Che significato ha oggi assumere il ruolo di bardo? Questo semplice ma non più scontato interrogativo sta alla base del film che ha maggiormente segnato un'edizione del Festival di Cannes in cui regole troppo rigide nella programmazione hanno giocato un brutto tiro, concentrando quasi tutti i film migliori nelle sezioni laterali del festival (con eccezione della doppietta orientale, costituita dal meraviglioso ritorno di Hou Hsiao-hsien e dal sempre più radicale affondo nelle trasformazioni della Cina di Jia Zhang-ke). Così la Quinzaine des Realisateurs – già forte dei film di Garrel, Desplechin e Tscherkassky – si è assicurata anche l'onore di presentare l'opera proteiforme e affascinante di Miguel Gomes: un film folle e visionario, struggente e ironico, analitico e ondivago, che con le sue quasi sette ore di durata è stato l'appuntamento cinéphile di questa edizione, conquistando di capitolo in capitolo nuovo pubblico e regalando momenti di partecipazione spettatoriale rari in una manifestazione gigantesca e impersonale come quella di Cannes.

Di fronte alla proiezione di Arabian Nights era palpabile la sorpresa per un film che inizia come un reportage personale sulla crisi del Portogallo ma che, nell'arco di un'ora, sa immergerci tra le festanti odalische attorno alla bella Scheherazade, il divertimento quando il racconto assume i toni grotteschi della farsa, la melanconia di fantasmi solitari che si inseguono senza trovare sosta, il puro piacere estetico di trovarsi in un Paradiso cinematografico in cui la parola scritta apre un inaspettato fuori campo e in cui a regnare non sono più i racconti ma le sonorità di piccioni trasportati da una località all'altra di un insolito Portogallo. In qualche modo queste visioni, sorprendenti e allo stesso tempo naturali, chiamano chiaramente in causa una comunità di spettatori, sensazione che capita sempre più raramente di provare al cinema. Per questa ragione, Gomes ricopre un ruolo fondamentale all'interno della propria generazione di registi, profilandosi come un raro cantore politico del nostro presente, di occidentali, di europei, di giovani uomini disposti ad assumere una posizione di fronte alle cose.

E proprio così inizia il viaggio fantasmatico in un presente totalmente trasfigurato, con immagini da cinema documentario e un commento fuori campo che porta il marchio di tanto cinema in prima persona dagli anni settanta ad oggi. La voce del regista ci conduce nel film, raccontando di come i più grandi cantieri navali portoghesi stanno trasferendo la produzione altrove, per lasciare presto a casa più di seicento lavoratori, ci parla di un paese in crisi segnato da provvedimenti che non sembrano tenere conto del singolo e poi ci porta altrove a esplorare una crisi dell'ecosistema (che appare come una piaga biblica in un'atmosfera già lugubre) per cui le api sono gradualmente in via d'estinzione. La sua piccola troupe si sposta veloce, da un posto all'altro, tentando di catturare qualcosa che è già successo o che chissà quando accadrà, ponendo il cineasta di fronte all'impossibilità di usare una forma già codificata di cinema per intraprendere la propria avventura. Perché fare cinema (o meglio fare cinema politico) oggi è una questione di vita o di morte. Implica confrontarsi con sfide sempre più alte, vuol dire reinventare un linguaggio e sfidare un sistema che tenta continuamente di imbrigliare la libertà formale, forse perché solo lì risorgerà un nuovo senso capace di mettere in discussione lo spettatore. Ed è chiaro come passare la parola alla bella Scheherazade sia il volano per dare il via a un'avventura prima di tutto creativa, lasciando gli ormeggi e allontanandosi da ciò che si conosce per affrontare nuove piste cinematografiche che restano solo abbozzate e proprio in questa forma precaria e instabile trovano la loro forza vitale, trasmettendo una sensazione d'inarrestabile desiderio del raccontare e del lasciare spazio all'ampiezza o alla volatilità del racconto stesso.

