1.

Non sono uno specialista di Visconti. Questo studio sarà breve, e di ambizioni circoscritte. Esso cercherà di porre in atto non un metodo critico distintamente fissato, ma quantomeno un tentativo di studio storico rapportato al discorso critico. Uno studio, volendolo classificare, filologico, micrologico, storiografico – ma di una filologia che rimanga immanente. Per dirla in modo più semplice, io intendo solo fare una lettura di un resoconto del film Senso ad opera di André Bazin, comparso nel settimanale di sinistra France-Observateur numero 300 del 9 febbraio 1956, all’epoca dell’uscita del film in Francia. Un'ultima avvertenza: la presente descrizione di un atto critico puntuale che puó avere valore solo in se stesso, non volendo essere uno studio di ricezione, non conterrà alcun giudizio su André Bazin, né su Visconti, né su Senso.

Quello che fornirò sarà solo il giudizio critico sul film e sul suo autore da parte di André Bazin, essendo uno dei contenuti del suo testo, anche se in fondo esso rimane ai margini della sua argomentazione. È un giudizio più che elogiativo. Eccolo, per la precisione, qui di seguito: “Senso è al contempo un'alta lezione morale, una magnifica storia d'amore e uno degli spettacoli più raffinati che il cinema ci abbia mai dato”. Ciò viene scritto due giorni prima che esca il settimanale France-Observateur, per informare i lettori del quotidiano Le Parisien libéré. Luchino Visconti “deve essere annoverato tra i tre più grandi registi d'Italia”, e “Senso è senza dubbio l'opera più eccelsa e più riuscita di Visconti”, viene poi precisato nei primi paragrafi dell'articolo di France Observateur, paragrafi soppressi da Jacques Rivette nel 1962, dopo la morte di Bazin, nel mettere a punto l'edizione del quarto ed ultimo tomo di Qu'est-ce que le cinéma?, nel quale l'articolo ricompare. Viene soppresso anche l'ultimo paragrafo dell'originale, che diceva: “D'altra parte, Senso è uno dei tre-quattro film più belli mai realizzati al mondo, e Alida Valli è sublime”.

Già questi complimenti particolarmente calorosi sono interessanti da un punto di vista storico. Certo, Bazin è un critico affettuoso e generoso, ma ditirambico non sempre lo è in questa maniera, forse lo è più facilmente quando è in gioco, e in pericolo, un corpo femminile, passibile di venire umiliato o oltraggiato, spogliato eroticamente ma senza tuttavia che alcuna parte indecente del suo corpo venga messa a nudo sullo schermo. In questo senso, Senso è ideale: una sorta di apice, privo di oscenità di superficie, della rappresentazione dell'umiliazione di una donna.

Ho detto che questo studio non sarà di ricezione: faccio subito una deroga per descrivere il ruolo che ha avuto il curatore nel modo in cui il testo è stato poi tramandato. Sopprimendo alcune frasi che esprimono il giudizio di gusto del critico, Jacques Rivette ha dunque scelto il Bazin atticista. Anche a me piace molto l'autore di formule quali “Wyler giansenista”, o “l'incessante povertà” del curato di campagna di Bresson, ma Bazin è anche, volendo entrare nella storia degli stili, un asiano, un barocco. È anche possibile, peraltro, mettere a confronto le scelte iconografiche – ricordandosi tuttavia che ci sono restrizioni a cui esse devono sottostare, e che forse di queste scelte “Bazin” e “Rivette” non sono direttamente responsabili. Da un tale confronto risulta un'autentica opposizione in chiasmo “vestito/trasandato”: nell'immagine di Bazin pubblicata in France Observateur, Alida Valli è in baby-doll, coi capelli scompigliati, sul ciglio del letto, e Farley Granger in uniforme bianca e mantello, al momento del suo arrivo a sorpresa la prima notte nella grande villa di Aldeno; nell'immagine di Rivette invece la donna ha lo chignon, la camicia aderente, la cravatta nera e la gonna ampia, mentre l'ufficiale decaduto è scompostamente seduto a un tavolo, in camicia e bretelle. È anche possibile notare che nel quarto tomo di Qu'est-ce que le cinéma? un'altra frase è stata soppressa da Rivette: “Stavo quasi dimenticando di aggiungere che Visconti è un duca, ed è comunista”. Eppure, essa delinea bene la posizione di enunciazione di Bazin, cristiano progressista che scrive su un settimanale di sinistra, e che si presenta ai lettori dell'Observateur come uno che non conosce “l'analisi marxista di una situazione romanzesca”. Essa fa inoltre capire meglio la conclusione dell'articolo (il cui senso preciso potrebbe verosimilmente sfuggire a un non avveduto lettore di oggi), che è quella che segue (sono le ultime parole della versione contenuta nel Qu'est-ce que le cinéma? del 1962): “Può darsi che il film di Visconti soddisfi una dialettica diversa, ma ciò conterebbe poco se non soddisfacesse innanzitutto questa”. La “altra dialettica” è quella del marxismo (il “materialismo dialettico”), quanto a “questa”, quella a cui Bazin preferisce associare la grandezza di Visconti, vedremo presto di che si tratta, perché è la tesi stessa dell'articolo quella di dimostrare la dialettica di Senso, e con essa il teorema di Visconti.

