Insieme ai film coevi di Samuel Fuller, Blast of Silence di Allen Baron (1961) va annoverato come una delle opere ponte tra la fine del noir classico e l'inizio del post-noir. La prima metà degli anni '60, con lo sgretolarsi delle certezze hollywoodiane, vede insinuarsi tra le crepe dell'edificio prossimo al crollo film che di quelle crepe prendono la forma: sghembi, ruvidi, violenti, parlano un linguaggio che sembra ancora quello elaborato da un ventennio di codificazione dei generi ma innestano al suo interno espressioni che innerverarnno il gergo della New Hollywood; si direbbero imbevuti di neorealismo e nouvelle vague (e non a caso i francesi li ameranno) ma raccolgono piuttosto l'eredità dei seminali La città nuda (1948) e La sanguinaria (1950). Il bianco e nero si fa sempre più sgranato: come nel film di Dassin, la metropoli è scenario indifferente, se non addirittura respingente, nei confronti delle sorti di chi la abita; e, come nel finale del film di Lewis, a nulla serve fuggirla, perché, tutt'intorno, paludi e sabbie mobili si richiudono sui malcapitati protagonisti.

Piccolo film low budget girato in una manciata di settimane, Blast of Silence è stato recuperato dall'oblio ala fine degli anni '80 e finalmente – dopo alcuni, illuminati passaggi televisivi nel corso degli anni (Fuori Orario, Raisat Cinema) – trova ora la sua meritata edizione in dvd anche nel nostro Paese. Fece bene Emanuela Martini a inserirlo all'interno della retrospettiva torinese "Indipendenti USA anni '60" nel 1992: il film di Baron è figlio della stessa temperie che ha prodotto Cassavetes, Morris Engel e Shirley Clarke, e anche se la sua fortuna critica è stata relativamente limitata (per non dire di quella commerciale) oggi può vantare uno statuto da film di culto che agli altri è negato.

Girato su pellicola di scarto con una Arriflex 35mm presa in prestito, senza chiedere permessi per i luoghi delle riprese, anzi, corrompendo vigili e poliziotti con piccole mance, il film ha il suo punto di forza proprio in un immersione deliberatamente caotica nel paesaggio urbano: Frankie Bono, killer da due soldi interpretato dal regista stesso (dopo il rifiuto di Peter Falk), con la sua voce nasale e lo sguardo sfuggente, sembra contare poco o nulla, preso in un gioco molto più grande di lui. Tarda a eseguire la sua missione di morte, difficile dire se per neghittosità o per eccesso di cautela: sta di fatto che la distanza tra vittima e assassino si fa sempre più difficile da colmare, finché i ruoli tra inseguitore e inseguito alla fine si ribaltano e allo sfortunato protagonista non resterà nemmeno il tempo di prendere atto del proprio fallimento.

Il senso di sconfitta assume dimensioni esistenziali, come nei coevi film di Frankenheimer: le forze del male che regolano la società impediscono ai più di trovarvi un posto al suo interno, e parte della riuscita del film di Baron sta nell'incapacità del protagonista di rendersi conto del propria irrilevanza, di dare retta a quei segnali di pericolo che la voce narrante (a volte fin troppo pedante e didascalica) segnala ripetutamente, ma solo ad uso dello spettatore. "A posteriori, credo di aver proiettato nel film la mia solitudine di allora" ha raccontato il regista a Giulia D'Agnolo Vallan nell'intervista rilasciata per il volume Innamorati e lecca lecca (Lindau). Una solitudine scandita dai ritmi sincopati del jazz che accompagnano il peregrinare di Bono per le vie della città, e dalle incomprensioni con Lori (Molly McCarthy), moglie dell'unico amico del protagonista e della quale è, neanche troppo segretamente, innamorato. Tutto è goffo, prevedibile, nella vita di Frankie, ogni atto un ulteriore passo verso lo sprofondo di quell'acqua melmosa in cui annegherà alla fine.

Baron gira sorprendentemente bene, per essere a corto di esperienza: conosce la forza delle inquadrature e sa dosare i momenti di tensione all'interno di una partitura tutto sommato pacata (lo scontro con l'enorme barbuto Big Ralph [Larry Tucker, caratterista memorabilmente immortalato l'anno seguente nel ruolo di Pagliacci in Il corridoio della paura di Fuller]). La povertà dei mezzi a disposizione è evidente: il regista cominciò il film con appena tremila dollari in tasca e lo finì dopo averne raggranellato qua è la altri quarantasettemila. Ci sono stacchi bruschi che denotano un linguaggio cinematografico poco raffinato, a volte sgrammaticato, come in certi controcampi incomprensibilmente assenti (si veda la scena sul vaporetto, all'inizio); ma il tutto contribuisce a donare al film quel senso di instabile provvisorietà che lo approssima al realismo di stampo documentaristico dei film di Engel e Cassavetes, tanto che si vorrebbe zittire quella voce over incalzante, troppo evidentemente al servizio di una narrazione impossibile da rendere per immagini.

Peccato, perché sullo sfondo dovrebbe esserci solo il rumore di fondo delle strade trafficate, dei clacson e delle sirene, degli spari improvvisi, nell'attonito silenzio che circonda la vita di Frankie. In maniera straniante, la dimensione più propriamente investigativa perde d'interesse, si fa lacero vestigio di una formula narrativa e cinematografica ormai vetusta, in procinto di mutare pelle. A vendicare la disfatta di Frankie Bono arriveranno altri, fantasmi di Alcatraz immersi nel technicolor, inseguitori instancabili le cui movenze si scompongono nello split-screen e in un montaggio frammentato ed ellittico, killer integerrimi dal viso di pietra, disposti a tutto pur di lasciare i traditori senza un attimo di tregua.

Baron cederà i diritti del film alla 20th Century Fox per una cifra irrisoria, guadagnandoci poco e niente, e dopo un paio di lungometraggi caduti (questi sì) nel dimenticatoio, approderà alla serialità televisiva che praticherà fino alla metà degli anni '80, per poi dedicarsi alla sua prima passione, la pittura, che tuttora coltiva con passione. 

CRONACA DI UN ASSASSINIO (Blast of Silence), regia di Allen Baron, USA 1961, 77' (Golem Video)