Vedere Une jeunesse allemande è aprirsi a un’inattualità positiva, abbandonarsi alla volontà ferrea, da parte del regista Jean-Gabriel Periot, di esautorare la cronaca dalla storia, di re-inserire l’umano nell’avvenimento (anche tragico o criminale) del novecento filmato. Une jeunesse allemande non è un film sulla banda Baader-Meinhoff, o meglio non è soltanto quello, come non è unicamente un lavoro sui filmati d’archivio, ma si situa in una posizione di rottura, da un lato con la corrente preponderante nel panorama documentario europeo – anche di found footage – e dall’altro con una dimensione “politica” della lettura storica. In un orizzonte contemporaneo che vede il documentario prediligere la creazione mitopoietica all’interrogazione sulla realtà; in un linguaggio, che per aprirsi a nuovi orizzonti (assolutamente legittimi e interessanti), ha relegato l’oggetto a semplice traccia, l’uso dei found footage di UJA potrebbe risultare quasi anacronistico.

Certo la corrente dominante, che genera universi immaginari a partire da immagini del reale, è una linea nobilissima che dai fantasmatici mari di petrolio di Lessons of Darkness può arrivare fino alla Louisiana metafisica di Minervini, o che dall’uso in chiave poetico del filmato di repertorio di Pietro Marcello ne La bocca del lupo arriva alla totale ri-scrittura visiva del sottovalutato Anita di Luca Magi; ma è anche un bacino poetico che evita, o volutamente dimentica, alcuni cardini  fondativi del cinema del reale, in particolare lo statuto di “documento”. Dove la contemporaneità antepone il soggetto all’oggetto – vedendo fiorire, tra le altre cose, il Re-enactumentary- Periot ribalta le coordinate e riporta in auge un dibattito e una dialettica che forse si è persa nelle strade del contemporaneo (con le dovute eccezioni). A German Youth, per usare il titolo internazionale, è un lavoro che non si esaurisce in una  solo lettura,  ma si presta a un’analisi attenta, per certi versi anche più analitica; in maniera del tutto imperfetta e frammentaria proviamo, in questa sede, a fornire qualche spunto di riflessione.

Dal post al moderno

Il percorso di Periot non è recente – nello snobismo culturale italiano in cui il cortometraggio è ancora considerato un’arte minore forse il suo nome sarà sconosciuto – con diciassette cortometraggi, una decina di installazioni e altrettanti video, a cavallo tra videoclip e videoinstallazione, il primo lungometraggio rappresenta un punto di arrivo più che uno di partenza.  Chi ha avuto la fortuna di assistere al recente focus dedicato a Periot dal  Milano Film Festival – all’interno del cui concorso lungometraggi era in concorso UJA – avrà avuto modo di rendersi conto di quanto il lavoro sul materiale di archivio di Periot sia sempre contrastivo. Per prendere un esempio emblematico, l’uso delle immagini di repertorio nel cortometraggio L'art délicat de la matraque (2009) [visibile qui: https://vimeo.com/12768521] funziona in base ad associazioni oppositive: musica/immagini, passato/presente, testo della canzone/filmati di repertorio; portando poi lo spettatore a creare connessioni più elaborate, ma sempre puntando alla de-contestualizzazione del frammento video. In questo senso Periot, fino a UJA, si è nutrito poeticamente di un uso prettamente post-moderno del found footage, decontestualizzato delle immagini da lui trovate, facendo dell’ironia (talvolta cinica) la costante cifra del proprio lavorare sul repertorio. In tale senso il found dei lavori del cineasta francese si riferisce a un ritrovamento anche occasionale che viene rianimato da un posizionamento oppositivo all’interno di un panorama video completamente distonico. Altro esempio in tale direzione sono le immagini pornografiche di #67 che diventano contrappunto ironico per alcuni consigli alimentari. La giustapposizione, diventa anche cifra prettamente estetica di un uso dello split screen ricorsivo e, spesso, ipertrofico. Rispetto a tale percorso il lavoro elaborato da UJA è opposto, nel film si anima, infatti, un continuo tentativo di riportare l’oggetto storico nel suo contesto, con la volontà esplicità di non ricostruire una Ulrike Meinhof (o un Andreas Baader) specifica – non la giornalista del ’62 o la criminale del ’74 –  e neppure di offrire una parabola narrativa su un personaggio – nello stile di un biopic o di un documentario biografico –  ma di restituirne un’identità dialettica, contraddittoria, complessa. In tale senso la realtà storica si svela nel suo manifestarsi attraverso documenti contrastanti. In questo contraddirsi, dibattere ferocemente contro il sistema o talvolta contro se stessi, ne emerge un’umanità folle, ma nondimeno autentica.