“Duca e comunista”: Bazin si propone (e afferma) di superare questo preconcetto per mezzo della sua analisi, e di concluderne quella che parrebbe una dimostrazione di teoria artistica apolitica. Eppure la coppia di opposti che viene così introdotta implica tutto il resto della dimostrazione. Lo testimonia la fine del passaggio soppresso nel 1962:

… duca e comunista. Quest'inusuale congiuntura, che manda in estasi la stampa mondana, non è, comunque, soltanto aneddotica. Dalle sue origini e dalla sua cultura, Visconti trae senza dubbio in gran parte il suo gusto per la raffinatezza e per la grandezza, o se si vuole per una certa teatralità, così come dalle sue opinioni deduce certi rapporti necessari tra l'uomo e la società, rapporti che appunto sono alla base di Senso.

2.

Ma allora, se io dico di rifarmi a una recensione cinematografica del passato, scritta da un autore segnato dalla storia della cinefilia, assai conosciuto e discusso, senza per questo entrare in uno studio di ricezione: che cos'è che faccio? Io credo di fare, con elementi teorizzati, un lavoro da storico più che da teorico. Per farmi capire, diciamo che faccio la storia di uno spettatore che si chiama Bazin. In questa storia, Bazin ha tanta importanza quanta ne ha Visconti, o Senso. Dal testo di Bazin trattengo il ragionamento astratto e la struttura esplicativa che lui ritrova in Senso ma che non appartengono a questo film in sé e per sé. Non si tratta di impedire il giudizio della storia, ma di sospenderlo. Si tratta di ricavare dalla recensione puntuale di Bazin un sistema più o meno astratto e generale, e di servirsene.

Bazin può essere considerato lui stesso un teorico quasi involontario. Dudley Andrew descrive il metodo baziniano in questo modo: l'analisi di un film particolare porta Bazin a collocarlo in un genere di film, o piuttosto in un sottogenere, il più delle volte inventato per l'occasione; così Crin Blanc di Albert Lamorisse è una “fiaba documentaria”, o un “documentario immaginario”, mentre Senso, come vedremo, è un “melodramma documentario”; esso viene dunque paragonato ad altri film dello stesso genere; questa messa in relazione permette di imbastire delle leggi generali per tutto il cinema a partire dalle “leggi del genere” studiate in prima battuta; ricordiamoci della celebre e fumosa legge del “montaggio proibito” che Bazin stesso condannerà sei anni dopo averla formulata1.

Inversamente, il mio lavoro consisterà nel riportare le leggi, o pseudoleggi, baziniane verso il film o l'autore che le ha fatte nascere, considerando il mantenersi della loro efficacia. In altri, parecchio diversi termini, mi comporto come uno di quei lettori di Bazin “non ingannati” che denunciano il carattere mitologico delle dicotomie baziniane; io però sospendo – e a dirla tutta persino cancello – l'inutile giudizio negativo che la postura denunciatoria presuppone. E illustro come le opposizioni costitutive che Bazin si è fatto non siano dicotomie sterilizzanti, ma al contrario dei poli tensionali che non presuppongono un senso definitivamente fissato. Io voglio provare a fare agire coscientemente questi poli come Bazin sapeva farlo intuitivamente, per poter tornare con loro al film, grazie a Bazin, ma senza di lui.

3.

Dopo l'opposizione biografica “duca e comunista”, Bazin nota lo svilupparsi in doppia elica di quei due piani di Senso che sono “lo storico e l'individuale”:

I rapporti amorosi dei due protagonisti si annodano e si evolvono secondo un irreversibile processo psicologico verso il basso, quando invece tutti i valori tonici e progressivi (tanto in senso morale che politico) appartengono al loro contesto storico.

