Arriviamo a Cannes con la certezza che Arabian Nights di Miguel Gomes sarà il film del festival. Ed è così: questo è il cinema aperto, avvolgente, spiazzante e intriso di passione e malinconia che ci piace vedere. Scriviamo all'ufficio stampa per richiedere un'intervista con il regista. Passano due giorni e niente. Al terzo ci viene fissato un appuntamento nella pagoda di fronte alla Villa Mallmaison della Quinzaine. Abbiamo a disposizione venti minuti appena, pochissimi per un film che dura quasi venti volte tanto… La speranza è che Miguel Gomes sia ben disposto, in vena di raccontare… Lo troviamo appoggiato allo schienale del divano, con gli occhiali da sole, un cocktail sul tavolino accanto, intento a scrutare la calca pomeridiana sulla Croisette che si intravede appena oltre il tendone quasi fosse un orizzonte tropicale. Sembra in procinto di appisolarsi, si muove lentamente, lentamente sorride, sornione, dietro le lenti scure che gli nascondono lo sguardo, ma è ben disposto, senza dubbio. Le parole si susseguono lente, il tono è pacato, lieve, e prima di rispondere alla domanda d'avvio fa una lunga pausa, pensierosa, quasi intendesse raccontare una storia. Meglio: quasi stesse per riprendere un racconto interrotto tempo addietro…

L'idea di un “comitato centrale” impegnato a raccogliere le storie potenzialmente utili al film è molto interessante. Come ha funzionato, questo gruppo di lavoro?

Si è trattato di un processo molto particolare, perché lavorare con un team di questo tipo non rientra nella norma, ma volevamo stabilire una connessione forte con quanto stava accadendo in Portogallo e abbiamo pensato che tale ruolo potesse essere rivestito da un gruppo di giornalisti. A loro spettava il compito di indagare e “rifornirci” di storie realmente accadute, o che stavano accadendo in quel momento, così che noi le potessimo tradurre in finzione. Adesso non si fa altro che parlare di questo “comitato centrale”… Una cosa nata per scherzo in Mozambico, durante le riprese di Tabu, perché non c'era una sceneggiatura vera e propria, si improvvisava, e avevamo bisogno di qualcuno che spiegasse agli attori e alle attrici cosa bisognava fare il giorno seguente… Ci divertiva quindi che, in un film sul colonialismo, un gruppo di lavoro prendesse il proprio nome dalla terminologia sovietica! Di conseguenza, ogni giorno, io, l'assistente alla regia e i due sceneggiatori avevamo il compito di riflettere su quello che stavamo facendo e trasformare in piano operativo le idee raccolte, perché altrimenti nessuno avrebbe saputo cosa fare. Concretamente: il “comitato centrale” proponeva una serie di spunti ed eravamo noi a indirizzarli su un fronte particolare chiedendo di approfondire la ricerca su un dato luogo o su una determinata situazione; una volta ricevute le informazioni che ci interessavano cercavamo di elaborare una finzione a partire da esse.

Raccontata così sembra davvero trattarsi di una elaborazione molto caotica dei materiali di partenza… Non avete preparato uno script, una scaletta nemmeno nel corso delle riprese?

Alcune storie sono state girate senza sceneggiatura, altre ce l'avevano, ma in ogni caso si trattava di testi scritti al momento, in corso d'opera. Inizialmente c'erano tre staff: quello produttivo, il nostro – la troupe, diciamo – e quello dei giornalisti, e da quest'ultimo si risaliva al primo, nel senso che loro fornivano lo spunto di partenza, la storia che poi elaboravamo e consegnavamo ai produttori. Ed è andata così dall'inizio alla fine delle riprese. Nel mezzo del film, quindi, poteva presentarsi una settimana nella quale il lunedì montavamo una scena girata due mesi prima, martedì eravamo impegnati a scrivere una sequenza ancora da girare, mercoledì incontravamo i produttori e il team di giornalisti per un briefing e il giorno dopo magari stavamo facendo sopralluoghi per un'altra scena! Come hai detto tu, c'era una forte componente di caos e forse è per questo che abbiamo utilizzato quella canzone alla fine della prima parte del film… Un brano punk intitolato Chaos Is My Life che pensavamo rispecchiasse bene non solo la nostra vita sul set ma anche quella di molti portoghesi in difficoltà. Ad ogni modo, è stato davvero faticoso. Un anno intero di lavoro, a volte sette giorni su sette… per 14 mesi, in realtà. Un'impresa sfiancante, tanto che al momento desidero solo girare dei corti!

L'intenzione era fin dall'inizio quella di realizzare un film di questa durata, superiore alle sei ore, o si tratta di una decisione presa in seguito?

