Ieri sono stato nel regno delle ombre.

Se sapeste quanto è strano,

 è un mondo silenzioso, senza colore.

Tutto, la terra, il cielo, gli alberi, gli esseri umani,

 tutto appare di un grigio uniforme […].

Non è la vita, ma la sua ombra.

(Maksim Gor'kij, 1896)

 

Un uomo sbatte ripetutamente la testa contro un muro.

Quando gli chiedono il motivo per cui lo faccia, risponde:

«Perché mi sento bene quando smetto».

(Roman Polanski, 1967)

Mette un po' a disagio dover scrivere di Abacuc oggi. Significa arrivare quasi fuori tempo massimo, a giochi fatti: un po' perché è ormai passato un anno dalla “prima” del film al 32mo Torino Film Festival; e po' perché nel frattempo la produzione di Luca Ferri, figura ormai nota ai frequentatori di festival, si è infoltita di nuovi lavori – paradossalmente, visto che Abacuc vuol proclamarsi opera “terminale” e “testamentaria”. Ancor meno facile, poi, è figurarsi la reazione dell'ignaro pubblico in sala: il film di Ferri ha la qualità, ormai rara, di mettere in difficoltà gli spettatori, anche e soprattutto quelli “di professione” (i critici, diciamo). Di fronte a un film che è allo stesso tempo calibratissimo e debordante, raffinato e naïf, ogni discorso sembra superfluo o, peggio, ridondante.

Che cos'è infatti, Abacuc? Un viaggio nel regno dei morti? Ma l'Aldilà che vediamo ricorda in modo fin troppo sospetto l'Aldiqua: i cimiteri, i terrain vague, i capannoni industriali, i villini unifamiliari sono gli stessi che addobbano tristemente le periferie del nord Italia – un territorio peraltro già esplorato, o, per meglio dire, dissezionato da Ferri nel precedente Magog [o epifania del barbagianni]. In questo universo in bianco e nero (la bella fotografia è di Giulia Vallicelli), risonante di voci sintetiche che annunciano la fine del mondo, si muove caracollando l'imponente figura dell'eroe eponimo (Dario Bacis, che di Ferri è un po' l'attore-feticcio). È solo, forse è l'ultimo uomo sulla terra. Una distopia apocalittica, dunque, sul genere del Morselli di Dissipatio H.G.? Ma Abacuc è alla ricerca  di una donna, il suo amore perduto: il che può far sospettare che il film sia una personalissima variazione sul mito di Orfeo ed Euridice.

Come si vede, Abacuc sfugge alle griglie interpretative troppo strette. Conviene piuttosto lasciarsi andare al suo fascino “primitivo”, all'incanto di una regia che sembra dimenticarsi di un oltre un secolo di storia del cinema per inventare tutto daccapo; e che sfiora pratiche cinematografiche anche pericolosamente “alla moda” (l'utilizzo della pellicola in Super8) senza badarci troppo, con l'entusiasmo di chi sta scoprendo qualcosa di completamente nuovo. Discepolo spirituale di Augusto Tretti, alfiere dichiarato di un cinema “amatoriale”, Ferri riesce a suscitare nello spettatore uno strano incanto, utilizzando pochissimi elementi: apparizioni e sparizioni mélièsiane, ipnotiche trovate sonore (del compositore Dario Agazzi), accelerazioni della pellicola come nelle vecchie slapstick comedies.

Ecco, si farebbe un torto a Ferri se si trascurasse l'aspetto comico del film, talvolta ghignante, talaltra farsesco. Poiché è qui che emerge lo “strano umanesimo” del regista, accuratamente nascosto dietro il proprio tonante disprezzo per l'umanità e alla propria dichiarata sfiducia futuro dell'arte (anche del cinema, verrebbe da dire: ma un film come  Abacuc lo smentisce).

«Penso che dovremmo continuare a sbattere la testa contro il muro, ripetutamente», ha detto Ferri in una intervista di qualche tempo fa. Ecco, diverte pensare che a forza di testate, con questo film pieno di trovate e di ossimori, egli si sia aperto un varco verso… verso dove? Un altro mondo? Forse soltanto un altro cinema. Non ci resta che seguirlo.

Abacuc, regia di Luca Ferri, Italia 2014, 83'