Ciononostante, nessun manicheismo, nessun artificio, nessuna fabbricazione al di fuori della logica del racconto: gli avvenimenti portano a maturazione i dati iniziali secondo una logica tutta materialista. Il marxismo di Visconti viene apprezzato da Bazin in quanto, cito, “dimensione supplementare rivelata dallo sviluppo della verità romanzesca”. Per lui è uno dei “rari esempi validi di ispirazione marxista”, che apparenta Visconti a Flaubert e alla scuola letteraria del naturalismo.

Una terza opposizione si fonda su una breve analisi intertestuale che mette a confronto La terra trema e Senso. Il primo film, etichettato come realista e neorealista, ha la forza di un documentario – in altre parole, per Bazin, ha la forza di una materia “realista”. Il lavoro di Visconti consiste nel “teatralizzare” questa materia non teatrale. Viene anche precisato che quest'ultima considerazione non ha nulla di peggiorativo. Il che viene espresso da un'immagine folgorante, che potrebbe sembrare di origine rosselliniana se non fosse così baziniana:

Quei pescatori non erano vestiti di stracci, ne erano drappeggiati [drapés], come príncipi in una tragedia. Non perché Visconti cercasse di falsificare o anche solo di interpretare il loro comportamento, ma per rivelare, di quest’ultimo, l’immanente dignità. [sottolineatura mia]

Viene in mente l'immagine rosselliniana dello scontro di civiltà tra il drappeggiato e il cucito, da un lato Romani e Indiani, che in comune hanno, secondo la sua analisi, un'indolenza da paesi caldi che li porta a drappeggiarsi dentro ai loro tessuti, e dall'altro gli abitanti del Nord stretti dentro ai loro tailleur e ai loro completi chiusi. Qui l'immagine di Bazin è più ricca, dal momento che agli stracci aggiunge la dimensione della teatralità e quella della semiotica sociale dell’abbigliamento. Mise en scène della vita quotidiana e lotta di classe attraverso l'abito in Bazin, di contro al genio dei popoli in Rossellini.

A quel punto, Senso viene presentato in opposizione a La terra trema: “Di Senso dirò, inversamente, che rivela il realismo del teatro”. Laddove il precedente era il più bello dei “documentari teatralizzati”, il secondo è l'“opera-documentario” più bella. Con Senso, come tematizza la prima scena, l'opera è trasportata nel reale, e Visconti “si sforza di imporre a questa lussuosa scenografia il rigore del documentario”. Conclusione dell'articolo e di questa dimostrazione puramente logica:

La terra trema aveva l'armonia e la nobiltà dell'opera, Senso ha la densità e il peso della realtà. Può darsi che il film di Visconti soddisfi una dialettica diversa, ma ció conterebbe poco se non soddisfacesse innanzitutto questa.

Prima di arrivare a tanto, Bazin ha prodotto uno scatto [déclic] alla Spitzer nel descrivere un dettaglio che vale per l'opera intera. Eccolo qui:

Ne prenderò un esempio solo, tra cento altri. Alcuni istanti prima della battaglia, i soldati italiani, nascosti dietro i covoni di paglia, vengono allo scoperto e si allineano in vista dell'assalto. All'ufficiale viene portata la bandiera [drapeau], ma non dispiegata: tutta nuova, dentro la guaina da cui essa va estratta prima di srotolarla. Un dettaglio appena visibile in un immenso campo totale, in cui tutti gli elementi sono trattati con lo stesso rigore.

Immaginiamo una scena analoga in Duvivier o in Christian-Jacque; la bandiera sarebbe stata utilizzata come simbolo drammatico o come elemento di mise en scène. L'avremmo vista dispiegata da subito, e magari anche in primo piano. In Visconti, quello che conta è in primo luogo che la bandiera sia nuova (come l'esercito italiano), ma soprattutto, il suo modo di insistere non deve niente al come è fatta l’inquadratura, e, se possibile, non si segnala che per un sovrappiù di realismo. Visconti dichiara di aver voluto far passare il “melodramma” (leggasi: l'opera) nella vita. Se il suo proposito era questo, c'è riuscito perfettamente.

