1. Fino al 1970, Robert Altman è un regista dal lungo curriculum televisivo con qualche sporadica, ma poco fortunata, incursione sul grande schermo: «Quando ho girato M.A.S.H.», racconterà, «avevo quarantaquattro anni e non mi facevo illusioni sull'industria del cinema»[1].  E invece questa commedia bellica che nessuno voleva dirigere, realizzata a basso costo e quasi all'insaputa dei caporioni della Fox, si rivela in pochi mesi un provvidenziale trionfo (quaranta milioni di dollari d'incasso, un Oscar e una Palma d'oro a Cannes), e spalanca definitivamente ad Altman le porte del cinema. Forte del proprio successo, può finalmente dedicarsi ai soggetti che lo interessano davvero. Tra questi, ce n'è uno, The Flying Machine of Brewster McCleod, che gli viene proposto dal produttore discografico Lou Adler per conto della MGM. L'autore è Doran William Cannon, che ha già sceneggiato (senza successo) Skidoo (1968), una commedia lisergica diretta dal veterano Otto Preminger, destinata a diventare di culto. Questo nuovo script, ambientato a New York, ha per protagonista uno strano serial killer che sproloquia di aerodinamica, intrattiene innumerevoli congressi carnali e, nel tentativo di sottrarsi alla cattura, spicca il volo dal terminal della Twa nell'aeroporto JFK.

Affascinato dalla mescolanza di elementi fantastici e realistici, Altman accetta. Tuttavia, come era successo con M.A.S.H. (e come diventerà consuetudine del suo “metodo”), riscrive tutto da cima a fondo insieme al fido Brian McKay, in barba alle proteste di Cannon: «[La sceneggiatura] era impossibile da girare», spiegherà il regista, «quello che ho comprato in realtà è l'idea del ragazzo che vola e quella degli omicidi». Il protagonista McCleod diventa quindi “McCloud”, e prende le fattezze del mite e occhialuto Bud Cort. L'ambientazione passa da New York all'americanissima Huston, Texas, definita da Altman «l'incarnazione del cattivo gusto». A stimolare la fantasia del regista è in particolare il  nuovissimo (all'epoca) Astrodome, un gigantesco palasport che diventa il luogo principale del film, il rifugio-laboratorio in cui Brewster, affiancato dalla misteriosa Louise (Sally Kellerman, già “Bollore” in M.A.S.H.), lavora alla realizzazione del volo umano. Mentre lui persegue con rigore la strada dell'elevazione spirituale (solo cibi macrobiotici, niente sesso, molta ginnastica), la città viene sconvolta da una serie di strani delitti, nei quali le vittime vengono trovate soffocate e ricoperte di cacca d'uccello. È l'inizio di una sconclusionata detection che coinvolgerà anche un detective tanto vanesio quanto inefficace (Michael Murphy, fedelissimo di Altman, che sbeffeggia lo Steve McQueen di Bullitt con tanto di lenti a contatto azzurre); ma sarà una soffiata di Suzanne (un'esordiente Shelley Duvall), la giovane di cui Brewster si è innamorato, a mettere la polizia sulle sue tracce e a decretarne la tragica fine.

Grazie al budget più consistente, Altman gira in formato panoramico e in un rutilante metrocolor (in realtà, secondo il regista, «non si possono attenuare i colori di Houston, neanche volendo»), invade la città con la sua troupe, impronta la lavorazione ad una chiassosa convivialità (con molta marijuana), incoraggia gli attori a improvvisare sulla base del copione. Rassicurati da Adler, i capi della MGM chiudono un occhio: sono convinti di avere in mano un sicuro campione d'incassi – «un M.A.S.H. condito con escrementi di uccello», scherza Altman. Ma pubblico delle anteprime, lo stesso che aveva decretato il grande successo del film precedente, rimane freddo. La MGM tenta un lancio in grande stile per il Natale 1970, invano: Brewster McCloud (questo il titolo del film, diventato in Italia un più banale ma allitterativo Anche gli uccelli uccidono) incassa comunque ben al di sotto delle aspettative. La critica americana si divide: chi si dice irritato (Pauline Kael, che pure era stata una delle maggiori sostenitrici di M.A.S.H.), chi invece approva calorosamente (Andrew Sarris); ancora più imprevedibile l'accoglienza italiana, con Franco La Polla che lo bolla senza mezzi termini come reazionario, e Goffredo Fofi che al contrario ne esalta la mescolanza di «liberazione e repressione in un paradossale, confuso contrasto».