Nel contratto che avevamo stilato con la produzione c'era scritto che il film non poteva superare le tre ore e trenta minuti. E già così sarebbe stato piuttosto lungo… Abbiamo firmato entrambi ma credo che abbiano capito abbastanza presto che stavo girando molto più materiale del previsto e che sarebbe stato impossibile restare entro quel margine di durata, non senza tagliare o lasciare fuori tanta roba interessante. Quindi in fase di montaggio abbiamo deciso che non si sarebbe trattato di un film solo ma di tre. A quel punto ho detto al produttore “non puoi farmi causa, perché tecnicamente ciascun film dura due ore o poco più, e dunque non eccede la durata prevista dal contratto!”.

Anche la scelta di girare in pellicola, per un film così lungo, è sorprendente.

Inizialmente pensavamo di girare il film in 70mm… Ci abbiamo fatto davvero un pensiero, nonostante sapessimo che sarebbe stato molto dispendioso. Abbiamo persino preso contatto con l'unico laboratorio francese in grado di sviluppare il 70mm ma è stato chiuso nel bel mezzo delle riprese, così abbiamo dovuto cambiare i nostri piani. L'eventualità di questa scelta ha a che fare anche con il direttore della fotografia, Sayombu Mukdeeprom, un pazzo tailandese che conoscevo per via del lavoro svolto con Apichatpong. L'abbiamo invitato a vivere a Lisbona per un anno senza spiegargli che tipo di film avevamo in mente di fare e lui ha detto subito di sì, ecco perché dico che è pazzo. Abbiamo scoperto presto di fare entrambi molta fatica a lavorare con il digitale, perché amiamo troppo la pellicola… A volte penso che la gente conosca poco la matematica, in particolare i produttori, perché se fossero bravi in matematica si renderebbero conto che il digitale non è poi così economico, rispetto alla pellicola. Certo, con il digitale puoi girare tutto quello che vuoi ma devi fare tantissima post-produzione e lì i costi lievitano notevolmente.

In ogni caso mi pare evidente che la produzione vi abbia lasciato un ampio margine di libertà…

Sì, capita che mi lamenti dei produttori ma in questo caso sarebbe davvero fuori luogo… Mi hanno lasciato molta libertà, è vero, e questo significa instaurare un rapporto di estrema fiducia. Anche se, per il modo in cui lavoro, l'improvvisazione alla base di un film così ampio e complesso prevede non solo libertà ma anche un profondo senso di paura, perché per tanti mesi non avevamo idea di quale sarebbe stata la struttura finale dell'opera. Ma si tratta di qualcosa che ho imparato a gestire dai miei film precedenti: ci sono tanti modi in cui puoi lavorare sulla struttura del film, una volta terminate le riprese, in sede di montaggio, soprattutto. Ciò che mi piace del cinema è la possibilità di trasformarsi, mutare pelle, non solo in relazione alla sua forma, ma anche dei singoli personaggi, regista compreso, che compie un viaggio misterioso alla scoperta di qualcosa che, quando ha cominciato a girare, ancora non conosce.

In una precedente intervista per la nostra rivista, hai detto che i tuoi film sono divisi in due parti e che la terza parte, quella che elabora un nuovo livello di significato, tocca allo spettatore. Arabian Nights, però, è già tripartito, quindi lo spettatore che ruolo ha?

