A occupare strategicamente il centro dell'ultimo film di Greenaway, Eisenstein in Guanajuato, atto d'amore cinefilo e spiazzante divertissement dalla rigida architettura interna, c’è un esuberante e divertito amplesso omosessuale a cui tutto sembra tendere e da cui tutto sembra uscire definitivamente trasformato. È un inno alla verità dei sensi, alla liberazione del corpo, alla gioia che ne scaturisce, prospettive che Peter Greenaway alimenta per sintetizzare il provocatorio ritratto di Sergei Eisenstein, mito cinematografico di primissima data, mentore del potere inarrestabile delle immagini, della loro autonomia dalla letteratura e dall'industria: di quegli argomenti, insomma, che tanto hanno caratterizzato, almeno nei frequenti proclami a margine dei film, il lavoro dello stesso regista britannico.

Nel 1931, all'apice della sua carriera, Eisenstein aveva trentatré anni e almeno tre capolavori alle spalle – Sciopero, La Corazzata Potëmkin e Ottobre – destinati ad abitare le future storie del cinema: lontano dall'Unione Sovietica da circa due anni, i suoi viaggi lo avevano condotto dall'Europa Occidentale agli Stati Uniti, gli avevano permesso di incrociare le maggiori personalità culturali dell'epoca – Joyce, Brecht, Stroheim, von Sternberg, Chaplin, Disney, Buñuel e Greta Garbo – fino alla tappa messicana di Guanajuato dove, nell'arco di dieci giorni, tra campanili strade mercati e caffè, il regista e teorico della settima arte si perdeva nelle riprese dell’incompiuto ¡Que viva México! e, soprattutto, salutava la propria verginità grazie all’istantanea passione per Palomino Cañedo, insegnante di religioni comparate e guida locale di Eisenstein.

Sospeso tra verità documentata e rielaborazione finzionale, il resoconto di questi dieci “paradisiaci” giorni si muove tra il gusto per i dettagli di una biografia – gli abiti di Eisenstein, i libri e i disegni erotici che amava portare con sé, gli incontri con Cañedo, Upton Sinclair, Frida Khalo e Diego Rivera, le sue stesse parole tratte da lettere o dichiarazioni – e a un tempo il desiderio che Greenaway ha di farli propri, collocarli nel tessuto del proprio discorso antirealistico, dove la relazione di Eisenstein con un corpo adolescenziale e clownesco diventa il tracciato primario lungo cui dispiegare la sua trasformazione di personaggio.

L’immersione nella cultura messicana, nel suo rapporto con la religione, il folclore e lo stile di vita alla giornata, conduce Eisenstein a sperimentare il contatto diretto con il sesso e con la morte, quel legame tra Eros e Thanatos attraverso cui esce rinnovato: cieco e sordo come il campanaro di Guanajuato, il regista sovietico si apre a quella parte celata di sé attivata la quale la realtà, e forse lo stesso suo cinema, si permeano di una mortalità consapevole e vertiginosa (molte sono le immagini che rimandano alla sensazione di vertigine), ben lontana dalle fumose dottrine del materialismo dialettico dimenticato in patria.

Gli spunti narrativi non mancano, e in alcuni casi sembrano concedere allo spettatore meno affezionato le premesse per un parziale avvicinamento, complice una buona prova di attori che attesta, a tratti, un’inedita empatia ai processi interiori dei personaggi. L’organizzazione formale, tuttavia, non esime la struttura del film da un dichiarato schematismo – inizio e fine tendono a ribadirsi, indebolendo senza ragioni un bell’arco narrativo  –  e da un’ossessione per la simmetria di pesi e misure che irrigidisce e raffredda. Come per tutti i film di Greenaway, anche Eisenstein in Guanajuato è un campo di battaglia visivo, fatto di repertorio, insistiti split screen, elaborazioni stereoscopiche e giochi di prospettiva che tendono a superare il dato narrativo e restituire con la forma l’identità (vera o trasfigurata?) di Eisenstein. Difficile impresa non sempre premiata, colpevoli l’ormai consolidato narcisismo di Greenaway, la sua resistenza a connettersi in pieno con quello che, volenti o nolenti, resta un racconto di formazione, da attraversare accanto a Eisenstein, non con la lente distanziante dell’artificio.

EISENSTEIN IN GUANAJUATO, regia di Peter Greenaway, Messico/Finlandia/Belgio/Francia/Paesi Bassi, 2015, 105'