«We are concerned with Man – recita un passaggio del manifesto del New American Cinema (il celebre “First Statement” apparso sulla connivente Film Culture nell'estate del 1961) –. We are concerned with what is happening to Man. We are not an aesthetic school that constricts the film-maker within a set of dead principles. We feel we cannot trust any classical principles either in art or life [1]». I principi, classici o morti che siano, non si addicono a Shirley Clarke, l'unica donna della lista dei ventisei firmatari e autrice di cortometraggi sperimentali e di una mezza dozzina di (semi-, para-, pseudo-) documentari dalla fattura ruvida, irregolare, spesso sgradevole – tanto, forse, da essere vittima di un silenzio critico e storiografico non del tutto meritato. Se durante tutti gli anni Sessanta Clarke ha goduto di una notevole “popolarità” nell'ambiente, suffragata da un attivismo senza posa per la causa, a partire dai decenni successivi la sua stella si appanna: l'edizione così tardiva dei suoi film in DVD  ne è una prova eloquente (più eloquente ancora l'attuale indisponibilità di due film essenziali come The Cool World e Robert Frost: A Lover's Quarrel with the World, Oscar al miglior documentario nel 1963).

Alla sua uscita, invece, il lungometraggio d'esordio di Clarke, The Connection (1961), era stato al centro di feroci polemiche, un paio delle quali non del tutto dimenticate: il sequestro da parte della commissione di censura dello Stato di New York e la lettera aperta di Jonas Mekas ai critici newyorchesi rei di avere stroncato il film. Mentre il primo resta un caso importante soltanto per i precedenti che stabilisce, il secondo è una perla dell'epica furia del lituano e merita una lunga citazione: « Tutto ciò che scrivete è frutto della vostra vanità e della vostra ignoranza. La bellezza e l'umanità dei film che massacrate dovrebbero commuovervi, distruggere la vostra vanità, dischiudervi alla vita. Invece voi afferrate le vostre accette, vi infilate i grembiuli da macellai e vi mettete al vostro lavoro schifoso e sanguinario. Ora, ragionate solo un attimo: sapete veramente di cosa parlate, conoscete veramente il significato di parole come “squallido”, “offensivo”, “bislacco”, “grossolano”, “morboso”, “volgare”, “scadente”, “sordido”, “sgradevole”? Vi ho visti, seduti nelle salette in occasione delle anteprime, ho visto le vostre facce e spesso mi sono chiesto: sono queste le persone che dicono all'America cosa deve e cosa non deve vedere? Sono queste le persone che pronunciano la sentenza in materia di bellezza e di verità?» [2]. Che i toni si accendano fino a questo punto è quasi scontato per un film interamente ambientato in una camera popolata da una umanità squallida, disperata, abbruttita, in attesa dell'arrivo dello spacciatore di “shit”, il termine ossessivamente ripetuto con cui è indicata l'eroina. Il miglior film dell'anno (Mekas dixit) è prevedibilmente spernacchiato da una critica non così impettita e bigotta come i detrattori vogliono far credere, ma fuor di dubbio insensibile alla ruvidità di Clarke. A livello formale, anzi, non è affatto meglio: le ostentazioni del cinéma vérité (macchina a mano, suono in presa diretta, figurazione piatta, montaggio denotativo) sono portate allo stremo dall'apparente assenza della benché minima forma di messa in scena, enfatizzata pure dal ricorso all'improvvisazione, all'interpellazione e a tutta una serie di errori (di ottica, di montaggio, di regia) che scavalcano, in un sistema di leggi più inflessibile di quello morale, i limiti della (corretta) rappresentazione.

Ad accentuare il gioco, e a distinguere The Connection dall'omonimo testo teatrale di Jack Gelber che due anni prima aveva infiammato le scene off-Broadway, è la forma di kammerspiele metacinematografico costruito attorno alla presenza, spesso in campo, del regista Jim Dunn – il quale, da buon alter ego di Clarke, sentenzia «I know something about Eisenstein and clarity», poi ammette «I'm just trying to make an honest, human document» – e dell'operatore J.J. Burden, che, racconta il cartello d'apertura, è responsabile del montaggio definitivo a seguito della sparizione del regista. In questa direzione, in effetti, è difficile non sottolineare la sclerotizzazione di un progetto estremamente vitale, che coinvolge anche musicisti del calibro di Jackie McLean, Freddie Read e Larry Ritchie, imputabile ai limiti dell'adattamento dal testo di partenza, le cui tracce si disseminano, quasi a punire le esplosioni di libertà creativa che qua e là scintillano, in una sceneggiatura inutilmente densa, più ricca di riferimenti alla cultura alta (Beckett, le avanguardie storiche, O'Neill, il già nominato Ejzenštejn) che delle tranche de vie che Clarke promette. L'ibridismo di cinema diretto e teatro filmato risulta abbastanza equilibrato da non restituire il senso dell'artificio nella misura in cui si impone un registro documentario nei confronti di una sostanza artificiale. Resta il fatto che da dietro lo scudo del falso documentario interrogarsi sui limiti della rappresentazione, ovvero sull'etica del documentario stesso, e domandarsi come, perché e, soprattutto, quanto a lungo si debba rivolgere lo sguardo (a quella umanità, ovvero a degli attori teatrali) non ha nulla di audace. Evidentemente il nocciolo della questione è altrove.

