Come l'immediatamente successivo Pasolini, anche Welcome to New York si apre con un'intervista (rafforzata qui dal fermo immagine finale con sguardo in camera), propedeutica per fornire quelle linee-guida che sostituiscano un Virgilio nella discesa agli inferi susseguente. Ma se in Pasolini è il personaggio a esprimere il suo punto di vista e la sua Weltanschaung, in Welcome to New York è l'attore, Gérard Depardieu, a voler ribadire il suo distacco dalla materia, con l'ovvia e didascalica affermazione che non è necessario recitare qualcosa che si è vissuto o si condivide, anzi che è più semplice interpretare qualcuno che si odia o si disprezza, come in questo caso. Forse un vezzo nouvelle vague, con l'intenzione di mescolare i piani narrativi alla maniera di Olivier Assayas o del Centre Stage di Stanley Kwan, che resta però caso isolato; dopo l'incipit non ci saranno altre note a piè di pagina, in Welcome to New York.

Ferrara getta subito in medias res e apre le porte del suo regno, gongolante come un adolescente perché la Storia gli ha dato ragione: dal bunga bunga a Dominique Strauss-Khan, infatti, il mondo è pieno di Cattivi Tenenti, che approfittano del proprio badge o tesserino o curriculum vitae per fare di libito licito, per godere fino in fondo del proprio senso di onnipotenza. E così il caso che ha scosso l'opinione pubblica francese e che ha inflitto un colpo forse mortale alla credibilità residua del PSF diviene un'altra Go Go Tale, una outtake di uno dei film più sottovalutati e incompresi della storia recente. Perché nessuno come Abel Ferrara sa raccontare le contraddizioni e gli ups and downs di un'anima tormentata, il peccato e la redenzione, l'edonismo e la condanna degli eccessi. Nessuno come lui sa mettere in scena l'ebbrezza del potere e l'illusione, la sua fugace sensazione di smarrimento dei sensi e annebbiamento della ragione, che ne determina insieme apice orgasmico e fine repentina. Welcome to New York in fondo è la controparte simil-documentaristica e scarnificata di Blackout.

È il mondo ad essere arrivato a Ferrara, trascinando con sé il cinema, che ha smesso ormai definitivamente i panni illusori e consolatori della classicità, per indossare quelli disturbanti e inquietanti della contemporaneità. Se solo qualche decennio fa erano pochi – Ferrara, Brisseau, Cronenberg, Ferreri – a scrutare negli anfratti più bui della psiche umana e a filmare il non filmabile dell'istinto, delle pulsioni inconfessabili, oggi su grande schermo è un fiorire di fellatio, orge, S&M ed escort compiacenti, in un arco onnicomprensivo che abbraccia Ozon e Scorsese. Oggi Eyes Wide Shut e il suo punto di vista risulterebbero drammaticamente arcaici, superati dall'entropica e lussuriosa sete di potere del decadente capitalismo avanzato.

Ma per rivendicare quella paternità Abel non ha bisogno di premere nuovamente il piede sull'acceleratore. Al contrario, pur non ritraendosi di fronte alla messa in scena delle “gesta” di Devereaux/Strauss-Khan, preferisce distaccarsi dalla materia dopo un terzo di film: non per dare spazio a un giudizio morale, ma a un differente approccio alla rappresentazione. In linea con la direzione verso cui sta andando il cinema rilevante nel suo complesso, Ferrara racconta di una caduta negli abissi con un'astrazione asettica che gli è inusuale. Ieri Blackout si serviva di ogni possibile artificio per sovraccaricare e drogare la soggettiva e rendere lo spaesamento autoindotto dei sensi di fronte all'onnipotenza: montaggi stranianti e, flashback continui per poi dipanare à rebours qualcosa di rimosso dal protagonista (ma non dal regista). Oggi Welcome to New York non deve aggiungere nulla a livello stilistico: l'exploitation (perché di tale si tratta, ancor più per il confezionamento e il marketing dell'operazione che per lo specifico filmico) sceglie il linguaggio del documentario e lavora di sottrazione. Il cinema non accompagna più, ma svolge il ruolo del Bianconiglio, invitando chi è pronto e ricettivo a seguirlo e svelarne il senso. E quel che Ferrara non racconta a parole lo esprime attraverso l'uso della luce, in una dicotomia ancora una volta esemplare. È Simone stessa (l'equivalente cinematografico di Anne Sinclair, moglie di DSK, interpretata da Jacqueline Bisset) a sottolineare come sia buio lo stupendo appartamento da 60000 dollari al mese affittato per ospitare Devereaux durante i suoi arresti domiciliari, oscuro come la perenne penombra della camera d'albergo in cui Devereaux ha compiuto i suoi misfatti. Mentre è bianca e accecante la luce al neon del carcere che accoglie il politico, insieme alle parole schiette degli uomini del NYPD, intenti a illustrare con chiarezza il senso di quanto anticipato dal sergente Hartman (“Qui vige l'eguaglianza, non conta un cazzo nessuno”).

Una breve parentesi di illuminazione indesiderata e indesiderabile sulla opulenta nudità di un potere che sbuffa e grugnisce, sul suo lato più sgradevole e animalesco, destinata a rientrare nella ciclicità di un percorso che non prevede la via dell'espiazione. Dove il Cattivo Tenente si autodistruggeva, e con lui il Matty di Blackout, infatti, oggi Devereaux si monda autonomamente dai propri peccati, rifugiandosi nella giustificazione della malattia. Perché attorno a lui vige un sistema concepito per soddisfare le sue peggiori voglie e alimentare il suo potere fallocratico, che genera i Devereaux prima ancora di assecondarli. A cui lo stesso orgoglio di Simone, Lady Macbeth della bourgeoisie, deve piegarsi, preferendo servirsi del fuco peccaminoso e della sua faiblesse per ambire allo scranno più alto. Un confronto memorabile di masculin e féminin – ribadito da un'inattesa citazione di Domicile Conjugal – che basterebbe da solo a giustificare gli straordinari numeri (100.000 visualizzazioni VOD in otto giorni) raggiunti da Welcome to New York.

WELCOME TO NEW YORK, regia di Abel Ferrara, Francia/USA 2014, 124'.