Questo passaggio fondamentale nel film, che costituisce una sorta di prologo a cui non corrisponde un vero e proprio epilogo (e vedremo in seguito il perché), è suggerito nelle fratture che segnano i precedenti film di Miguel Gomes: particolarmente evidente in Tabu (2012), dalla struttura bipartita tra la quotidianità misteriosa dell'anziana protagonista e il viaggio nel suo amore furtivo e avventuroso nel cuore delle colonie portoghesi, ma già presente in un film come Cântico das Criaturas (2003), in cui la rievocazione delle parole di Francesco e Chiara sono precedute dal footage mostruoso tratto da documentari sugli animali predatori. La narrazione sembra arrestarsi per procedere con le parole (ma sarebbe meglio dire le immagini) di un altro narratore possibile, qualcuno che accoglie la prima parte e ne suggerisce nuove interpretazioni, complessificando la lettura del film e suggerendo l'idea di un'inarrestabile forza creatrice che passa di persona in persona, donandosi in ultima istanza allo spettatore. Forse proprio da qui nasce l'interesse di Gomes per Le Mille e una notte, i cui i rimandi apparenti (soprattutto se considerata la lunghezza del film) non sono poi molti. Certo, ci sono la bella Scheherazade e le sue ancelle, e ancora briganti e misteriosi assassini, ci sono politici arrapati e bellezze nude sulle terrazze, compare persino qualche genio, ma il vero interesse (come avviene nelle più ricercate rielaborazioni di testi letterari al cinema) sta nella struttura che l'infinito racconto della principessa in preda alle voglie del sultano mette in atto per riuscire a sorprenderlo e destarlo, scampando ogni mattino al pericolo della morte.

Le storie di Scheherazade si aprono spesso lasciando la parola agli stessi protagonisti che iniziano a raccontare a loro volta altre storie in un rimando continuo al potere del racconto e alla forza che scaturisce da ogni nuovo narratore. In questo senso gli enunciatori si susseguono all'interno del singolo episodio inventando nuove relazioni tra una cronaca politica e sociale (da leggere nell'intervista, pubblicata qui di seguito, il lavoro portato avanti dal regista con la squadra di giornalisti) e un'elaborazione narrativa che prende le vesti di un'aporia, di una messa in scena brechtiana, di un'indagine documentaria, in cui c'è chi parla in prima persona e chi invece fa rivestire i propri ruoli a improbabili ragazzini, in una schivata continua della corrispondenza tra le attese e le soluzioni.

In questo, il lavoro che muove Gomes è molto diverso da quello condotto da Matteo Garrone con il suo progetto più ambizioso, Il racconto dei racconti, opera lontana dall'esplorazione della forma letteraria e molto più vicina alla rilettura contemporanea di un testo universale, come quello di Basile. Il titolo, così pregnante e ricco di significati, non corrisponde al film che ne è scaturito, nel quale la narrazione è interamente condotta da un deus ex machina, abile nell'annodare storie diverse ma non altrettanto capace di definire la propria voce e di cederla agli altri. In qualche modo l'epopea di regnanti annoiati che non sanno delegare e di vecchine che sognano d'ingannare attraverso le sembianze della giovinezza riflette in forma allegorica la situazione della crisi italiana, ma è vittima degli stessi mali che denuncia, imbrigliata nell'utopia che sia ancora possibile accedere a un mondo dato (quello dell'immaginario) seguendo l'ingresso degli attanti della storia. E finendo così per diventare un mostro proteiforme, dove l'eccellenza artistica (di decori e scenari) è messa al servizio di un cast internazionale poco calibrato nei toni, ma pensato per una diffusione estera del film. Per Gomes, invece, la volontà di dare voce a chi sta subendo la crisi nel proprio paese si trasforma in egual maniera in un'impresa titanica ma dalle vesti umili di un racconto che non ha bisogno di apparati sfarzosi, intuendo che una reazione al sistema passa prima di tutto dalla pratica che si intende adottare. Certo, si dirà, Gomes guarda all'Europa, Garrone agli Stati Uniti d'America, ma anche da queste scelte passa una posizione nei confronti del proprio ruolo di bardi dei nostri giorni inquieti, desolati e incantati.

