Visto che Doniol-Valcroze[1] mi soffia il film più interessante della settimana, e visto che non posso eludere con decenza anche stavolta i miei oneri informativi, non mi resta che parlare dei film meno mediocri tra quelli di queste ultime due settimane.

La settimana scorsa avrei dovuto, forse, mettervi a parte di un film tedesco senza grande smalto ma comunque interessante: Sündige Grenze, la cui principale originalità è quella di trattare un soggetto che per la Germania di oggi è di incandesente attualità sociale, politica e morale: il contrabbando alle frontiere. Portato avanti in gran parte da bambini, questo traffico si è fatto più intenso con l'inasprirsi delle barriere economiche e politiche in seguito alla guerra. Certo, il contrabbando non è un “peccato”[2]. È il frutto della stupidità degli uomini, il risultato di leggi assurde che non hanno presa sulla coscienza. Lo stesso diritto canonico se ne disinteressa. Esso però, come il mercato nero, crea parecchi mali, soprattutto quando utilizza giovani e bambini per limitare i rischi. È una sorta di reportage molto romanzato sulle condizioni del contrabbando sul confine franco-tedesco quello a cui si presta il regista Stemmle, al quale si deve pure, fra le altre cose, Berliner Ballade. La sceneggiatura, vagamente poliziesca, è costruita nel modo peggiore e più naif possibile, ma il suo valore documentario è commovente, e, a quanto pare, abbastanza preciso. Da un punto di vista più strettamente cinematografico, l'interpretazione e la mise en scène danno prova di un'audacia che non lascia indifferenti, ai limiti dell'erotismo. In quest'ambito, in genere il cinema tedesco scade in un gusto opinabile, che sfiora facilmente la pornografia.

Questa settimana si possono vedere due film polizieschi classificabili, a livello di sceneggiatura, nella categoria che un tempo si sarebbe chiamata “film di gangster”. Si tratta di La gang (The Racket) di John Cromwell, e di Neve rossa (On Dangerous Ground) diretto da Nicholas Ray, regista giovane e interessante. Tra queste due produzioni esiste una connesione evidente: i protagonisti non sono gangster, ma poliziotti. Se li si affianca all'ultimo film di William Wyler, Pietà per i giusti (Detective Story), presentato di recente a Cannes, essi indicano incontestabilmente un recente orientamento generale del film poliziesco americano. Certo, è già qualche anno che il film di gangster classico che discende da Le notti di Chicago e da Scarface, dopo la svolta misogina del genere noir criminale, si è dato all'apologia dell'infiltrato, del G-Man e dell'ispettore di polizia, il cui ruolo prima di allora era stato solamente negativo: la polizia era la necessità sociale, la fatalità che trionfava contro il moderno eroe tragico, eroe senza dubbio assurdo e condannato dalla sua mancata comprensione delle leggi ultime della città (Scarface non è intelligente), ma ciononostante ammantato di prestigio romantico. In questo trionfo della giustizia sarebbe stato vano cercare un'apologia morale o sociale dei suoi agenti. Allo stesso modo, i registi si preoccupavano piuttosto poco di renderceli simpatici. Essi non erano che la forza antagonista, e la loro necessaria vittoria sigillava la struttura tragica. Ai film del tipo Scarface fece seguito “il crimine non paga”, che provocò inevitabilmente la decadenza del genere, lo scadere della metafisica nella morale. La sconfitta finale del criminale non viene più dalla dismisura tragica, ma dalla semplice meccanica sociale: i vantaggi del crimine sono solo un'illusione poiché la polizia è sufficientemente ben costituita da poter avere l’ultima parola. Così però la questione si sposta su un piano diverso, perché Scarface non cercava tanto il profitto quanto la potenza, e la sua morte, al culmine della gloria, era più una via d'uscita che una sconfitta. O meglio, la sua vera sconfitta era tutta interiore: era quella dei suoi sentimenti per la sorella. Ombra lontana dell'incesto di Edipo.