In questo caso c'è ancora più lavoro da fare, per lo spettatore! Credo che ogni singola parte del film produca delle risonanze, delle corrispondenze con le altre che la precedono o la seguono. E questo vale anche per le sequenze che compongono i vari capitoli, perché ogni scena che abbiamo montato risponde in qualche modo a quelle precedenti e trova una sua collocazione nella più ampia costruzione generale dell'opera. In questo senso mi sono ispirato molto alle Mille e una notte, con narratori che cambiano, storie che si susseguono a rotta di collo, ed è quello che ho fatto soprattutto nella prima parte del film, con i lavoratori, gli uomini del sindacato, il gallo che parla, etc, mentre la seconda parte è più ordinata, anche più triste, direi, tragica… anche se la parola giusta credo sia “disperata”. In particolare dalla scena dell'albero in avanti, presenta personaggi molto più solitari – e quando parlo di personaggi mi riferisco anche agli animali e agli alberi, per l'appunto – e la lunga scena del processo ci mostra un giudice che scopre che tutti sono colpevoli e che non può fare nulla al riguardo, si trova di fronte a un buco nero, uno sprofondo morale… Forse l'unico essere a non soffrire per tutta questa situazione è un cane, il cagnolino Dixie, che sta bene con il suo padrone ma anche con gli estranei e la cui unica sfortuna è non essere nato in un film Disney ma in Portogallo. Allo stesso modo possiamo considerare la terza e ultima parte come una reazione a quella che l'ha preceduta, perché la stessa Scheherazade arriva pensare “questo è troppo, non posso raccontare altre storie, ora devo andare alla ricerca del piacere”, ed è per questo che in questa sezione si canta di più, c'è più amore, c'è una ricerca della bellezza… Nel finale, quando ritorna al palazzo, racconta una storia che abbiamo già sentito, riguardo a dei proletari che potrebbero fare la rivoluzione e non la stanno facendo, invece si prodigano a far cantare gli uccelli! Ed è quello che queste persone fanno davvero, in maniera assolutamente ossessiva, è la loro ragione di vita. Quello che scopre Scheherazade, alla fine, è che bisogna avere fiducia nella gente e io sono d'accordo, perché ognuno ha una sua storia da raccontare e quello che comprendiamo, insieme a lei, è che non c'è bisogno di storie spettacolari, perché anche le persone che vivono una vita normale, non particolarmente attraente, hanno qualcosa di incredibile da dire, fosse anche solo un uomo che spiega come un uccello può cantare in tante maniere differenti.

Il trasformare in finzione storie reali, radicate nella crisi che il Paese sta attraversando in questi anni, è anche un modo per sottrarle alla caducità del tempo? Puoi dirci qualcosa di più sulla relazione tra realtà e finzione all'interno di questo film?

Credo che lo sguardo sulla società non possa limitarsi a quello che succede, anche se è necessaria la presenza di una forte componente materiale, pur in un film fantasioso come questo. Devono esserci i veri disoccupati che parlano della loro situazione e allo stesso tempo bisogna trovare spazio per le loro paure e i loro desideri, come dice Scheherazade all'inizio della terza parte. La commistione di realtà e finzione è utile per mostrare la complessità della situazione sociale, si tratta di due aspetti complementari che non possono essere in opposizione. La storia del sindacalista, alla fine del primo episodio, è esemplare: vuole che tutti vadano in spiaggia a fare il bagno, il primo di gennaio! Dal punto di vista politico si tratta di un personaggio decisamente bizzarro, eccentrico, deciso a mettere in atto un rituale apparentemente assurdo. Ma ci crede profondamente e la maniera in cui si impegna per portare a compimento la sua missione è coinvolgente, dal punto di vista emotivo. E quando alla fine si vedono tutte queste persone entrare in acqua con le bandiere del Portogallo e la speranza che il nuovo anno possa essere migliore di quello precedente ti fa pensare che forse quest'uomo è nel giusto. Un uomo impegnato nella lotta che lascia spazio anche alla fantasia di un progetto così folle.

In relazione a ciò, direi che uno degli aspetti più sorprendenti del film è il tono spesso gioioso, paradossale che siete riusciti a ottenere, nonostante i temi trattati, così delicati e tragici. Ha a che fare con la forza catartica delle storie o un tuo ottimismo riguardo gli uomini e il possibile superamento della crisi?

Non sono ottimista, riguardo la fine della crisi… Non lo sono per natura, credo. Ma ho visto che anche nei peggiori momenti la natura umana riesce a tirare fuori qualcosa di positivo, di costruttivo. Alla fine del film, dopo la scena con il poliziotto e il cinese, nell'ultima apparizione, Scheherazade ci dice che bisogna essere pronti alla gioia e al dolore e accettare entrambi. E quando la realtà si fa più difficile è necessario avere dei filtri: se devi raccontare qualcosa di tragico non puoi imporlo in quanto tale, devi filtrarlo, per evitare il ricatto emotivo, e questi filtri devono essere sempre differenti. Uno dei più potenti è lo humour: la capacità di ridere anche di fronte alle cose più tristi, è un'abilità universale che ci aiuta a vivere meglio, a sopravvivere.

Quale pensi sia la maniera migliore di vedere il film? Tutto d'un fiato o in proiezioni separate, come è avvenuto a Cannes?

Credo che la maniera ideale sia lasciare del tempo tra la visione di un film e l'altro. Al di là della boutade con il produttore e delle rispondenze interne di cui ho parlato, li considero davvero film molto diversi, dotati di una loro specifica autonomia. È importante ricordarsi del film che si è visto in precedenza ma non necessariamente deve essere ancora dentro lo spettatore, un po' di distanza ci vuole. Anche Scheherazade non racconta le sue storie al re in una volta sola: si ferma è fa sì che il re senta il desiderio di sapere di più, di ascoltare una nuova storia.