Prima ancora che compaia un'immagine, basta il cartello di apertura a convincerci che il bersaglio frontale, il nemico anzi, di questo attesissimo The Assassin è il wuxia cinese “imperiale” dei vari Zhang Yimou, Chen Kaige, Feng Xiaogang e quant’altri. Il sottotesto politico è a dir poco plateale. Nella Weibo del nono secolo, provincia periferica a elevata autonomia rispetto all’impero, osservatrice assai interessata di quanto accade nelle regioni limitrofe (poiché un suo coinvolgimento potrebbe alterare i delicati equilibri che intrattiene con l’impero per restare indipendente), è impossibile non vedere la Taiwan di oggi, permanentemente a rischio di venire schiacciata dal colosso continentale.

Poi arrivano le immagini, e capiamo quanto genialmente Hou Hsiao-Hsien abbia deciso di prendere posizione in merito. Lo ha fatto, innanzitutto, dando luogo a un’eroina che è la materializzazione di una particolarissima resistenza passiva al potere. La sua Nie Yinniang è una killer alle dipendenze di una strana monaca che l’ha presa in cura allorché, adolescente, venne allontanata da corte. All’epoca, infatti, Yinniang era promessa sposa del cugino Tian, attuale regnante di quella provincia, ma sulla scia di un compromesso politico resosi necessario per tenersi buono l’impero, il voto dovette essere revocato, e lei mandata in esilio. Sì, ancora l’esilio: come assai spesso a partire (almeno) da A Time to Live, a Time to Die, Hou si conferma l’insuperabile cantore dell’ambigua relazione tra la propria nazione e la Cina continentale, oggetto di nostalgia verso un radicamento la cui possibilità stessa è nel frattempo venuta meno. E ambigua è anche la relazione di Yinniang con Tian. La monaca, a mo' di misura disciplinare in seguito al suo rifiuto di uccidere un notabile corrotto solo perché teneva un neonato in braccio, la manda a corte a uccidere proprio il cugino. Ma Yinniang temporeggia: fa capire a Tian che è lì ma non lo tocca, parte senza che nessuno glielo chieda (e il suo aiuto si rivelerà decisivo) a difendere un contingente incaricato di scortare un funzionario mandato in esilio, sventa un oscuro complotto di corte. Insomma: non si capisce mai bene cosa faccia né perché lo faccia. Sta di fatto che il suo sottrarsi, infine, paga: la monaca cambia idea riguardo all'opportunità di uccidere Tian. Si direbbe dunque che Yinniang abbia ottenuto quello che “vuole”, se solo quel vocabolo nel suo caso avesse il minimo senso: benché si intuisca che provi ancora qualcosa per l'ex promesso sposo, non trapela non solo alcuna emozione, ma neppure una qualsivoglia intenzione definita. È un'entità opaca che si definisce solo in negativo: Yinniang non è tanto colei che vuole salvare Tian, quanto colei che non lo vuole uccidere. Cosa lei provi per lui non è dato esattamente sapere. Non si tratta di indifferenza, però, e dunque non può farlo fuori solo perché la monaca gliel'ha ordinato.

La trama stessa, del resto, è un trionfo di zone opache e di snodi narrativi di cui lo spettatore viene lasciato bellamente all'oscuro. Al riguardo si può anche ricorrere al solito cliché del “la storia non conta, conta la bellezza delle scenografie, dei colori, delle luci, della coordinazione dei movimenti”. Che è anche vero (lo splendore visuale di questo film è strepitoso), ma non è il punto. Il punto, piuttosto, è che Hou si rifiuta di inanellare in una sequenza lineare i momenti che costituiscono il tempo. Gli interessa, piuttosto, cercare dentro allo scorrere del tempo la cerniera tra la stasi e il movimento, le increspature per cui il nulla si muta in qualcosa, senza per questo diventare niente di definito. Focalizzandosi su questo, su quell'angusta feritoia tra “0” e “1” che è il presente, tutto il resto (a cominciare da qualsivoglia verticalizzazione narrativa coerente) rimane fuori. Ecco il segreto dell'importanza del fuoricampo su cui tanti grammatici hanno (come al solito ingenuamente) sbattuto la testa: se nel cinema di Hou il fuoricampo ha un peso così abnorme, è perché dentro al campo c'è solo quella soglia minima di emersione del movimento. E fuori, evidentemente, rimane molto (compreso l'effettivo coagularsi del racconto). Tutto qui. Coerentemente, gli scontri violenti sono, come più in generale il movimento in questo film, una scintilla che emerge dal nulla e che al nulla ritorna quasi subito, con la cinepresa che sfoglia, senza accelerare, una manciata di inquadrature, nessuna delle quali finisce per occupare un punto di vista privilegiato rispetto all'azione, né in senso spaziale né in senso temporale. La loro estrema permeabilità rispetto al fuoricampo deriva dal fatto che il découpage che le cuce insieme dà mostra, più che di seguire l'azione, di intercettarla da una traiettoria mobile che è propria e solo propria, né vicina né lontana rispetto all'azione, ma che semplicemente si trova a incrociare l'azione in punti che non potranno che essere contingenti. È la medesima logica che presiede ai lenti movimenti di macchina che, nelle scene “nomali”, si insinuano nello spazio dell'azione senza veramente seguirla: l'occhio è solo una cosa che si muove insieme ad altre cose che si muovono.

