si dà il caso che sia anche il secolo del cinema, e il socialismo, come anche il cinema, viene spesso visto con gli occhi dei suoi protagonisti maggiori, anche se senza una grossa partecipazione popolare non sarebbe mai potuto esistere. Perché hai deciso di raccontare la storia (o la Storia) del socialismo attraverso le immagini del cinema?

Von Bagh: Ho provato anche altri modi, più convenzionali, ma come abbandonai l'idea di scrivere del socialismo (non sarei mai riuscito a dire niente in maniera significativa), allo stesso modo ho visto poco a poco che l'essenza del mio tema si sarebbe trovata nei film di valore fatti tanto tempo fa: una testimonianza obiettiva, forse non delle verità e di ciò che è accaduto davvero, ma delle illusioni e delle speranze, e con loro di qualcosa di più profondo degli eventi e della “storia”. Una storia alternativa del secolo.

Boris Nelepo: Cominci il film con una bella epigrafe dallo Zio Vanya di Anton Chekhov: “Coloro che vivranno tra cento, duecento anni, e ci disprezzeranno per le nostre vite sciocche e ordinarie, da noi potrebbero forse, in qualche modo, imparare il segreto della felicità”. Essa introduce immediatamente la dimensione malinconica del film, il senso di un sogno che non ha potuto avverarsi. Dopotutto, quelli a cui pensa l'Astrov di Chekhov siamo proprio noi, che viviamo le stesse vite ordinarie.

Von Bagh: In fin dei conti, forse Chekhov è il più grande amore letterario della mia vita, e la letteratura russa del diciannovesimo secolo – alla quale il lettori finlandesi sono molto attaccati – fra l'altro è anche piena di notevoli intuizioni circa il secolo successivo, compresi alcuni aspetti del socialismo. E hai ragione a proposito del carattere di anticipazione di quella citazione: è la profezia e l'enunciazione di un fatto triste. In effetti, un mio amico spagnolo, Miguel Marias, mi ha scritto che Socialism è uno dei film più tristi che lui conosca.

Nelepo: Un'altra figura emblematica russa che citi è Vladimir Mayakovsky, che è il simbolo stesso delle speranze fallite.

Von Bagh: Esatto. Un regista non deve tenersi sull'ovvio. Il destino di Mayakovsky è ben noto, e basta accennarlo per aprire un bel po' di prospettive che innervano, invisibilmente, il dramma complessivo.

Nelepo: Quelli che reagiscono al tuo film, molte volte dicono (è successo per esempio durante il Q&A a Locarno), che il tuo ritratto del socialismo sia piuttosto idealistico, e che tutti gli aspetti più crudeli e criminali dei tentativi effettivi di imposizione del socialismo nel ventesimo secolo vengano lasciati fuori. Per me questo è totalmente falso: le repressioni di Stalin le nomini, e poi fai vedere l'ultima foto di Edvard Gylling, il politico socialdemocratico finlandese, e dai la parola a Mayakovsky… E' più che sufficiente, la storia del ventesimo secolo la conosciamo. Al contempo, però, tutto Socialism è sull'inseguire un sogno bello ma impossibile.

Von Bagh: Certo, gli incubi storici del socialismo nel film ci sono, e in tutta la loro durezza. D'altra parte, immagino che qualcuno possa accusare il film di non mostrare immagini sufficientemente concrete di quei momenti, forse brevi, di socialismo concreto e realizzato nella vita di tutti i giorni – momenti che sicuramente sono esistiti. Quindi sono daccordo con quello che dici, sul fatto che nel film il sogno sia così predominante – e che sia inseparabile dalle sfumature segrete dei film che incorporo nel mio collage.

CLF: Il presunto fallimento del Socialismo (Reale) viene spesso misurato in base alla sua messa in atto pratica e alla sua degenerazione. Il tuo film al contrario sembra sottolineare la dimensione utopica del socialismo (senza per questo assolvere i suoi crimini politici), come se ciò che contasse fosse il movimento in avanti verso un mondo meno ingiusto, miserabile e preda della solitudine, piuttosto che la sua materializzazione concreta. Ci puoi raccontare che cosa ha significato per te e per la tua generazione il socialismo, e cosa ha portato con sé il vuoto lasciato dal suo smantellamento?