Si potrebbe anche dire che questa bandiera tricolore della nuova Italia sorga di e dal nuovo: risorge2. È l’emblema del Risorgimento e dell’unità italiana, dal momento che appare nuova ma allo stesso tempo appare per la seconda volta, in una forma unificata e virile, estratta dalla sua custodia e issata sulla sua asta dopo che all’inizio del film era spuntata da sotto la camicetta di una donna sotto forma di bouquet, e poi ancora dispersa, ancorché in una dispersione tricolore, sotto forma di volantini fatti cadere dalla parte alta del teatro sul pavimento monocromo della Fenice imbiancato dalle uniformi degli austriaci. Resta comunque il fatto che in nessun caso, e questo è importante per la dimostrazione stilisticamente esatta e precisa di Bazin, questi rilievi fanno della bandiera un’allegoria: qualsiasi velleità allegorica viene annientata da quest’insistenza che si nega da sola, o meglio, che nega da sé la propria stessa dimensione retorica. Ripeto la descrizione di Bazin, la quale si riallaccia, effettivamente, al lavoro viscontiano: “il suo modo di insistere […], se possibile, non si segnala che per un sovrappiù di realismo”. Questo “se possibile” è molto bello. In fondo, significa questo: “Sembra impossibile, eppure il cinema ne è capace”.

4.

L’esempio di Visconti, ma soprattutto del Visconti di Senso, costituisce una delle innumerevoli prove che il discorso di Bazin, a differenza di quello del bazinismo, non è un discorso prescrittivo. Se Visconti avesse continuato, dopo La terra trema, a far mostra di un prevedibile neorealismo documentario, in esterni, con attori non professionisti, con trame contemporanee politicamente significative che avessero riguardato il quotidiano degli operai e fatto vedere “il volto vero dell’Italia vera” senza esibire alcuna volontà artistica esterna, decorativa, musicale, colorata, e che non fossero fuggite in alcun altrove storico, allora nella difesa e nell’illustrazione del suo realismo da parte di Bazin non ci sarebbe stato niente che non fosse alquanto prevedibile in partenza. Ma è proprio Senso che Bazin difende, e per ciò che esso è davvero. Vale a dire, un film operistico, un melodramma, una superproduzione in costume, un affresco storico, un balletto di bei vestiti e di uniformi attillate: in quattro parole, ciò che il bazinismo potrebbe – dovrebbe anzi, stando alla logica bazinista – chiamare un tradimento del neorealismo. Di fatto, Senso si oppone in tutto e per tutto allo stile rosselliniano, se quest’ultimo viene definito dalla rivelazione, da un reale documentario o predisposto, e dalla spontaneità delle riprese. Ma poi è proprio Rossellini a non corrispondere a questa mitologia critica, che non è dovuta a Bazin neanche lontanamente, e ad essere altresì l’autore di Viva l’Italia! (1960), film in cui certe scene si potrebbero efficacemente riassumere tramite la descrizione della bandiera dispiegata fatta da Bazin per Senso – anche se, a mio parere, il Visconti di Senso è infinitamente superiore al Rossellini di Viva l’Italia!, ma questa è un’altra storia.

Per questo converrebbe essere più sottili nelle opposizioni e nella descrizione delle mitologie, ma mi limito solo al fatto che, per Bazin, ogni film porta con sé un suo proprio aspetto del realismo ontologico. A volte il realismo va verso la morte, altre verso le vertigini del doppio, altre volte va a perdersi, altre ancora verso la catarsi e il feticcio – e la lista potrebbe continuare. Con Senso, molto semplicemente, va all’opera.

Per concludere, mi richiamerò a un motivo ricorrente che mi sembra chiamato in causa dall’analisi baziniana. Non compare a chiare lettere perché la parola la si può leggere solo nella sinossi del film e non nel suo commento; è però in atto nell’avanti-indietro tra il film e il proprio genere, indotto dal passaggio dall’oggetto alle sue leggi. Si tratta di un’azione tanto quanto di un sentimento, di una forma d’essere tanto quanto di una passione assai condivisa: il tradimento.

Bazin, nel suo sunto iniziale del film, dice solo che la contessa “alla fine tradirà la causa dei suoi amici resistenti”. Poi evoca la duplice via del racconto, tra filo della grande storia (Risorgimento) e filo degli individui (la storia d’amore e di sesso, la storia tessuta d’infedeltà). La relazione che viene dimostrata tra l’uno e l’altro costituisce l’interesse del suo articolo: scrive frasi molto belle per descrivere questa specie di doppia elica, di una tristezza e di una franchezza al contempo flaubertiane e naturaliste, per mezzo della quale la verità romanzesca, lungi dall’ostacolare la prospettiva ideologica, la rilancia e se ne nutre. Ciò che egli tocca ma che non vede è la dialettica del tradimento e il suo rapporto con il principio del suo realismo ontologico. Non vede che il controcampo del tradimento è in qualche maniera la presenza di una credenza infondata con cognizione di causa, ciò che dopo Bazin si chiamerà il “diniego feticista”. Eppure è in atto già qui, nelle relazioni d’amore: “io so” [je sais bien] che lui mi tradirà, che lei un giorno mi lascerà, che lui non mi ama, “ma comunque” [mais quand-même] lo voglio amare, voglio fare l’amore con lei, voglio entrare nella sua camera, ci voglio credere.

