Fondata nel 1824, la National Gallery di Londra, in Trafalgar Square, è uno dei più importanti poli museali al mondo. Oltre duemilatrecento dipinti in esposizione permanente, circa seicento dipendenti, un numero di visitatori che nel 2013 ha toccato la cifra record di sei milioni: sono molte le identità che contraddistinguono questo crocevia di cultura e socialità, sacrario della memoria artistica e brulicante attrazione per turisti, dove orgoglio istituzionale, bilanci finanziari e compromessi con l’attualità procedono di pari passo tra le incertezze del futuro. Da sempre coerente all’adagio wendersiano che tra due immagini rivendica l’esistenza di un luogo, Frederick Wiseman sceglie nuovamente un luogo per dispiegare una relazione di immagini, e trova nella National Gallery un microcosmo di presenze, flussi, domande suggerite e risposte non urlate, dove l’omaggio alla grande Storia dell’Arte immediatamente si trasfigura in una riflessione aperta sul presente dello sguardo.

L’ipotesi di visione che National Gallery incarna sembra infatti sottendere la più classica delle dialettiche cinematografiche, quella tra campo e controcampo. La discrezione con cui Wiseman e il suo usuale collaboratore John Davey approcciano il lavoro non impedisce allo spettatore di individuare, fin dai primi minuti del film, un intenso dialogo tra le opere esposte nelle sale della Gallery e gli sguardi dei suoi avventori in continuo avvicendamento. Catturati e restituiti in momenti di attonita contemplazione (un uso semplice e puntuale dell’ottica lunga), gli umani in visita sono spesso isolati dalla massa museale, immersi piuttosto nell’esperienza personale dell’arte. Sospesi davanti a loro, i ritratti del Cinque e Seicento diventano warburghianamente mezzi busti cinematografici, fantasmi affacciati sull’oggi per osservarlo e interpellarlo. Nell’ironia ben riconoscibile che questo intuitivo accostamento produce sembra rinvenire la lezione godardiana di Notre Musique, quella che a partire da un campo/controcampo di Hawks smascherava lo svilimento del reale che il montaggio può compiere. Negli stacchi posturalmente asimmetrici tra presente e passato, tra spettatore e opera d’arte, il campo/controcampo di National Gallery non è mai mera opposizione storica, ma piuttosto l’occasione per rendere visibile (e possibile) una relazione.  

Non si tratta soltanto di coltivare la cultura e la conoscenza, come precisa una guida al museo in uno dei tanti – bellissimi – discorsi aperti al pubblico che punteggiano il documentario: la relazione con l’arte si compie specialmente nella rielaborazione, personale e creativa, che lo spettatore può attuare di ciò che vede. Liberando questo dialogo da qualsivoglia patina accademica, risvegliando le narrazioni e l’immaginazione che molti approcci enciclopedici hanno offuscato. Ce lo suggeriscono almeno altre due scene del film, a loro modo struggenti: il gruppo di non vedenti che viene educato a leggere un quadro attraverso il tatto, e il liberatorio corso di disegno dal vero in cui nessuno – nessuno – riproduce la nudità dei modelli con gli stessi tratti. Sono proprio le opere d’arte, con le loro piccole o grandi eredità – aneddoti, fantasie, misteri, lacune – ad affidarci il compito di un costante e fertile aggiornamento intellettuale ed emotivo, fedele a ciò che è stato il passato e senza vincoli per ciò che il futuro ancora nasconde. Proprio come nella lezione del restauro contemporaneo, altra splendida pagina wisemaniana: tanto impegnato e attivo nel risolvere gli enigmi del tempo, quanto indiscutibilmente reversibile e consapevole, in un certo senso, della propria fallibilità. Della nostra mortalità.

Anche per questo National Gallery non è un generico riconoscimento alla conservazione dei beni culturali, ma come spesso accade con Wiseman eleva a uno status di intrinseca dignità tutto il quotidiano lavorio umano che compone il quadro di un mondo, per poterne illuminare le trame, per mantenere vivo il suo significato. Procede così, nell’arco dilatato di tre ore, un film senza veri tracciati narrativi, scevro di impianti, fondato piuttosto sull’accostamento di situazioni che testimonino l’istante e il suo repentino passaggio. Come per i versi e le parole di una poesia, il senso profondo rimane tra gli interstizi, al di fuori di strutture e linguaggi: nel taglio di montaggio che unisce il particolare di un dipinto agli occhi di un uomo.

 

NATIONAL GALLERY, regia di Frederick Wiseman, Francia/USA/Gran Bretagna, 2014, 180'