Viviamo tempi sclerotici, precari e destabilizzanti. In una società che reclama una presenza sempre più persistente, finiamo per non accorgerci che le nostre ombre si assottigliano, appiattendo l’immaginario a un reale impossibile da trasmettere. Qualcuno ha rubato i nostri spettri, nelle nostre discese quotidiane abbiamo perduto quell’ombra che ci precedeva, la sagoma di Nosferatu stagliata sulle pareti, capace di trasformare una parvenza in essenza.

Un trucco, una magia che sembra essere scomparsa dal cinema contemporaneo, perennemente alla ricerca di conferme tra i calmi scenari dei festival internazionali e dei mercati globali. Non si deve aver paura di un sistema di coproduzione (anzi di una costellazione di fondi) che permette al regista greco più in voga del momento, Yorgos Lanthimos, di girare un film sfruttando star internazionali come Colin Farrell e Rachel Weisz, perché ci sono progetti e sguardi che, partendo da una precisa presa di posizione politica-sociale basata su uno specifico territorio, sanno estendersi con egual efficacia per lanciare una profezia verso coloro che si sentono esenti dalla crisi, e invece ne sono portatori. Si soffre invece una certa pesantezza da parte del sistema italiano (ancora povero di coproduzioni) quando, per sostenere i suoi unici (?) due talenti nazionali, deve fare i conti con una fabbrica del cinema troppo grande per essere veramente accogliente. Se da una parte Sorrentino ormai confeziona ciò che da lui più ci si aspetta (situazioni bizzarre, immagini ammalianti, condite in filosofia spicciola), dall’altra Garrone sembra non riuscire a governare del tutto la sua macchina delle meraviglie, di cui cura il dettaglio senza riuscire a preservarne il cuore.

In mezzo a tutto questo, il festival di Cannes relega in un angolo i film che si sottraggono a tali logiche, e per questo vincono la scommessa riuscendo a mantenere allo stesso tempo una forte libertà espressiva e il controllo sull’opera. Lo dimostrano Desplechin, tornato a casa dopo la trasferta hollywoodiana di Jimmy P., capace di ripensare a se stesso e al proprio cinema inventando un prequel al film che lo rese celebre, o Hou Hsiao-hsien, che persevera in un’impresa impossibile e porta a termine un film maledetto, fermo per anni, le cui pause di lavorazione diventano la materia sensibile su cui lavorare per dar vita a una nuova percezione del cinema. Lo rivendica un regista come Roberto Minervini, che prosegue lungo una strada impervia e solitaria, straniero abile a scovare le contraddizioni della società americana, e che ottiene il sostegno di RAI cinema per un film difficile e estremo come Louisiana – The Other Side, non del tutto compreso nella sua capacità di rielaborare la lezione del grande cinema antropologico post anni settanta. I suoi uomini soldato sono fantasmi, ombre di una società in avaria che si racconta in uno stato di continua lotta, così come in eterno movimento sono i personaggi di Arabian Nights di Miguel Gomes, il film più sorprendente e fuori formato di questa stagione cinematografica. Quasi una magia che riassume in sé la forza di un grande narratore contemporaneo con uno stato d’urgenza espressiva di cui raramente si avverte la presenza al cinema.

E, all’improvviso, ci ritroviamo nel regno delle ombre, che non hanno più bisogno dei nostri corpi, che si liberano dalle parole, che reinventano un linguaggio, non avendo paura di guardare alla graphic novel, di mescolare spazio e tempo, di lasciare ampio spazio (sempre più ampio) a uno spettatore chiamato ad essere partecipe. Perché se il vampiro-Gomes ci succhia la nostra vita, imprigionandoci in sala per quasi sette ore, ci fa anche uscire trasformati. Pronti a esercitare un nuovo potere: trasportati ancora una volta nel mondo delle ombre, emergiamo con una rinnovata presenza nel reale.

Daniela Persico / Alessandro Stellino