Con questi tre aggettivi, Gomes ha scelto di dividere la propria opera che si sviluppa per toni, verrebbe da dire per gradazioni di colore, permettendo allo spettatore di vivere tre esperienze diverse a fronte delle rispettive parti del film. La prima è la più vulcanica: passa dalla farsa sulla squadra di “tecnici” arrivati in Portogallo per risolvere la crisi e in realtà stregati da un genio che li obbligherà a seguire le proprie voglie, all'episodio campestre nei toni di pastorale su un gallo che non vuole saperne di stare zitto neppure quando esploderà un caso nel villaggio e alla rimessa in scena di un amore folle che porterà una donna ad appiccare un incendio, fino ai toni tragicomici dell'impresa di un sindacalista che organizza ogni anno un bagno collettivo per i disoccupati del Paese. La seconda si fa più cupa, per mezzo di vicende che ribaltano continuamente ciò che è e ciò che appare: un assassino gira per la campagna e diventa per caso un eroe, una giudice si trova a sbrogliare un caso in cui ogni testimone sembra in realtà più colpevole del precedente indiziato e infine gli abitanti di un grande edificio popolare si passano di mano in mano il cagnolino Dixie, unico spiraglio di ottimismo in una società a pezzi. La terza, sicuramente la più estrema e originale, si compone di due parti: il ritorno di Scheherazade nella paradisiaca Baghdad e la decisione di lasciare spazio a un nuovo narratore, l'operaio collezionista di piccioni che organizza tornei di canto d'uccelli in giro per il Paese. I tre movimenti, orchestrati magnificamente da un ritorno calcolato della voce o della presenza della narratrice, inseguono personaggi che non riescono ad avere un rapporto con l'altro, ma unicamente con se stessi. Sono specchio di una società che ha abdicato all'idea di comunità, che è presente soltanto come forma residuale. Ne sono traccia i gruppi di operai incerti sul proprio avvenire e sulla possibilità di una contestazione, l'assemblea come esercizio di un'utopica democrazia diretta in un paesino, l'uditorio di un tribunale come fantasma di giustizia terrena, gli abitanti di un palazzo popolare ormai chiusi tra le loro quattro mura sgretolate. In questo mondo il fare insieme si riduce a una corsa verso il mare (tra l'altro bloccata dall'esplosione improvvisa di una balena) o a una gara di canto di piccioni dai toni surreali gestita dalla “classe operaia”; e quando ritorna, nelle immagini ambigue di una manifestazione della polizia che rompe facilmente i cordoni di un sistema d'ordine che ben conosce, è filtrato da una voce fuori campo che racconta di una storia d'amore perduta tra uno dei partecipanti e una ragazza orientale in visita in Portogallo.

Il corpo della nostra società soffre, eppure non è sparito: risorge nell'instancabile movimento che segna il film, fatto di persone in cammino, quasi un'ostinata marcia. Un fermento calmo ma inesauribile, come la forza del racconto, che ci comunica la disperata bellezza della condizione umana pur nelle sue forme più marginali. E poi, accanto agli uomini, gli animali con la loro presenza quasi magica (su questo ha avuto una certa influenza Sayombhu Mukdeeprom, direttore della fotografia di Apichatpong) che sono il vero controcanto di un mondo che impone allo sguardo umano di allargarsi e accogliere altri linguaggi, altre forme d'amore, altre verità fondamentali. Se è il canto dei piccioni su cui si chiude una storia che potrebbe andare avanti ancora a lungo, si profila una strada per ripensare un cinema fuori dai tradizionali formati, dando vita a un oggetto insolito, che come un prisma (o una profezia) sia capace di farci uscire dalla sala con altri occhi. Come una magia del potente mago di OZ, in realtà un trucchetto d'artigiano, capace di cambiare per sempre la percezione di chi approda nel suo Regno.