2. Non è difficile capire il motivo di una simile polarizzazione di giudizi per un film che il regista definirà «tra i più creativi e originali che abbia mai fatto»[2]. Con Brewster McCloud Altman ha infatti cominciato a smantellare (e continuerà a farlo nelle opere successive) la figura dell'eroe, anche nella versione antieroica, neohollywodiana del loser[3]: «Ho negato al pubblico ogni possibile identificazione con l'eroe. Non dico niente su di lui, non si capisce chi sia. Per me, faceva quasi parte dello sfondo»[4]. Brewster non possiede certo l'appeal di un Clyde Barrow, ma neppure di un Benjamin Braddock; né tantomeno possiede la loro carica di giovanile, ribelle vitalismo – per quanto ammantata, nel caso del primo, da una evidente pulsione di morte. Egli ci sembra anzi lontanissimo, un «Icaro-Faust»[5] con la testa letteralmente fra le nuvole; e se comprendiamo ben presto il suo collegamento con gli omicidi (che avvengono sempre fuori campo), «ci pare di capire che a salvarlo in extremis siano gli uccelli e la loro ambasciatrice Louise»[6]. Anche la sua morte si distacca risolutamente dallo stereotipo dell'antieroe braccato e assassinato dal Sistema – cioè dal Potere, cioè dal Capitale: Brewster non cade sotto il fuoco della polizia[7], ma sotto il peso del proprio utopismo ingenuo e individualistico, irrimediabilmente destinato alla sconfitta. La sua morte, come quella di McCabe/Beatty ne I compari o di Bowie/Carradine in Gang, è semplicemente «la morte di un uomo, non di un mito»[8].

Un essere umano, per quanto eccentrico, calato in un mondo di caricature, di personaggi-simbolo dei (dis)valori americani che paiono usciti da un romanzo di Kurt Vonnegut o da una tavola di Walt Kelly: il capitalismo (il vecchissimo e avarissimo Abraham Wright/ un irriconoscibile Stacy Keach), il nazionalismo (la megera Daphne Heap/Margaret Hamilton, tolta di peso da Il mago di Oz), la violenza poliziesca (l'agente della narcotici Douglas Breen/Bert Remsen) la politica spettacolo (il miliardario con ambizioni politiche Haskell Weeks/William Windom). Ma la mordace satira altmaniana non risparmia neppure la controcultura, evidente nel personaggio di Suzanne, ninfetta dalle ciglia dipinte che, incapace di comprendere il sogno di Brewster se non in termini di mero guadagno, finisce per tradirlo quando lui le “confessa” i propri delitti e le propone di volare via insieme. Se già in M.A.S.H. Altman aveva dichiarato di voler “aggredire” e “disorientare” il proprio pubblico, «il vero “cattivo” del film»[9], qui ne mette addirittura in luce l'indole intimamente corrotta sotto la vernice contestataria. E questo al pubblico non andò giù: «Quelli della MGM erano tetri perché non rideva nessuno. “Cristo”, dicevo io, “se avessero riso vorrebbe dire che avremmo fatto un film opposto a quello che volevamo fare!”»[10]

Accanto alla decostruzione dell'(anti)eroe, Altman avvia anche la riscrittura dei generi hollywoodiani, radicalizzando una pratica ampiamente diffusa fra gli auteurs della Nuova Hollywood (Bogdanovich in testa). In Brewster, il genere non è più un sistema di regole da sabotare o reinventare, come è accaduto in M.A.S.H. (il war movie) e come accadrà ne I compari (il western): qui abbiamo a che fare con le schegge impazzite di un immaginario ormai esploso; giustamente La Polla arriva a parlare di “entropia”: «[i film di Altman] non sono costruiti come storie strutturate sul modello causa/effetto, ma come organizzazioni di energia la cui forma viene per così dire lasciata libera di espandersi»[11].

Alla linearità drammaturgica della tradizione hollywoodiana, Altman preferisce la circolarità: «Si disegna un cerchio, che funziona da limite. All'interno ci si può muovere come si vuole, si può anche girarci intorno»[12]. “All'interno” è un continuo overlapping di parole e immagini: frammenti di trasmissioni radiofoniche, canzonette, allusioni al tema del volo e agli uccelli (la targa “B.R.D. S.H.T.” sull'auto di Louise e l'ospizio “Feathered Nest”, solo per citarne un paio), parodie di altri film, autocitazioni (il poster di M.A.S.H. appeso in casa di Suzanne), satira politica (le frecciate contro il ticket Nixon-Agnew, la dissacrazione dell'inno nazionale, sostituito dall'antisegregazionista Lift Every Voice and Sing). “Intorno” è un dilagare di cornici e  narratori, che spesso scaturiscono da intuizioni estemporanee o da incidenti nella lavorazione. È lo stesso Altman, per esempio, a  chiamare René Auberjonois quando le riprese già iniziate: «Mi serviva una sorta di punteggiatura nel film, e mi venne l'idea di un tipo che tiene una conferenza sugli uccelli per poi trasformarsi lui stesso in uccello»[13]; allo stesso modo, la sequenza iniziale, con l'attacco “fuori tempo” dei titoli di testa (“Let's start again in the right key!”), era nata da un errore dell'operatore[14]. Inutile precisare come questa continua proliferazione di “paratesti” non valga a semplificare né a chiarire gli snodi principali della trama, ma sia semmai il “pretesto” per ulteriori digressioni: come ha scritto Guido Fink, «ci troviamo di fronte a un eccesso di significati, a una somma di infiniti sensi nessuno dei quali si elide»[15].

