Fra le varie discriminanti con cui distinguiamo i gusti e le estetiche degli anni Novanta dai Duemila dovremmo annoverare anche la percezione dei videoclip. Vent'anni fa parlare di “linguaggio da videoclip” equivaleva a intendere una serie di immagini frenetiche e chiassose o, quando andava bene, vuote e sofisticate. Oggi accettiamo di buon grado il fatto che alcuni fra i registi più interessanti del cinema, non solo mainstream, si siano formati con video musicali e pubblicità. Perfino la parola videoclip appare invecchiata. Tanto che, quando si incontra un film come Under The Skin diretto da un regista sicuramente più attivo nei promo che nel cinema (tre film contro un centinaio di corti, fra spot e video) non si parla più dell’influenza dello stile e dell’estetica del video commerciale.

La fredda accoglienza riservata al film alla Mostra del Cinema 2013 lascia tuttavia pensare che, se da una parte la sintassi del videoclip si è ormai talmente integrata e assorbita nei canoni del cinema contemporaneo, dall’altra parte la sua semantica ha subito una sorta di rimozione. Detto altrimenti, abbiamo talmente fatto nostra la percezione di uno stile più veloce ed euforizzante, che abbiamo forse tralasciato le potenzialità cognitive di una forma capace come poche altre di modulare ascolto e visione, battito del cuore e delle ciglia.

Forse il modo migliore per approcciarsi a Under The Skin è concentrarsi su questo secondo aspetto. Glazer costruisce il film esattamente come costruiva i suoi video, cioè concependolo come un campo di sperimentazione in cui la sommatoria fra un racconto essenziale, soluzioni visive suggestive e una partitura musicale accattivante arrivano a costituire un apparato di fascinazione. Con la differenza che qua la costruzione non parte dalla musica per arrivare alle immagini e alla storia, ma effettua il percorso inverso.

Per plasmare a dovere questa macchina sinestetica, Glazer ha impiegato molto tempo ad asciugare e depurare l’approccio satirico e la complessità narrativa del romanzo di Michel Faber per trasformarlo in una parabola sulla scoperta del sé e sull’esplorazione interiore, una sorta di grado zero del racconto di formazione. Il film inizia con una nascita (la formazione biologica delle sembianze dell’aliena) e termina con una morte, con la restituzione delle spore aliene al cielo sotto forma di fumo che si confonde a dei fiocchi di neve. Nel mezzo, una progressione per blocchi che tentano di tradurre l’esperienza e la condizione (più che l’essenza) di aliena del personaggio interpretato da Scarlett Johansson. La periferia di Glasgow e le asperità delle lande scozzesi osservate attraverso un’anima liscia, glabra ma porosa, fredda e predatrice ma anche pronta ad assorbire e indagare ogni stimolo esterno. Per realizzare questa idea, il meccanismo di identificazione costruito da Glazer fa qualcosa di più che ricostruire il punto di vista di un’extraterrestre. O meglio, parte costruendo in modo letterale il suo sguardo (l’incipit kubrickiano con le immagini di fasci di luce che squarciano il buio e di figure geometriche dalle forme levigate che si rivelano essere la formazione dell’iride del personaggio), per poi espanderlo e impregnarlo degli istinti che vive sia come soggetto che come oggetto di desiderio.

È evidente soprattutto nelle scene in cui le varie prede penetrano nel vuoto della casa: una caverna oscura e asettica dove è palpabile tanto la fame vorace e carnivora dell’aliena che lo stato di trance sessuale degli uomini mentre si immergono in una materia nera, liquida e vischiosa. Ma lo è anche negli esterni, dove il naturalismo di certe scene girate con camere nascoste in mezzo alla folla aumenta questo stato di sospensione, smarrimento e ambiguità.

Per quanto riguarda la musica, invece, c’è da dire che, benché in questo caso sia stata concepita a valle e non a monte del progetto, della natura dei videoclip conserva il ruolo di modulatore e propagatore delle suggestioni più intime e, giustappunto, “sotto pelle”. La partitura di Mica Levi è tutta giocata su un minimalismo teso che connota ed espande in ogni direzione questo insieme di sensualità, freddezza ed estraniamento. Chiamata a creare delle sonorità che “non appartengono a questo mondo”, la giovane musicista britannica ha creato un distillato di archi ed elettronica al contempo seducente e inquietante, spettrale e dal timbro profondo.

Forma ibrida ed estremamente flessibile, il videoclip è quindi la dimensione ideale per Glazer al fine di riuscire a far coagulare emozioni e sentimenti contraddittori. Perché è da un insieme di antinomie che il regista britannico costruisce l’impianto fascinatorio del suo film: eccitazione e paura, luce e oscurità, organico e inorganico, pelle e viscere, realismo e fantascienza, volti deformati e celebrity skin. Un amalgama fra superficie e profondità necessario a immergere lo spettatore in quel bagno di sensazioni perturbanti che caratterizza ogni scoperta del sé e del mondo esterno.

UNDER THE SKIN, regia di Jonathan Glazer, GB/USA 2013, 108'.