Raya Martin è un regista giovane. Siccome la gioventù è quasi sempre una questione di prospettive, vale forse la pena precisare che nella fattispecie ci si riferisce al fatto che Martin, classe 1984, appartenga per ragioni anagrafiche a una generazione esclusa dall'ultimo sommovimento della storia nazionale filippina. La rivoluzione largamente pacifica che nel 1986 portò alla rimozione dal potere di Ferdinand Marcos e all'insediamento di Corazón Aquino detta Cory, variamente nota come Rivoluzione del Rosario, o EDSA, o del Potere Popolare, colse Martin all'età di due anni. Quali che fossero le preoccupazioni del regista all'epoca, si può supporre che egli sia rimasto più o meno incolpevolmente ignaro degli eventi e della loro portata simbolica e collettiva. L'evidenza meramente anagrafica di questo dettaglio pone Martin in una situazione simile a quella di certi cineasti europei in perenne affanno di fronte alla Storia, intesa qui come racconto di fatti o sistema di valori rispetto ai quali il cineasta si percepisce tradito o scettico o escluso o una qualsiasi combinazione dei tre.

Scrivevo qualche anno fa, proprio su Filmidee, che l'avanguardia cinematografica contemporanea (nelle sue forme più o meno autenticamente tali, e quindi diciamo a) impegnate in un qualche rinnovamento dell'immagine cinematografica e b) aliene da manierismi festivalieri) si esprime in due correnti, o tendenze, o costellazioni stilistiche la cui natura descrivevo in termini di rarefazione o condensazione dell'immagine. Ammesso che quel suggerimento sia ancora valido, Martin finirebbe a pieno titolo nel campo della condensazione. Il suo cinema – e Independencia ne è un caso lampante – procede per slittamenti allegorici e stratificazioni di senso e oscilla tra ingenuità e furbizia, in una maniera stilisticamente precisa e definita eppure del tutto inafferrabile in termini di formula chiusa o marca autoriale.

Dico "furbizia" nella maniera in cui si dice, per esempio, che il cinema di Wes Anderson o Steven Soderbergh o dei fratelli Coen è un cinema "furbo": quel tipo di furbizia semioticamente necessaria al riavvolgimento di un linguaggio (e di una cultura) sopravvissuto a stento alle orge di ironia otto-novantesche, e costretto ora ad affrontare ad armi impari la sfida del rappresentare il mondo, l'uomo, la Storia, etc. in maniera moderna ma onesta e diretta, e insomma vera. 

Gli slittamenti e le stratificazioni che organizzano il film si possono leggere in modi diversi, ma credo sia utile partire proprio dalla tensione tra furbizia e ingenuità. Prima, però, i lineamenti della trama. Independencia racconta la storia di una madre e di un figlio che all'arrivo degli statunitensi invasori si ritirano nella foresta, per iniziare una vita in isolamento e a contatto con la natura. I due trovano riparo in una catapecchia abbandonata dagli spagnoli: la rimettono in sesto, lei coltiva la terra, lui va a caccia. Ma intorno a loro succedono cose. Nei boschi scoprono una ragazza (la Straniera) rimasta incinta a seguito di violenza da parte dell'invasore. Nel figlio sboccia l'amore. Passano gli anni, la madre muore, i due giovani, ora una coppia, si prendono cura insieme del bambino meticcio nato dalla violenza. Ma l'idillio è di breve durata: gli americani arrivano alla foresta; una tempesta causa la morte dei due giovani adulti, lasciando il bambino da solo a fronteggiare il pericolo. 

Independencia esce nel 2009 con i fondi del World Cinema Fund, un programma di sviluppo finanziario per progetti cinematografici non-europei del festival di Berlino, e che all'origine del progetto ci sia l'idea etnografica e francamente colonialista di world cinema mi sembra, in sé, un fatto di qualche conto. Tanto più perché Independencia è il secondo capitolo di una trilogia (il primo, Short Film About The Indio Nacional, è del 2005; del terzo non si ancora nulla) sulla storia filippina, vale a dire la storia delle diverse colonizzazioni, spagnola, americana e giapponese, che hanno scandito l'evoluzione dell'arcipelago dal diciassettesimo secolo in avanti (Indio Nacional copriva la fine dell'occupazione spagnola, intorno al 1895, mentre l'arco narrativo di Independencia va dal primo arrivo degli statunitensi, dopo il trattato di Parigi del 1899, fino a un punto imprecisato degli anni Venti). La scelta di imbastire una progressione cronologica di questo tipo mi sembra importante: testimonia di una certa ambizione storiografica del cinema di Martin.