Da “il crimine non paga”, Hollywood è passata alla glorificazione della polizia. Un'evoluzione prevedibile. Da quando la pietà tragica ha smesso di andare al protagonista criminale, non ci sono state più ragioni di privare il poliziotto della simpatia disponibile presso lo spettatore. Ma l'apologia della polizia non implicava ancora, fatalmente, la sua glorificazione. Il poliziotto era un cittadino utile, e i rischi del mestiere meritavano di essere conosciuti da coloro che lui proteggeva. Dal punto di vista estetico, tuttavia, il poliziotto non poteva essere il successore del gangster. L'eroe simmetrico rispetto a Scarface non è il G-Man, ma lo Sherlock Holmes, altrettanto estraneo del primo alla morale e al pragmatismo sociale. C'è un mito del gangster, c'è un mito del detective. Un mito del “buon poliziotto” non ci può essere, almeno dai tempi dei cavalieri del medioevo. La polizia non è di essenza divina, è solo il braccio secolare della società, o dello Stato.

È significativo che il genere poliziesco non esista nel cinema sovietico. Si è portati a credere che sarebbe imprudente trarne come conclusione l'inesistenza della polizia. Quest'ultima, però, ha tutte le ragioni, politiche come estetiche, di rimanere segreta, e con questo intendo dire totalmente estranea al mito poliziesco epifenomeno della società capitalista e urbana uscita dal diciannovesimo secolo. Ciononostante, un mito non arriva mai a dare completamente conto di una società, perché la oltrepassa, e perché in definitiva sfugge alla sua morale. Inquietata dal mito del gangster che lei stessa ha partorito, incapace (e non senza ragione) di sostituirgli un mito del G-Man, costretta tuttavia dalla logica interna del genere a produrre film polizieschi sempre più favorevoli alla polizia, le è stato senza dubbio necessario, partendo dalla morale sociale, sfociare infine nella psicologia individuale.

È ciò che dimostrano perfettamente i tre film citati più sopra, il cui titolo complessivo potrebbe ben essere “come si può essere poliziotto?”.

Essi si lasciano perfettamente classificare in ordine crescente di qualità.

Per prima cosa, nel punto più basso sta il film di Cromwell: La gang ci mette davanti il poliziotto perfetto, quello idealmente sognato dallo Stato americano, non solo incorruttibile e coraggioso, ma anche così intimamente posseduto dalla sua missione che non esita ad affrontare, rischiando la sua carriera e la sua vita, le forze occulte politiche, economiche e finanziarie che regnano sulla sua vita e sono pronte a comprare il suo silenzio. Non gli basta resistere alla tentazione, l'omissione non è il suo forte, e con i suoi modesti mezzi di commissario di quartiere si mette a fronteggiare l'idra politica, si ingegna perfino a tendergli trappole, oppure si offre lui stesso come esca, per costringere l'idra a venir meno alla propria prudenza, in modo che lui poi possa consegnarla alla “Commissione federale delle attività criminali”. A mio parere, a questo film ignobile si fa un grande onore se si evoca al suo riguardo la tradizione di autocritica sociale e politica del cinema americano. Da Mr. Smith va a Washington a Tutti gli uomini del re, Hollywood in effetti non ha mai avuto paura di mettere in scena le tare della democrazia americana, ma a questo grado di ingenuità, e soprattutto con un intento di propaganda così evidente, l'autocritica di Howard Hughes finisce dalle parti di un provocatorio farisaismo. Ma non è qui che volevamo andare a parare; torniamo al “poliziotto” buono. È sprovvisto di qualsiasi psicologia tanto quanto lo sguardo di Robert Mitchum lo è di espressività.

