“This movie isn’t about diversity, but exclusiveness: the male and female actors are exclusively colored”.

Céline Sciamma

Pur non essendo una traduzione fedele all’originale Bande de filles, Girlhood, titolo scelto per l’uscita anglosassone dell’ultimo film di Céline Sciamma, definisce con precisione – oltre a strizzare l’occhio al pubblico di Richard Linklater – l’arco di trasformazione esplorato dal cinema della regista francese. Con il suo debutto del 2007, Naissance des pieuvres, Sciamma aveva messo in scena l’emergere del desiderio all’interno di un trio di quindicenni; il successivo Tomboy (2010), opera più compiuta, raccontava invece di una preadolescente alla scoperta dei codici di genere. Diamante nero – questo, l’inspiegabile titolo italiano – prosegue l’osservazione della fase di sviluppo dei corpi femminili e delle loro identità in evoluzione, anche se in un contesto sociale distante da quello dei film precedenti, incentrati sulla classe media francese. In questo caso veniamo infatti immersi nel pieno della banlieue parigina, con la sua working class in larga parte composta da immigrati di seconda e terza generazione.

Ancora una volta la regista offre un’apertura di tipo spettacolare alla narrazione, in netto contrasto con i toni sussurrati che caratterizzano le altre parti del film. Se in Naissance des pieuvres a costituire l’incipit era lo sfarzo di un numero di nuoto sincronizzato, in maniera quasi speculare in Diamante nero è la lotta che si svolge su un campo di football americano, sul quale una squadra multietnica si sfida in slow-motion, con caschi scintillanti e paradenti, come nelle migliori epopee sportive di Hollywood. Queste ragazze, che in campo sembrano farsi beffa dei limiti attribuiti al loro genere sessuale, vengono ricondotte alla realtà del loro status già al rientro a casa, quando nel percorso attraverso i palazzi scrostati del quartiere ricevono insistenti provocazioni e apprezzamenti da parte dei coetanei maschi. L’allegro chiacchiericcio che accompagna il post-partita viene così annichilito dal rispetto di un ordine non scritto ma già ben assimilato. Bagnolet e Bobigny sono parti di un universo governato da una legge maschile e brutale, un perimetro di cemento armato da cui è possibile evadere solo nelle provvisorie scorribande a bordo di un RER o in un centro commerciale. Per la protagonista del racconto, Marieme, questa forma di sorveglianza prosegue anche all’interno delle mura domestiche, con le minacce del fratello maggiore. Tutta la pellicola ruota intorno alla rabbia e al desiderio femminili, con le ragazze protagoniste che cercano di resistere a quello che è considerato l’ordine delle cose: i soldi rubati alle compagne di scuola servono a fuggire in una camera d’albergo, per mangiare caramelle, indossare abiti rubati e fingere di essere qualcun altro.

Eppure, nonostante siano sottoposte costantemente al giudizio della comunità, riescono a costruire uno sguardo autonomo sul mondo, appropriandosi dei codici di comportamento appresi nella banlieue e mescolandoli ai sogni, all’immaginario, alle pulsioni che caratterizzano le adolescenti di oggi. La parte centrale del coming-of-age tripartito di Sciamma mette in scena questa femminilizzazione del maschile, attraverso una serie di combattimenti di strada che hanno le ragazze per protagoniste. Nei momenti in cui la violenza è più accesa, i partecipanti si dispongono in cerchio attorno alle contendenti, facendo il tifo per l’una o per l’altra, chiedendo sangue, esultando o disperandosi di fronte all’umiliazione della sconfitta. Quando la stessa Marieme estrae improvvisamente un coltello nel corso di uno scontro, non lo fa per danneggiare la sua avversaria, ma per tagliare il reggiseno della ragazza e mostrarlo in seguito come un trofeo di guerra. Sciamma decide di concludere questo capitolo del film tornando al primo dei combattimenti rappresentati, quello in cui la leader del gruppo, Lady, aveva subito un’avvilente sconfitta. La reiterazione dell’episodio si basa però su immagini di natura differente rispetto alle precedenti, in quanto riprese con un cellulare da uno degli astanti. Attraverso questa diversione visiva, Sciamma trascende il contesto della banlieue e costruisce uno sguardo generazionale, pulsante di emozione per la violenza filtrata dal dispositivo, e incapace di sottrarsi allo spettacolo.

Come nei suoi film precedenti, la regista ricorre a un continuo riorientamento drammaturgico, per cui l’adesione a un personaggio non è mai esclusiva, così come non abbiamo mai la certezza di conoscere un soggetto, nonostante suono e immagine vengano modulati sulla base dei suoi stessi umori. Piuttosto, in Diamante nero la macchina da presa si trova in diversi momenti a scivolare sui corpi in slanci lirici al limite della pura astrazione, senza che il verismo della rappresentazione perda mordente. Il risultato è un’opera in cui la vocazione neorealista di portare sul grande schermo un contesto marginalizzato dal cinema di finzione si equilibra alla perfezione con l’apertura al sogno e all’immaginazione dei personaggi. Per questo, forse, i momenti in cui un simile cortocircuito sembra dare gli esiti più sorprendenti sono quelli in cui i corpi reagiscono alla musica: la processione dei volti delle ragazze sullo sfondo della Défense, che diventano così una pura forma, è paradigmatica in questo senso, rivelando l’universalità di una storia periferica. La musica pop è essa stessa mezzo di evasione dalla dimensione micro della banlieue e segno di appartenenza a un mondo più esteso e ricco di possibilità, come racconta la scena in cui la bande de filles danza e canta in lip sync Diamonds di Rihanna. Avvolte in una luce blu, inebriate dal senso di completezza di quell’istante, le ragazze divengono – per citare la cantante – “a vision of ecstasy”. Il Cinemascope consente di non escludere nessun personaggio dall’inquadratura, preservando il senso di unione e figurando il momento di grazia in cui il presente diviene l’unica dimensione temporale possibile. Solo quando si affaccerà la prospettiva del futuro Marieme dovrà provare a reinventarsi, indossando nuove maschere e travestimenti.

Il corpo diviene infatti nel corso della narrazione il veicolo privilegiato della metamorfosi della protagonista, soprattutto nell’ultimo capitolo del film. Marieme finisce per lasciare la sua gang e unirsi a un boss della droga, e il cambiamento coincide con una trasformazione estetica profonda, che la vede tomboy con i seni fasciati nel privato, e creatura erotizzata – in abito rosso e parrucca bionda – quando deve fare le proprie consegne. Forse una reincarnazione di troppo, quest’ultima, che confligge con la spontaneità e la mancanza di artifici dell’approccio della regista. Ogni dubbio si dissolve, tuttavia, di fronte al minimalismo del finale: portare a compimento la propria crescita significa uscire dalla sfera d’influenza dell’altro, dalla sottomissione al suo sguardo. Letteralmente: abbandonare il quadro.