Parentesi. Tra il 2004 e il 2009 Martin progetta due trilogie e realizza otto film, quasi due all'anno, e di fronte a questa massa di immagini viene quasi da chiedersi se non sia in atto nella sua opera una specie di germinazione e proliferazione continua, nel senso di un universo che si espande e si struttura o organizza in quanto universo, inanellando intrecciando e diramando forme e linee quasi fosse una mappa di sé stesso.   

Tornando al film. Direi che l'intersezione di uno sguardo globale europeo (i produttori berlinesi) con una operazione di storiografia indigena costituisca un esempio di quella tensione tra furbizia e naiveté di cui sopra. Come dire che il nostro uomo gioca su due fronti: da un lato egli è il prodotto di un discorso mondialista (il world cinema, appunto) sulla cui retorica ambigua pesa l'ombra egemonica del colonialismo, e dall'altro si presenta come voce finalmente autonoma e autoctona di una comunità nazionale storicamente subalterna. 

Ma c'è di più. Martin ha scelto di girare sia Indio Nacional sia Independencia replicando stilemi e convenzioni cinematografiche in voga negli anni in cui i film sono ambientati. Il primo segue perciò i dettami del cinema delle origini (camera fissa, pellicola in bianco e nero, intertitoli, sguardo etnografico) e il secondo riappropria i modi dello studio system hollywoodiano (fondali dipinti, trucco e recitazione caricati, enfasi melodrammatica e stereotipi razziali). In entrambi i film, poi, Martin giustappone un segmento principale a un segmento minore, distinto in termini di stile e materiali: in Indio Nacional il segmento minore è un prologo, filmato in digitale e a colori; in Independencia è un finto cinegiornale americano, nel quale si apprende dell'uccisione di un ragazzino locale da parte di due soldati statunitensi.   

La presenza di questi doppi segmenti in ciascun film si collega alla polarità di cui dicevo poco prima: l'idea che questo cinema giochi su due fronti, che si mantenga su una linea sottile tra furbizia e ingenuità, appropriazione e sovversione, integrazione e resistenza, eccetera. La questione potrebbe porsi anche così: in che misura Martin è complice del sistema-mondo che lo produce in quanto subalterno, e in che misura è invece voce autentica di una cultura e una comunità finalmente libere di esprimersi? Il fatto – come fa notare Alexis Tioseco in un intervento su Cinemascope – è che non c'è risposta, o quanto meno la risposta, nei termini in cui Martin evidentemente percepisce il problema, può esistere solo fintanto che resta incerta, sospesa tra due estremi come i suoi film.

Se fosse nato dieci anni prima Martin avrebbe toccato con mano la Storia, il suo farsi, e forse le cose gli si presenterebbero in modo diverso. Così come stanno, invece, si trova a dover affrontare una storia già scritta e a usare un linguaggio mediato interamente da altri, in cui l'influenza culturale americana ha infiltrato codici e valori e pratiche, al punto da rendere velleitaria qualsiasi fantasia di rifondazione autoctona dell'immagine e cioè da ultimo qualsiasi ovvia riscrittura del passato. Il meglio che si può fare, allora, è giocare a mettere in relazione corpi disparati, riassemblare una costellazione nota in forme diverse, e soprattutto tenersi sempre un passo indietro (o in avanti?) rispetto a ogni precostituito orizzonte d'attesa. Quando si fa un patto col diavolo conviene sempre saperne una più di lui.

In questo senso la riappropriazione di linguaggi e stili codificati serve in Independencia come gesto tattico, per spezzare la catena egemonica che lega un certo racconto (colonialista e subalterno) della Storia a un certo modo di raccontare per immagini (hollywoodiano). Una volta che la catena è spezzata, quello che resta è un archivio aperto, un catalogo di forme stratificate del visibile tutte egualmente accessibili, all'interno del quale la libertà (espressiva e morale) del cineasta si misura nella capacità di tracciare connessioni diverse (la mappa, appunto). Perché se il passato del cinema è un campionario di immagini pronto al riuso, allora anche il passato della nazione può emergere, almeno in potenza, in forme nuove. Ecco quindi Independencia, la controstoria di una famiglia e due generazioni che si rifugiano nella foresta per cercare un'esistenza non urbana, non colonizzata, non subordinata: una controstoria all'ottativo, raccontata con gli artifici e i modi del linguaggio hollywoodiano classico.

