Il critico cinematografico. Egli prova, inutilmente, ad abbronzarsi sulla spiaggia del Carlton. Intorno a lui, bronzei atleti flirtano con nonchalance con donne incontestabilmente belle. Di quella bellezza da spiaggia di lusso che si incontra solo al cinema. Del resto, svariate di loro lo sono, star del cinema. Non sono le più belle; mischiate a loro, ragazze sconosciute e quasi nude, la cui funzione evidentemente è quella di essere belle come lo si è sul grande schermo. La densità di bellezza fisica è qui infinitamente più alta di quanto lo sia, in media, nei 500000 chilometri quadrati del territorio francese. È che la bellezza è un lusso, come le macchine americane e i palazzi che si possono vedere sulla Croisette. Come tale, essa si accompagna dappertutto ai soldi. Un posto come Cannes è fatto del suo clima, del suo paesaggio, dei suoi palazzi, del suo festival, delle sue macchine americane e di queste donne attraenti. Dunque il critico è sulla spiaggia in mezzo a questi uomini e a queste donne seminudi, eroi e dee, o Tarzan e pin-up, come preferite. Non gli è nemmeno stato vietato di intrufolarsi in spiaggia per via della sua pelle bianca. Si adopera a riprodurre la noncurante indifferenza degli uomini dal volto ambrato verso le loro compagne – cosa che, in realtà, gli riesce male. Mancanza di allenamento, non c'è dubbio. (Trattasi visibilmente di un gioco di società al quale loro sono avvezzi). Forse anche il complesso d'inferiorità del non essere Tarzan. La spiaggia è di tutti, certo, e anche il mare. Ma sarebbe vano negare l'evidenza: loro qui sono come a casa propria. Lui no. Il lusso è un universo, un paradiso terrestre e artificiale in cui si puó benissimo cercare di entrare con l'inganno (vale a dire senza pagare), perché lo scroccone, la sanzione del suo reato, la subisce automaticamente: sentendosi estraneo. La spada di fuoco volteggia intorno a lui. È condannato a vagare tra gli ammessi al paradiso come i defunti recalcitranti[i] nei film in cui non si fa più uso della sovrimpressione. I giochi sono fatti, e fatti bene. Egli è dannato. Peggio del supplizio di Tantalo, perché non puó nemmeno allungare la mano verso la vicina, o provare a mettere in moto la Buick carrozzata in bois des îles parcheggiata sulla Croisette. Questo gesto lo condannerebbe. Lo si tollera ignorandolo, a condizione che non si lasci andare a queste oscene incongruità. Per giocare con gli altri, per venire riconosciuto come vivo da questi morti, dovrebbe prima raggiungere, come hanno fatto questi ultimi, certe funzioni preliminari del lusso: per esempio essere produttore, star del cinema, miliardario, autore di successo o professore di ginnastica.

A questo punto delle sue riflessioni, il critico si accorse di essere piuttosto triste, e si stupí non solo di come la sua frequentazione del cinema non gli abbia mai fatto prendere confidenza con lo spettacolo del lusso, ma anche di come una medesima causa produca effetti rigorosamente contrari sullo schermo e nella realtà. Perché alla fin fine lo spettacolo della sua vicina, in spiaggia, lo aggradava eccome, e la censura dei film americani raramente permette di vedere altrettanto. Di cosa poteva lamentarsi? Era ancora più bello che in technicolor. Suvvia, tanto vale ammetterlo. Era triste perché tutto questo non gli apparteneva, e non gli sarebbe mai appartenuto. Perché non osava né saltare addosso alla sua vicina né rubare la Buick di bois des îles. Quel sentimento, riflettendoci, gli sembrava condannabile ma naturale, e si stupí ulteriormente che non fosse condiviso dalle centinaia di milioni di poveracci al quale il cinema dà in pasto ogni settimana proprio uno spettacolo del genere. I pedoni e i ciclisti, i grassi e i rachitici, le brutte e le vecchie e semplicemente l'immensa coorte di quelli che lavorano per vivere, tutti costoro e molti altri sganciano ogni settimana i loro cento franchi per contemplare le macchine e le cosce aerodinamiche di cui saranno privati in eterno.

Fu allora che il critico capí che il cinema era un sogno. Non, come a volte viene lasciato intendere, a causa della natura illusoria dell'immagine cinematografica, e neanche perché lo spettatore vi si trova come immerso in una rêverie passiva, e meno che mai perché autorizza tutto il fantastico dei sogni, ma assai più profondamente nel senso strettamente freudiano, perché non fa altro che “drammatizzare” la realizzazione di un desiderio.

Al cinema nessuna donna, per bella che sia, è proibita, perché siete voi Clark Gable, Humphrey Bogart o Spencer Tracy, perché si puó essere re del DDT o campione di nuoto finché si vuole. La realtà del lusso, per chi non vi partecipa, provoca naturalmente la consapevolezza dolorosa della proibizione. La sua drammatizzazione cinematografica equivale, al contrario, alla sua realizzazione e all'euforia del possesso.

Ma era l'ora della proiezione. Il critico, con la pelle ancora bianca, aveva appena il tempo di vestirsi per andare al cinema.

 

[André Bazin, “Cannes-Festival 47. Psychanalyse de la plage”, Esprit no. 139 (Novembre 1947), pp. 773-774]

Testo pubblicato con il consenso delle edizioni Cahiers du cinéma


[i] Riferimento a Le Défunt récalcitrant (Here Comes Mr. Jordan, 1941, uscito in Italia con il titolo L'inafferrabile signor Jordan), film che Bazin tratta nel saggio (precedente a questo articolo) “Vita e morte della sovrimpressione”, anche contenuto nell'antologia Che cosa è il cinema? [Nota del traduttore].