Guillermo Del Toro è l’ultimo custode di una tradizione horror che vanta illustri radici letterarie, e Crimson Peak incarna l’omaggio definitivo del regista messicano ai suoi numi cinematografici e narrativi, imponendosi come un film piacevolmente anacronistico – seppure non del tutto riuscito – rispetto alle attuali tendenze di Hollywood in materia di spettri e case infestate. Soprattutto, è un’opera che prosegue l’indagine di Del Toro sul ruolo del fantastico nel nostro immaginario collettivo, laddove ogni manifestazione sovrannaturale o metafisica esercita un compito preciso nello sviluppo psico-emotivo dei protagonisti. Non è certo un caso che l’eroina di Crimson Peak sia una scrittrice di ghost stories: pur rappresentandoli nei suoi racconti come metafore del passato, Edith crede fortemente nell’esistenza dei fantasmi, e le sue convinzioni stridono con il razionalismo neo-industriale del primissimo Novecento, tant’è che il Dr. Alan McMichael di Charlie Hunnam abbozza persino una spiegazione scientifica (e dichiaratamente positivista) delle apparizioni spettrali.

Alle certezze rassicuranti di McMichael si contrappone però il fascino malinconico di Thomas Sharpe, nobile decaduto in cerca di fondi per finanziare l’estrazione dell’argilla rossa che impregna i suoi terreni, e che condivide sia la sensibilità inquieta di Edith sia la sua sensazione di straniamento in un mondo che guarda all’irrazionale con crescente ironia e disincanto. L’inevitabile matrimonio porta Edith nella disastrata magione di Thomas, una casa che vive di vita propria, respirando attraverso i suoi innumerevoli condotti d’areazione e sanguinando argilla scarlatta dalle fenditure nelle pareti. L’ambigua sorella di Thomas nutre un interesse morboso per la neonata coppia di sposini, mentre gli spettri purpurei che abitano il palazzo cominciano a tormentare la povera Edith, già ossessionata dal fantasma della madre: queste presenze, più che metafore del passato, sembrano interessate al futuro della giovane scrittrice.

L’abilità di Del Toro consiste nel fare di Crimson Peak – più che un horror – un oscuro melodramma gotico dove le pulsioni dell’Eros convivono con gli influssi del Thanatos, entrambi personificati dalla sensualità eterea e consunta di Tom Hiddleston. Impossibile non pensare a House of Usher di Roger Corman, emblema di romanticismo gotico dove la magione eponima si comporta come un organismo vivente, ma Del Toro preme anche sulle vibrazioni dell’erotismo, che germogliano con violenza in un contesto di apparente inibizione. Gli stessi fantasmi, vermigli e materici come l’argilla su cui poggia Casa Sharpe, hanno una consistenza viscerale, “fisica” e concreta, molto più vicina al regno dei sensi che al dominio delle cose ultraterrene. L’idea deriva certamente dai fantasmi dello scrittore M.R. James, carichi di allusioni sessuali, ma Del Toro attinge da un vasto retaggio letterario che comprende anche Henry James, Edith Wharton (che presta il nome alla protagonista) e Sheridan Le Fanu: le apparizioni, al di là della loro componente orrorifica e spaventosa, hanno una forte impronta morale, sono le vestigia putrefatte della colpa, della punizione a lungo scampata e della giustizia per troppo tempo negata.

Come accadeva ne La spina del diavolo, i veri mostri sono gli esseri umani, non certo gli spettri. Purtroppo, però, la fragilità strutturale di Crimson Peak si rivela proprio nella soluzione del mistero. Del Toro è bravo a costruire l’enigma in progressione, avvolgendolo in un clima malsano e raccapricciante, ma imbocca la strada più prevedibile non appena si trova costretto a scioglierlo, sprecando gli elementi più intriganti e simbolici che aveva seminato lungo il cammino: dall’argilla rossa alle falene notturne che popolano la magione, passando per la neve tinta di sfumature cremisi, le idee migliori restano confinate alla fase embrionale, dilapidate e inespresse, poiché prive di conseguenze dirette sul finale della storia. Così, Crimson Peak sfocia in un epilogo sin troppo convenzionale (l’inseguimento, il duello…), tradendo le premesse di un apparato visivo che di convenzionale ha ben poco. Del Toro e il direttore della fotografia Dan Laustsen si allontanano felicemente dai canoni hollywoodiani, e prediligono una palette cromatica espressionista che cita Mario Bava, focalizzata sui toni acidi del verde e dell’arancione, come se l’intero film si svolgesse in una dimensione da incubo. La magione stessa è un miracolo di direzione artistica: costruita interamente da zero, si estende come un labirinto multilivello di corridoi contorti, ingranaggi sferraglianti e architetture sinistre, figlio meticcio dell’era medievale e dell’epoca Vittoriana.

Peccato che la debolezza di alcune svolte narrative metta alla prova ogni sforzo per sospendere l’incredulità, e che la presenza degli spettri sia sostanzialmente disorganica rispetto all’intreccio misterioso: non ne è la causa, ma solo uno dei suoi molti effetti. Eppure, l’ultima inquadratura sembra suggerire che ogni ghost story nasca da qui, e che dietro ogni spettro vendicativo ci sia una storia da raccontare: Crimson Peak, per certi versi, rappresenta il modello atavico di tutte le case infestate, il retroscena di un orrore che terrorizzerà le generazioni a venire. In tal senso, la tradizione dei penny dreadful e dei feuilleton può dirsi perfettamente rispettata.

Crimson Peak, regia di Guillermo Del Toro, USA 2015, 119’