Diverso il caso dell'altro celebre film di Clarke, Portrait of Jason (1967), un ritratto lungo cento minuti senza pudore e senza pietà di un gigolò gay nero, Jason Holliday. Le soluzioni formali radicalizzano quelle adottate in The Connection: la camera si adegua alla gestualità nevrotica di Jason, ogni suo aneddoto, corrispondente sempre ad una inquadratura, è punteggiato da un flou e una coda nera, la messa in quadro sembra essere l'unica preoccupazione della regista, la troupe continua ad essere presente – esclusivamente sul piano sonoro – tramite il gioco, non molto frequente, di domande e accuse rivolte all'unico personaggio in campo. Come è solito in questo genere di documentario, la riuscita del film dipende quasi esclusivamente dalle doti di affabulatore del protagonista e dalla portata emotiva delle sue vicende, entrambe di altissimo livello. Nonostante Jason si sprechi in numeri esilaranti che non possono non renderlo sinceramente simpatico agli occhi dello spettatore, il nucleo drammatico della sua storia – che in pratica intreccia tutti i tabù dell'America benpensante degli anni Sessanta, dalla prostituzione all'omosessualità, dall'attivismo underground alla questione razziale – ha una forza tale da reggere il film.

La relativa fortuna critica di Portrait of Jason, e la successiva canonizzazione nell'ambito della storia del cinema LGBT, dipende in larga parte dal sottile gioco en travesti cui Clarke costringe il proprio protagonista: non soltanto in senso letterale, tramite il carosello di imitazioni e parodie in cui Jason si impegna (tra le “vittime” Mae West, Barbra Streisand, Katherine Hepburn e Carmen Jones), ma pure in una duplice accezione, personale e militante, che rifrange un discorso sulla politica dell'identità. A livello personale, il film tutto funziona come un progressivo tragico smascheramento del protagonista – dall'incipit in cui Jason si presenta con la propria identità anagrafica, quella di Aaron Payne, passando per la creazione del personaggio di Jason Holliday («San Francisco is really the place to be created», dice) e poi per la devastante esibizione delle cicatrici (gli abusi, l'internamento, l'emarginazione, il carcere) di una vita tutt'altro che carnevalesca, fino alle accuse finali da parte di Carl Lee, ex partner di Jason per molti anni e testimone dell'intervista, che fanno esplodere l'uomo in lacrime. A livello militante, il film intercetta certi malumori pre-Stonewall ma evita di fare di Jason una specie di emblema della “condizione omosessuale” e anzi  ne privilegia la dimensione singolare, personale, umana. D'altronde, il 1967 è anche l'anno dello speciale “The Homosexuals” di CBS Reports, uno dei più agghiaccianti prodotti audiovisivi sul tema, e del pagliaccesco The Queen di Frank Simon, che almeno ha una bislaccheria di fondo che lo redime – ed è solo dal 1971, sull'onda delle manifestazioni e degli esordi del movimento LGBT, che comincia a circolare una discreta quantità di documentari, per lo più assorti nelle vicende del movimento medesimo (e poi, certo, c'è l'immenso Rosa Von Praunheim che già ne celebra le esequie con Nicht der Homosexuelle ist pervers, sondern die Situation, in der er lebt, [“Perverso non è l'omosessuale, ma la società in cui vive”]). Altrettanto vale, seppure con una leggera sfasatura cronologica, per la questione razziale, che pure può essere considerata, con qualche compromesso, l'asse portante della filmografia della newyorchese di origini polacche Shirley Clarke. La regista stessa ha affermato, a conferma dell'esercizio en travesti della propria militanza: «I identified with black people because I couldn't deal with the woman question and I transposed it. I could understand very easily the black problems, and I somehow equated them to how I felt».

Portrait of Jason e The Connection, come più in generale il cinema di Clarke tutto, dimostrano la porosità dei confini tra documentario e fiction, una questione che disturba i puristi del cinéma vérité, e di conseguenza affrontano con determinazione il dilemma della “verità filmica”, declinato in una misura non necessariamente rosselliniana: alle domande del primo film – cosa, come e quanto a lungo si deve guardare? –, i successivi affiancano dubbi, costruiscono paradossi, espongono trucchi, smontano e rimontano la retorica del documentario. Come i propri personaggi, il cinema di Clarke non assume alcuna identità stabile, ma continua ad esibirsi in un continuo travestimento che, ancora oggi (in attesa di colmare le lacune), ne rende incerti i confini. Un continuo travestimento, naturalmente, antispettacolare.

COFFRET SHIRLEY CLARKE (Potemkine)

The Connection, USA, 1961, 103'

Portrait of Jason, USA, 1966, 105'

NOTE

[1] “The First Statement of the New American Cinema Group”, Film Culture, nn. 22-23, Summer 1961, ora in Film Culture. An Anthology, Secker & Warburg, New York 1971, pp. 79-83

[2] Jonas Mekas, “Lettera aperta ai critici newyorchesi”, in Adriano Aprà (a cura di), New American Cinema. Il cinema indipendente degli anni Sessanta, Ubulibri, Milano 1986, p. 26 (or. Village Voice, 11 ottobre 1962).

[3] DeeDee Halleck, “Shirley Clarke Interview”, http://davidsonsfiles.org/shirleyclarkeinterview.html