La fantasia storica e il recupero stilistico coesistono e si sorreggono, ma fino a un certo punto. Perché abbracciare fino in fondo quell'ottativo (cercare, insomma, di rappresentare pienamente e direttamente un'identità altra ma con le immagini del discorso egemone) finirebbe col fagocitare lo sguardo di Martin, riassorbirlo nelle forme di una credenza ingenua che il nostro uomo non si può né vuole permettere. Occorre quindi interrompere l'illusione filologica, strizzare l'occhio: come quando, nel film, un personaggio guarda in macchina e interpella direttamente lo spettatore. Come dire che il recupero è, non può che essere, mediato, distanziato, brechtiano, si potrebbe dire, forzando i termini. Martin si ferma (deve fermarsi) a un passo dalla immedesimazione stilistica e culturale: sul confine insomma tra sovversione e impotenza.

Christian Tablazon nota che lo schema narrativo del film può essere visto come una sorta di felice riappropriazione e riscrittura del passato (e quindi del cinema del passato). Il tono documentario e quasi antiretorico delle sequenze di vita quotidiana nella foresta smonta (scrive Tablazon) la tradizione celebrativa ed eroica del racconto storiografico hollywoodiano, ma allo stesso tempo la sua dichiarata artificialità evita di attivare il retaggio ideologico dell'etnografia colonialista e imperiale da Museo dell'Uomo. Tutto giusto. Però io non sono del tutto d'accordo. Mi chiedo, infatti, se non sia il caso di correggere appena il tono conclusivo dell'analisi, cioè insomma se sia davvero così felice il gesto cinematografico e storiografico di Martin. Del resto, lo stesso critico accenna nel suo saggio alla tessitura lacaniana della trama, la quale (credo) va in tutt'altra direzione. Vediamola.

La fuga nella foresta (riassumo in breve la proposta interpretativa di Tablazon) è un ritorno alle origini pre-edipiche e cioè pre-storiche del soggetto nazionale: intendendo cioè, secondo la teoria, un ritorno all'unità immaginaria tra il soggetto stesso e la Madre, che qui, più che dal personaggio della madre, è rappresentata dalla nazione-natura, nella sua completezza originaria di senso. Non a caso, nel quadrato di personaggi su cui si gioca la trama del film, il padre (e cioè, un po' brutalmente, la Storia, il potere simbolico del linguaggio, eccetera) è assente. E fin qui tutto sembra coincidere con l'idea di una riscrittura riuscita.

Mi sembra quindi difficile ignorare il fatto che, a partire dalle sue premesse iniziali, Independencia presenti una serie di slittamenti metonimici piuttosto chiari, in cui, nonostante la fuga, il desiderio dei protagonisti di ricostituirsi come soggetti extra-storici viene costantemente eluso, rimandato, traslato. L'ingresso in scena della Straniera, la ragazza incinta trovata nella foresta, è in questo senso di un simbolismo quasi brutale: è solo grazie alla violenza del padre (l'ignoto soldato americano) che il protagonista maschile è in grado di generare una nuova continuità simbolica. Tanto più che in diverse occasioni nel corso del film lo vediamo vagheggiare di un amuleto magico posseduto dal nonno e poi perduto: amuleto il cui ritrovamento dovrebbe segnare la sua legittimità di capofamiglia, e che, si noti, non avviene mai.

L'innesto costituito dal fanciullo meticcio apre la porta a un miraggio di reintegrazione simbolica, una fusione tra la natura-nazione e il discorso storico mediato dal padre. È il sogno di una riarticolazione originaria che sottende al cinema di Martin: il sogno, se si vuole, di una rivoluzione del visibile. Ma, qui come in Indio Nacional, il sogno evade la rappresentazione. La morte del protagonista e della Straniera marca la fine della catena metonimica e nega la possibilità di raffigurare la rivoluzione: a Independencia non resta che alludervi in metafora. Il fanciullo, in fuga dagli statunitensi, si getta da un rupe. A questo punto la pellicola si colora di rosso, simulando un effetto à la Brakhage che rivela l'artificiosità del fondale. Lo scarto stilistico in coda risolve (poeticamente) la tensione a un rinnovamento impossibile: è solo nel pastiche degli stili, nel libero fluire tra materiali ed epoche e formati che si può intuire la forma possibile di una nuova Storia e una nuova immagine. Intuire, ma non afferrare.