“Momento di rottura”, del resto, è proprio il nome del doppio gioiello che avrebbe dovuto sigillare in eterno l'unione tra Tian e Yinniang. Ma per i due un nome del genere può avere solo un significato assai divergente. Tian è ancora impregnato della logica “maschile” dell'azione, quella per cui con la rottura ci si porta avanti nel proprio cammino. Parlare, parla poco, ma è tutto uno “squassar [shake] lance [spears]”, come amava dire Carmelo Bene per designare la vanità di ogni agire verso un obbiettivo innanzi, immortalata per l'eternità dalle tragedie di Shakespeare. E infatti alla fine si ritrova con gli stessi grattacapi dell'inizio senza che sia cambiato nulla. Yinniang, invece, vede la discontinuità solo come un'eccezione fugace di una regola che è il nulla. Se di anarchia si può parlare, a proposito del suo personaggio, lo è nella misura in cui il momento di emersione della discontinuità nel suo agire è imprevedibile. Hou, di conseguenza, mette insieme il proprio film in modo che sulla superficie sembri regnare la continuità, quando invece in realtà la discontinuità è dappertutto. Davanti all'occhio della cinepresa, pettinarsi, preparare un bagno caldo o compiere un'azione violenta di importanza decisiva hanno lo stesso valore e la regia gli riconosce lo stesso peso, perché tutto è discontinuità; e tutto è discontinuità perché è “irredimibile” movimento, un movimento che è irredimibile nella misura in cui la traiettoria dell'occhio e quella dell'azione possono solo incrociarsi ma mai infilarsi l'una nell'altra.

Ciò che ne risulta è una zona intermedia che non si lascia assolutamente ridurre alla dicotomia “azione vs. contemplazione” cui siamo abituati (soprattutto in Occidente). L'azione c'è, ma è inestricabilmente impastata con il puro lussureggiare dei colori, con il gratuito ondulare di un velo trasparente tra la cinepresa e i personaggi, con il gioco tra fuoco e fuori-fuoco, con la nebbia che all'improvviso separa la montagna in primo piano dal massiccio che troneggia sullo sfondo, con l'incedere a tentoni in una galleria a lume di torcia, scoprendo pian piano la luce del giorno in lontananza. Il film si disinteressa totalmente del racconto e privilegia le rime interne (lo specchio della leggenda proferita all'inizio che ritorna un'ora dopo nella scena in cui un personaggio lo pulisce a lungo), ma Yinniang fa uguale, allorché si prende la briga di far sfiorare la morte a Tian solo per potergli dire in faccia “guarda che la tua concubina è incinta”, ricollegandosi a quel neonato che, nella prima scena, l'aveva mossa a pietà e spinta a risparmiare il notabile corrotto. Perché ha fatto questo? A tale domanda non è possibile rispondere secondo una logica narrativa. Yinniang non ne ricava nessun vantaggio diretto. Ma secondo una logica differente sì: a Yinniang, in quel frangente, interessa far riaffiorare in superficie un bambino che, dopo la sua nascita, verrà presumibilmente tenuto lontano dalla corte come toccò in sorte a lei. Lo fa per far riverberare la separazione a cui sa essere di irreversibilmente condannata. È un puro atto di vuota presenza, proprio allo stesso modo in cui la macchina da presa di Hou si fa sentire continuamente, ma attraverso una presenza totalmente vuota, esclusivamente cinetica, come a mimare il lento scorrere del tempo e nient'altro. Tian concepisce l'azione attraverso il maschile principio di esclusione: la economizza, si concentra su quello che serve per ottenere un risultato e scarta tutto il resto. Yinniang fa riaffiorare questo resto che si vorrebbe escludere: e il film è con lei, fa riaffiorare la gran massa di momenti “morti” che in teoria giacciono al di fuori dell'azione, disposti orizzontalmente sullo stesso piano di quest'ultima perché qualsiasi cosa si muove, in quanto mobile, detiene il medesimo status.

Hou insomma capisce che per tenere a distanza l'impero bisogna tenere a distanza l'ottuso affidarsi all'azione, lo “squassar lance”, il mostrare i muscoli digitali dei vari blockbuster “imperiali”. Per chi voglia l'autonomia, il potere è una trappola: abbracciandolo, si viene trascinati nello stesso terreno dell'avversario, e non si può che soccombere. Bisogna invece, pare dirci Hou costruendo il suo The Assassin su misura dell'opaca, quasi inesistente ma sempre determinante eroina, saper integrare il potere restituendogli il proprio connaturato supporto di impotere