Non si sa insomma dove guardare (né dove ascoltare) in questo «brulichio dei volti […] delle voci e dei rumori»[16]. Quale potrà essere il “peso”, nell'economia del racconto, della vita famigliare dell'agente Johnson (John Schuck), che da tempo ha promesso ai nipotini di portarli al cinema, ed è costretto ogni volta a rimandare? E perché indugiare sulle imprecazioni, peraltro sacrosante, di Longwood, l'autista nero del ricchissimo Weeks? E che dire infine della delicata, surreale storia d'amore fra il timido tenente Hines (Corey Fisher) e la vedova Breen (Angelin Johnson)? Non ci è dato sapere. Altman si limita a porli per un attimo alla nostra attenzione, «come se passassimo per una strada e cogliessimo al volo fisionomie e battute che non avranno alcun seguito»[17]. Forse per suggerire che «il nocciolo della situazione, della persona, del racconto»[18] sfugge sempre alla macchina da presa, e va piuttosto cercato ai margini della vicenda, dell'inquadratura.

3. Manca ancora una cornice, l'ultima. È la passerella finale sulla pista dell'Astrodome, The Greatest Show on the Earth, il primo di molti “circhi” altmaniani[19]. Attorno al cadavere ancora caldo del protagonista, gli interpreti principali si presentano uno alla volta fra gli applausi del pubblico. Per un attimo, ci aspettiamo che anche Brewster si rialzi vivo e vegeto, per ricevere, al pari dei colleghi, la giusta parte di acclamazioni. Niente da fare. Se il film si avvolge su se stesso, finendo nello stesso modo (lo svelamento della finzione) e nello stesso luogo (l'Astrodome) in cui era cominciato, «il corpo senza vita di Brewster che resta a terra ricorda che qualcosa è avvenuto: la narrazione ha modificato il “mondo”»[20]. Un innocente è stato eliminato, come capiterà (ma stavolta senza più un vero movente), cinque anni dopo e in un'altra cornice spettacolare, alla Barbara Jean (Ronee Blakeley) di Nashville. Il pubblico ha divorato un'altra vittima… But it don't worry me.

 

ANCHE GLI UCCELLI UCCIDONO (Brewster McCloud), regia di Robert Altman, USA, 1970, 105' (Sinister Film)



[1] Tutte le informazioni e le citazioni di questo paragrafo relative al film, alla sua lavorazione e alla sua accoglienza, sono tratte da: Guido Fink, I film di Robert Altman, Gremese, Roma 1982, pp. 54-59; David Thompson (a cura di), Altman racconta Altman, Kowalski, Milano 2007, pp. 65-69; Robert Benayoun, Il caos fertile (1972), in: Emanuela Martini (a cura di), Robert Altman, Torino Film Festival-Il Castoro, Milano 2011, pp. 83-99; Il “cattivo” del film. Intervista con Michel Ciment e Bertrand Tavernier (1973), in Id., pp. 100-26.

[2] Altman in Thompson, op. cit., p. 69

[3] Sulla persistenza del mito del loser nella narrativa americana, si legga Franco La Polla, Il nuovo cinema americano 1967-1975, Lindau, Torino 19963, pp. 43-46.

[4] Altman in Ciment, Tavernier, cit.,  p.114.

[5] Lino Micciché, L'incubo americano. Il cinema di Robert Altman, p. 34.

[6] Benayoun, cit., p. 90.

[7] «Ma la memoria gioca brutti scherzi: avrei giurato, prima di rivederlo, che il giovane McCloud venisse abbattuto dalla polizia, nella logica che va da Easy Rider, a Punto zero, a Sugarland Express»: Emanuela Martini, Il lungo addio. L'America di Robert Altman, Lindau, Torino 2000, p. 85. Si veda anche Flavio De Bernardinis, Robert Altman, La Nuova Italia, Firenze 1990, p. 30.

[8] Martini, Op. cit., p.49.

[9] Altman in Ciment, Tavernier, cit., p. 107.

[10] Altman in Fink, Op. cit., p.56.

[11] Franco La Polla, Entropia e apocalisse, in: Roberto Salvatori (a cura di), Robert Altman. Un acrobata nel circo americano, Loggia de' Lanzi, Firenze 1997, p. 86.

[12] Altman in Ciment, Tavernier, cit., p. 110.

[13] Alman in Thompson, Op. cit., p. 67. Purtroppo nel dvd italiano è misteriosamente scomparso il leone ruggente della MGM, sul quale Auberjonois pronunciava la prima battuta del film ("I forgot the opening line…"), vanificando la gag "anti-hollywoodiana" di Altman.

[14] Altman in Ciment, Tavernier, cit., p. 116.

[15] Fink, Op.cit., p.14.

[16] Martini, Op. cit., p.51.

[17] Ibidem.

[18] Gavriel Moses, Alt(ro)man: pre-testi e altri testi, in Salvatori, Op.cit., p.68.

[19] Cfr. Martini, Op.cit., pp. 71-86.

[20] De Bernardinis, Op.cit., p. 29.