Dove eravamo rimasti, italianizzazione discutibile di Ricki and the Flash, è la storia di una  rocker che lascia marito e figli a Indianapolis per inseguire il sogno della celebrità. Passano gli anni, l’impeto resta, ma la realtà e una vecchiaia imminente le impongono di lavorare come cassiera in un supermercato, pur continuando a scaldare l’atmosfera di un bar di periferia con la sua band di relitti sgangherati – i Flash, per l’appunto. Sembrerebbe buon pane per la stiacciata di Demme; piombano, tuttavia, alcune fastidiose complicazioni. La prima ha a che vedere con la sceneggiatura di Diablo Cody: una che quando spinge sul pedale giusto ottiene risultati interessanti, come dimostrano il sottostimato Young Adult e la serie tv United States of Tara, e che nel peggiore dei casi si limita a innocue ruffianerie (Juno), o a divertiti esperimenti trash (Jennifer’s Body). Qui, purtroppo, la sceneggiatrice scarnifica universi e storie in potenza esplosivi riducendoli a un immaginario limitato, lasciando fiato corto a sviluppo della narrazione e studio dei personaggi.

Il film ricerca a ogni costo una cattiveria e un dolore che non può permettersi, tentando in maniera furba – e questa è la vera coltellata per chi ama l’onestà di Demme – di decifrare la contemporaneità seguendo buonismi e ammiccamenti d’incredibile sciatteria. Dove eravamo rimasti finisce per diventare il contraltare un po’ cretino di Rachel sta per sposarsi: anche qui è un matrimonio finale a sprigionare tossine, nervi e catarsi. Fatti gli inevitabili distinguo, però: in Rachel le nozze rappresentano il paradigma di un reale danneggiamento di corpi e anime, la dimostrazione di un resoconto nocivo sulla fine della famiglia. In Dove eravamo rimasti funge piuttosto da chiusura scanzonata (pur se musicata da una splendida canzone di Springsteen, vecchia conoscenza di Demme) a un bestiario di idiozie, dove ogni personaggio cerca di spuntarla per apparire il più insopportabile possibile.

Persa, dunque, l'occasione di unificare la fierezza del suo candore verso la fiction e l’energico, alchemico legame con la musica di tanti documentari. Pur avendo a disposizione un mucchio di rocker attempati e la possibilità di snodarsi tra l’Indiana e lo squallore losangelino, il massimo che si riesce a fare è ficcare una canna in mano all’azzimato padre di famiglia Kevin Kline; dove si vorrebbe dare l'idea di personaggi sbandati e dissacranti, emerge con evidenza la loro totale disonestà. "Se io mi presento succederà qualcosa di terribile" sibila a un certo punto Ricki. Ecco, qualcosa di terribile non succede mai, perché tutto annacqua nelle forme più concilianti che si possano immaginare. Poi ci si può raccontare la favoletta della grande musica dal vivo, del potere galvanizzante del rock e mistificazioni simili: se c’è chi si accontenta non è buona creanza guastargli il sonno. Del resto, si tratta di uno di quei film innocui e composti a regola d’arte per compiacere chiunque.

Detto questo, il problema più si incarna nella prova di Meryl Streep. Parlare male di Meryl Streep, oggi, equivale più o meno a sputare sulla Costituzione degli Stati Uniti d’America sotto lo sguardo di Barack Obama. Nessuno ha tale criminosa intenzione; ci sono degli elementi, però, che ormai gettano diverse ombre sul suo oligarchico talento. Di lei Katharine Hepburn diceva: "Tra le attrici moderne è quella che amo di meno; le sue performance sono così calcolate che si può sentire il click, click delle ruote girare attorno alla sua testa". Affermazione esagerata, forse, ma è pur vero che negli ultimi decenni la Streep ha soffiato quasi ogni ruolo over 55 alle colleghe coetanee, virando la propria recitazione in direzione di un compiaciuto manierismo. Nel film di Demme, difficile credere anche solo per un istante che la fallita Ricki stia vivendo il dolore in sottrazione di una madre che non ha saputo crescere i suoi figli, che ha inseguito per anni una chimera assoluta, che canta My Love Will Not Let You Down al figlio che non la vuole al suo matrimonio. No: vediamo Meryl Streep che rispolvera (piuttosto bene) il repertorio d’interprete dotata, ma senza lasciarsi invadere dal personaggio. Potrebbe buttare la chitarra per terra e tornare a fare la Thatcher, a impastare crostate come Julia Child o a cantare gli Abba, e forse non ce ne accorgeremmo nemmeno.

Il ruolo di Ricki, se solo fosse stato sviluppato meglio, avrebbe avuto bisogno di una Bette Midler, di Sally Field, di Lily Tomlin, di Lee Grant, di Glenn Close, o – in una sorta di virtuoso parossismo – della stessa Streep di Cartoline dall’inferno (quello sì che era un film di madri e figlie sbandate, non a caso diretto da Mike Nichols). Poco importa: come in una convergenza disgraziata di talenti momentaneamente sospesi (il regista, Cody, la Streep), Dove eravamo rimasti si propone con tale pochezza alla ricerca di unanime consenso che la Streep, questa Streep non può che esserne adeguata protagonista. Click, click.