Un ritorno al punto di vista

Come in inglese, anche il termine tedesco schießen può riferirsi allo sparo di una pistola come allo scatto di una macchina fotografica. Ma quale è il confine tra il passaggio tra l’uno e l’altro? La domanda su come si possa cambiare la società attraverso il cinema attraversa tutto il film, un filo rosso – non solo metaforico, ma visivo, fatto di bandiere, volantini, sciarpe –  che si manifesta nelle opere cinematografiche del gruppo. A sconvolgere è tanto il talento visivo quanto la condivisibilità di alcuni principi teorici dei fondatori della RAF nel momento in cui sono stati cineasti. Troppo semplice chiosare dicendo che il cinema sia stata la loro prima pistola, il dramma è il riconoscimento di una differenza ontologica tra la possibilità di generare un immaginario – utopico e assoluto – su una pellicola e il pretendere che tale immaginazione prenda i connotati di una realtà sociale a cui tutti si debbano uniformare.

Lo sviluppo del punto di vista è altrettanto centrale nel film, per tutta la prima metà della pellicola lo spettatore è spettatore tanto del film di Periot quanto dei film di Gudrun Ensslin e Andreas Baader, nel momento in cui da aspiranti cineasti e contestatori situazionisti il gruppo si trasforma in movimento terroristico il lavoro di Periot mette in scena una rottura (rispetto ai materiali di provenienza quanto nei confronti del linguaggio usato) in cui tutti i personaggi della RAF scompaiono dalla scena. Quella che per tutta la prima metà del film era stata un’ottica dall’interno, volta a mostrare tanto i loro lavori quanto la loro quotidianità, si trasforma improvvisamente in uno sguardo esterno. Dai filmati autoprodotti si passa ai documenti giornalistici, Periot in questo senso sembra prendere una posizione di natura etica, nel momento in cui le pallottole si sostituiscono alla pellicola, non è più possibile aderire a una visione comune ed  entrare in un punto di vista condivisio.

La fine della storia

Lo sguardo dello spettatore in sala – e Periot, che ha fatto un lavoro come Les Barbares (2010), è perfettamente cosciente della standardizzazione dell’immaginario politico contemporaneo – proviene da un’indistinta “storia degli effetti”. Attingendo al bacino filosofico di Alexandre Kojève, il soggetto che guarda il film (il noi spettatore) vive nell’Impero, uno status-quo globale contraddistinto dal promulgarsi continuo di accordi giuridico-economici, dall’acquisizione di beni, senza alcuna evoluzione di paradigma; una fine della storia come processo di rotture e creazioni di nuovi modelli sociali. L’oggetto osservato, la RAF, si situa invece in uno spazio in evoluzione inscritto in un orizzonte di trascendenza, di utopia concreta per usare il lessico di Ernst Bloch. Il cambiamento che si respira nel liberatorio cortometraggio di Holgher Meins con una bandiera rossa che attraversa la città di Berlino, esce dalla storia pensata come concatenarsi di effetti ed entra in contatto con una storia dell’immaginazione, una proiezione in un futuro diverso (un esercizio di colore).

L’operazione di Periot è quindi opposta a quella di Germania in autunno (in questo senso nell’uso che si fa del film in UJA è di una coerenza dialettica encomiabile), non c’è alcun bilancio su un mondo che non si può realizzare; ma, quasi in un’evocazione spiritica, la messa in scena, come fantasmi, di figure inesauste di un’altra storia, di personaggi di un mondo in lotta.  Quando, a fine film, le voci dei singoli protagonisti – di Andreas Baader, Ulrike Meinhof, Gudrun Ensslin e Horst Mahler – ritornano sulla scena, soggetti di un film che è stato ri-fatto, ri-montato, ri-pensato viene la vertigine, terrifica e nostalgica allo stesso tempo, per un mondo in cui, non solo attraverso i fotogrammi, si è pensata una realtà e un futuro differente. Per quanto sbagliato possa essere stato, sembra chiosare Periot, una volta in Germania è stato pensato l’impossibile.