Non così Robert Ryan in Neve rossa. In esso, egli incarna un poliziotto nevrastenico la cui propensione a menare le mani sfiora il sadismo. I suoi stessi colleghi ne sono ripugnati. La chiave di questo comportamento anormale ci viene offerta molto presto. In questo ex atleta sportivo, il suo ruolo di poliziotto è in diretto rapporto con la sua solitudine sociale e morale. Soffre della sua qualifica di poliziotto come di un'infamia, e in ultima analisi prova disgusto per se stesso ancor più di quanto gli altri lo provino per lui; questi complessi, li compensa con una crudeltà superflua. Naturalmente, accanto a questo poliziotto malato, ci viene presentato il poliziotto sano che fa il suo lavoro senza odio e senza complessi, ritrova dopo il servizio la sua piccola famiglia borghese (e di solito numerosa) saggiamente allineata davanti alla televisione. Certo, il mestiere non è uno scherzo, ed è una ragione di più per pensare a qualcos'altro quando non si è in servizio. Robert Ryan affonda nella malinconia perché ha lasciato che la sua vita venisse invasa dal suo ruolo di poliziotto, perché ci si è identificato. Nel corso di un'inchiesta (la cui notevole mise en scène è del resto degna del regista de La donna del bandito), egli incontrerà una giovane cieca la cui solitudine morale, dovuta alla sua malattia, a lui sembrerà analoga alla propria. L'amore, naturalmente, li salverà entrambi.

Così, prendendo il poliziotto come protagonista, il cinema americano oggi viene condotto a porsi il problema della sua esistenza. Fino ad ora, la polizia era un fatto evidente che nessuno si sognava di mettere in questione. Ma man mano che si moltiplicavano le sceneggiature, che veniva reiterata l'apologia indiretta della polizia, andava anche elaborandosi una riflessione implicita al riguardo del poliziotto. L'evidente antipatia sociologica sopportata dallo “sbirro” poteva venire compensata da un'apologetica del genere solo provvisoriamente. Nella misura in cui Hollywood vuole perseguire efficacemente (perché l'America ne ha bisogno) la giustificazione della polizia, le è necessario abbandonare la posizione naif e semplicistica del poliziotto cavalleresco e ammettere che egli è anche e comunque un uomo, ciò che in fondo lo spettatore fa fatica a credere. Ammettere che il ruolo del poliziotto comporti un pericolo morale, che esso sia in effetti disumano e disumanizzante, vuol dire riconoscere le sue debolezze e allo stesso tempo giustificare due volte il poliziotto che sormonti queste insidie. Ma si vede anche bene come questo metodo comporti un'ambiguità che può essere pericolosa proprio per chi lo porta avanti. Pietà per i giusti mi limiterò a evocarlo brevemente, perché il film di Wyler non è ancora uscito. Vorrei soltanto sottolineare come esso si dia perfettamente come prolungamento del film di Nicholas Ray. In esso, Kirk Douglas incarna un ispettore dello stesso genere di quello di Robert Ryan, con una differenza, e cioè che egli ha tutto per essere felice: la non consapevolezza della sua malattia mentale, e una giovane moglie innamorata. Ma la sciagura è dietro l'angolo. Sarà sufficiente una sola, fatale giornata a rivelare agli altri e a se stesso il male di cui soffre, ed è volontariamente che, per farla finita, porgerà il fianco alle pallottole di un isterico gangster.

Paradossalmente, in questo modo il poliziotto si ricongiunge a Scarface, nello scacco personale e nel suicidio indiretto. Ma le intenzioni sono evidentemente diverse. Al poliziotto è preclusa la dignità tragica, perché è dalla parte degli dei della società. La sua morte non è che un sacrificio necessario al loro regno: un martire per permettere ad altri poliziotti di essere tali, forse con più modestia, ma con più consapevolezza.

 

[André Bazin, “Peut-on être policier?”, France Observateur no. 111, 26 giugno 1952, pp. 22-23]

Testo pubblicato con il consenso delle edizioni Cahiers du cinéma


[1] L'altro critico all'epoca in forze a France Observateur [Nota del traduttore].

[2] La traduzione alla lettera del titolo del film (conservata anche nel titolo della versione francese, Aux frontières du péché) è “confini peccaminosi”.