Von Bagh: La mia generazione, o la parte migliore di essa, ha condiviso una fede nel socialismo che all'epoca sembrava stesse sbocciando da molte parti, e che sembrava compensare le versioni brutali del Realsozialismus all'origine di tutta quella disillusione. C'era davvero un vuoto, e moltissimi ne avevano avuto abbastanza – il che si può vedere nei terribili risultati elettorali di molti paesi europei, compreso il mio. Nel guardare ancora quei vecchi film non ho potuto fare a meno che fosse il contrario a verificarsi: una nuova ventata di fiducia nasceva dentro di me, il che vuol dire che, quasi quanto parecchie belle persone negli anni Venti e Trenta, semplicemente non potevo – un'altra volta – evitare di sentire che tra le alternative che abbiamo, il socialismo potrebbe essere non solo un'utopia, ma l'unica vera chance contro le forze disumane e brutali scatenate in maniera così piena e perversa dopo il 1990 e il collasso dell'”impero”.

CLF: Socialism dipinge un'immagine del socialismo molto poco ortodossa. Si va da Lenin a Durruti, dalla rivoluzione russa a quella spagnola, con la Comune di Parigi che fa da sorta di prototipoper le rivoluzioni che verranno. Il socialismo, lo consideri un singolo momento e movimento storico o solo una delle molte forme che la lotta senza fine contro l'oppressione ha assunto nel secolo passato?

Von Bagh: proprio così, molte forme e una lotta senza fine. Con molta certezza, ho deciso di non ripetere la tragedia storica dello stare con una o due direzioni quali “le uniche giuste”. È per questo che c'è un raggio di citazioni così ampio.

Nelepo: Per me una delle qualità più stupefacenti del tuo cinema è che i tuoi film, come solo il vero cinema sa fare, cancella la finitezza del tempo e, di conseguenza, della morte. L'esempio più affascinante è Sodankylä Forever, nel quale i più grandi registi si incontrano l'uno con l'altro, a dispetto della barriera del tempo, grazie al montaggio. Sarebbe impossibile fare incontrare allo stesso tempo Vittorio de Seta, Marlen Khutsiev, Samuel Fuller e Jean Rouch, ma nei tuoi film tutto è possibile. La stessa cosa succede con le citazioni di Socialism. È una specie di immagine del paradiso in cui le persone migliori provenienti da secoli e paesi diversi si incontrano e si mettono a parlare tra loro.

Von Bagh: L'assai significativa reazione dei primi spettatori Lumière nel 1895 fu che questa  nuova invenzione, il cinema, ci dà la vita eterna. Questo è un aspetto che io credo sia presente nella maggior parte dei miei film, anche in quelli in cui lo si direbbe di meno. Altro tema principale, ad esso collegato, è naturalmente il tempo: film come Helsinki Forever o Splinters sono giochi temporali piuttosto complicati, senza le implicazioni teoriche della letteratura o del cinema francese, ad esempio. Il che dovrebbe essere vero anche di Socialism.

Nelepo: In Porto della mia infanzia (2001) di Manoel de Oliveira c'è una battuta molto bella: “Ricordare i momenti di un passato lontano è viaggiare al di fuori del tempo. Solo la memoria di ognuno può farlo. È questo, che proverò a fare”. Si può dire che tutti i tuoi film siano sempre una questione di tempo, siano sempre sull'essenza e sulla natura del tempo, e che abbiano questa qualità proustiana; io però non ricordo riferimenti diretti a Proust nella tua opera.

Von Bagh: Proust è certamente una delle esperienze di lettura decisive della mia vita. E una volta lo si menziona, nei miei film, in Helsinki Forever (a proposito dell'anonimato delle stazioni ferroviarie), insieme a Dostoyevsky e Faulkner.

Nelepo: Nella tua imponente filmografia, tu hai immaginato e creato la Finlandia. Allo stesso tempo, tu componi sempre un ritratto convincente di quello che è la civiltà, e di come funziona. Quindi Socialism è un passo più in là, perché presenta il più alto livello possibile di civiltà, fino a sfiorare l'utopia.

Von Bagh: Con la parola scritta io non proverei mai a costruire o a immaginare “una prospettiva utopica per la civiltà”, o comunque nulla di così generale. In qualche modo però il film è un medium che, senza che io debba averne l'intenzione, si spinge in un territorio di quel genere, e lo fa persino in una maniera concreta.

Nelepo: Oltre al tuo lavoro di regista e di storico del cinema, tu sei anche il direttore artistico di due grandi festival. Con cosa abbineresti Socialism in un'ipotetica proiezione doppia?