Rohmer, sulla scia di Bazin, ha parlato, a proposito del cinema, della sua capacità di dar conto del reale con l’ausilio del suo doppio e di quella di lavorare sul disagio della sua modifica, di “segni di infedeltà”. A volte riguardo agli adattamenti letterari, altre riguardo alla riproduzione del reale. È esattamente ciò che è in ballo con Bazin, e in particolar modo quando scrive su Senso di Luchino Visconti.

È qui che non bisogna dimenticare che nella sua opera Visconti rende feconda una formula trovata in Tomasi di Lampedusa: “Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi”3, e Bazin una formula trovata in Mallarmé: “Tel qu’en lui-même enfin l’éternité le change” [Tal ch'in lui stesso infine l'eternità lo muta], due massime che possono altresì stimolare la riflessione sul realismo ontologico del cinema. La ripresa mallarmeana di Bazin è perfettamente consonante con l'analisi esplicitamente marxista di Visconti, riguardante l'avanzata della Storia e le azioni della classe borghese, sintetizzate dall'aforisma di Lampedusa, che con lui diventa il “teorema di Tancredi”4. Antonio Gramsci descriveva il Risorgimento come “una rivoluzione imperfetta”: Visconti, logicamente, la descrive come una rivoluzione tradita, ed è la forma estetica generale del tradimento che Senso, capolavoro sulla decomposizione morale, costruisce.

Riassumendo, i nobili garibaldini (in Senso come nel Gattopardo) si tradiscono loro stessi, così come il Duca Visconti tradisce la propria classe sociale con l'essere comunista, ma anche col fare cinema e non solo opera; per il marxista Visconti, all'interno della lotta delle classi, la rivoluzione borghese è un tradimento della rivoluzione sociale; infine, è il reciproco tradimento della coppia degenere, della donna infedele e dell'amante infedele, che tinteggia Senso, che lo mette in musica, che fa tracimare il sentimento lirico del motivo ricorrente del tradimento facendolo propagare su tutto il film. Il tradimento è dunque più di una tematica: è il colore (giallo, senza alcun dubbio) che attraversa tutto Senso, ma un tipo di colore che appartiene solo al cinema. Come Bazin diceva che il Van Gogh di Resnais era “Van Gogh meno il giallo”, così io potrei dire che Senso è “Gramsci più il giallo”.

 

Senso

di Luchino Visconti

girato dal 29 agosto 1953 al febbraio 1954

anteprima italiana il 3 settembre 1954 al Festival di Venezia

anteprima francese il 28 gennaio 1956 alla sala Playel, a Parigi

uscita nelle sale in Francia nel febbraio 1956

*

Visconti è citato da André Bazin 49 volte in tutto

Senso è citato dieci volte

e analizzato più nello specifico nei tre seguenti articoli:

“Le gala de 'Senso' à la salle Playel”, Le Parisien libéré n° 3541 del 28 gennaio 1956

“Senso Beau comme la mort”, Le Parisien libéré n° 3549 del 7 febbraio 1956

“Senso de Luchino Visconti”, France-Observateur n° 300 del 9 febbraio 1956.

Hervé Joubert-Laurencin

 

(originariamente in: Le sommeil paradoxal: Ecrits sur André Bazin, pp. 160-166, cfr. note. Testo pubblicato con il consenso delle Editions de l'Oeil. Traduzione dal francese di Marco Grosoli)



1 André Bazin, “Les périls de Perri”, Cahiers du Cinéma 83 (Maggio 1958).

2 In italiano nel testo [NdT].

3 Tomasi di Lampedusa, Il Gattopardo, Milano: Feltrinelli, 1958, capitolo1 (ripubblicato da Firenze: La Nuova Italia, 1976, p. 26). In italiano nel testo. Vedere anche Hervé Joubert-Laurencin, Le sommeil paradoxal: Ecrits sur André Bazin, Montreuil: Editions de l’Oeil, 2014, pp. 14-97.

4 Cfr. Hervé Joubert-Laurencin, Le sommeil paradoxal: Ecrits sur André Bazin, Montreuil: Editions de l’Oeil, 2014, pp. 14-97.