Von Bagh: Se nella risposta posso fare riferimento a film miei, ci sono due candidati ovvi per la proiezione doppia. Il primo è un corto del 1983 chiamato A Day at the Grave of Karl Marx, un film che, fra le altre cose, accenna anche alle prospettive utopiche del socialismo. Oppure, il secondo è Remembrance, un film che sembra non avere niente a che vedere con Socialism – riguarda le cose piccole della vita, mentre il film successivo è sui grandi temi – ma sono praticamente un unico e medesimo film: sulla ricerca della felicità. Ma questi accoppiamenti spesso sorprendono quando interviene ciò che non ci si aspetta: il festival di Edimburgo un paio d'anni fa ha programmato in proiezione doppia Sodankylä Forever e il film su Karl Marx, e il direttore del festival mi ha detto: sono lo stesso film.

Nelepo: Hai pensato per anni alla composizione e alla struttura di Socialism. Questo complesso mosaico include 47 estratti di film. Avevi in mente anche la primissima immagine del film, quella che poi diventa il leit motiv del resto del collage?

Von Bagh: Le immagini dei Lumiere sono state tra le prime idee che ho avuto per il film – come pure la musica precisa che avrebbe dato loro maggiore significato. L'uso dell'incisione del 1932 di “When You're Smiling” di Louis Armstrong ha portato ad altre idee musicali, quindi in pratica la colonna sonora (che non è affatto una colonna sonora ortodossa da “storia socialista”) era lì prima che qualsiasi altro elemento venisse sviluppato.

Nelepo: L'estratto da En dirigeable sur les champs de bataille (1919), con le riprese aeree di ciò che rimane del fronte occidentale alla fine della Prima Guerra Mondiale, per me è il pezzo più forte in assoluto del tuo film. La proiezione di quel film in Piazza Maggiore è stato uno degli highlights del festival di Bologna quest'anno. Come hai trovato questo film? Come hai deciso che sarebbe stato parte di Socialism?

Von Bagh: En dirigeable sur les champs de bataille è stato mostrato a Bologna molte volte negli ultimi dieci anni, ed è stato relativamente facile decidere che nella mia breve riflessione sulla Prima Guerra Mondiale quel film avrebbe fatto l'essenziale in maniera paurosamente precisa: far vedere quello che la guerra totale fa al paesaggio, alla civiltà e agli esseri umani.

CLF: In modo molto simile al cinema, il socialismo è la realizzazione pratica di un'idea. Entrambi provano, nei loro tentativi più nobili, a dare forma, o quantomeno a dare voce, a una visione del mondo più bella e più giusta. Uno ha a che fare con le immagini, l'altro con le realtà sociali, e di tanto in tanto si sono serviti l'uno dell'altro. Come descriveresti la loro relazione (se ce n'è una)?

Von Bagh: Concordo. C'è una relazione bella, quasi da sogno, tra il cinema e il socialismo. Nel caso io abbia trovato qualcosa di essenziale da dire sul socialismo – non so se sia così, ma spero di sì – è successo perché mi sono avvicinato al tema con gli strumenti di quella che io credo sia l'essenza nobile del cinema. Qualcosa di concreto eppure invisibile, che può essere toccato ma che ha anche un nucleo utopico che non si può toccare. E non voglio dimenticare i volti umani: essi sono ciò che nelle nostre memorie cinematografiche sentiamo in maniera più profonda, e ci raggiungono partendo dallo schermo allo stesso modo in cui ci raggiungono le immagini dei vecchi film. Immagini, forse, ma più propriamente la vita stessa.

Nelepo: Le testimonianze del socialismo che tu utilizzi vengono da un'epoca in cui il cinema era ancora una forma di arte di massa estremamente potente, con l'ambizione di cambiare il mondo e la società. Ad esempio, tu a Bologna ogni anno curi un programma sulla grande importanza dei film negli anni della Seconda Guerra Mondiale. Il cinema di oggi sembra aver perso questa ambizione e questo potere, e diventa sempre di più una passione condivisa da sempre meno gente. Un ritorno in auge, sarebbe ancora possibile? E potrebbe mai essere possibile il socialismo senza il cinema?

Von Bagh: Non sono un profeta ma istintivamente sono d'accordo. Oggi siamo parecchio sfortunati a vivere in un mondo (quasi del tutto) senza film (voglio dire nel potente senso tradizionale) e (quasi del tutto) senza socialismo – e questo mondo è sicuramente un posto strano, e finto. A maggior ragione bramo un ritorno in auge di entrambi, mano nella mano…

[Intervista apparsa sul numero 60 di Cinema Scope; traduzione di Marco Grosoli]