“Undress them and they are all alike, dress them and you have the class society”, recita una delle riflessioni contenute in I Am Curious (Yellow). Se si volessero mettere in bocca queste parole al regista Vilgot Sjöman, si spiegherebbe facilmente l'operazione del film. Eppure il dittico di cui fa parte con I Am Curious (Blue) (concepito da Sjöman come opera unica e diviso in due solo per ragioni di durata e distribuzione) è qualcosa di più complesso di quello che è passato alla storia come il capostipite della “swedish sexploitation”. Protagonista dei due film è la stessa attrice, Lena Nyman, impegnata nelle riprese di un documentario intitolato Lena on the Road, nella finzione diretto dallo stesso Sjöman, il quale la segue nella sua crescita politica e sentimental-sessuale, in particolar attraverso la relazione con il giovane padre di famiglia Börje.

Complice lo scandalo al momento dell'uscita, e la conseguente (semi-)irreperibilità sul mercato home-video per diverso tempo, il film rimase ammantato di un'aura cult legata più che altro alla presenza di scene esplicite. I film riuscirono tuttavia ad aggirare la censura statunitense grazie al carattere “pedagogico” della pellicola (dando il via, peraltro, alla serie di film che con il pretesto dell'educazione sessuale – da cui il camice dei dottori e la nomea di “white coaters movies” – si prendevano libertà rappresentative inedite per il mercato dell'epoca). Levi e Kemp nel Dizionario Snob del Cinema liquidano Io sono curiosa come sopravvalutato “film svedese serioso e svestito”, eppure sarebbe fuorviante pensare al film come a un'opera che si traveste da panegirico intellettuale per smerciare di contrabbando un po' di pornografia. L'operazione di Sjöman, al massimo, è proprio quella opposta, come emerge chiaramente rivedendolo oggi.

L'ambiguità scaltra del titolo ne è la prima dimostrazione: I Am Curious significava attirare l'attenzione di un pubblico non aduso a certe riflessioni, in un'epoca in cui la Svezia era vista dal mondo come un'oasi di permissivismo. Negli stessi anni, e anche sulla scia dei film di Sjöman nascevano prodotti che sfruttavano questo immaginario, si pensi per esempio a L'età della malizia, di produzione americana ma girato in Svezia e con attrici svedesi, o ai nostrani Il diavoloL'isola delle svedesi, fino al mondo-movie Svezia, inferno e paradiso. Guardando il film si scopre, invece, che la curiosità di Lena è più che altro legata al suo insistente porre domande (come fa nelle sue interviste ai passanti) per capire ciò che la circonda, più che alla volontà di scoprire il sesso. Non a caso, infatti, all'inizio del film la giovane è tutt'altro che illibata. Al contrario, Lena è già tanto esperta da avere una serie di dossier completi per ogni suo partner sessuale, nei quali annota i loro gusti, le abitudini ma anche e soprattutto le opinioni politiche.

Già da questo archivio, il personaggio di Lena emerge come un individuo autonomo, che usa il sesso per formarsi un'idea più chiara del mondo che la circonda, come sembra fare anche il regista Sjöman. La prova d'attrice di Lena Nyman è insuperata, il ritratto di ragazza che ne emerge è quasi commovente. L'infantilità di Lena non è mai leziosa né studiata, e ricorda molto più Pippi Calzelunghe che non Lolita. Lena è uno di quei personaggi femminili che si incontrano di rado sul grande schermo, che ha sempre feticizzato l'adolescenza femminile come momento carico di una sessualità attraente in quanto inconsapevole o, viceversa, sottilmente calcolatrice sotto la facciata candida. Si tratta di un cliché in cui è caduta tante volte anche la Nouvelle Vague, si pensi ad esempio alla Patricia di Fino all'ultimo respiro. Il personaggio di Lena invece, autentico e disarmante, ricorda piuttosto la Sally Bowles di Cabaret, la Monica di Bergman, o la Annika di Roy Andersson in En Kärlekshistoria. Una costellazione abbastanza rara, fatta di donne capaci di raccontare una femminilità consapevole soprattutto nell'iniziativa sessuale. Vincent Canby del New York Times non risparmiò impietosi commenti sulla “somewhat rotund figure that betrays every candy bar she has ever eaten” della Nyman. Ma proprio anche grazie all'aspetto non canonicamente attraente dell'attrice, Lena non è mai erotizzata dalla regia, si erotizza da sé quando lo ritiene opportuno, un po' per scelta (femminista), un po' per desiderio. Ed è proprio la scoperta del desiderio come forza deflagrante e potenzialmente distruttiva che mette in crisi, come ha osservato Parker Tyler in Sex Psyche Etcetera in the Film, la fiducia quasi dogmatica di Lena nella non violenza. L'incontro con Börje arriva infatti a scompaginare le carte in tavola: Lena scopre la passione, la gelosia e il dolore. In questo modo si trova costretta a farsi oggetto dell'indagine che prima rivolgeva al mondo, e impara a rinunciare alla puerile intransigenza che la contraddistingueva.

Spogliato dello scandalo e osservato con distanza storica, del film resta infatti soprattutto il discorso politico, straordinariamente attuale. La storia recente ci mostra un mondo in cui la non violenza non è più avanguardistica o rivoluzionaria come pensavano la generazione hippy e i suoi epigoni, bensì è diventata la vulgata, il senso comune. Come metteva in guardia Gramsci, ogni senso comune è in sé totalitario, e oggi “ripudiare la guerra” o “to repress aggressive feelings” suona come il diktat principale e trasversale di ogni “democrazia”, la maschera ipocrita e fintamente progressista che costringe al pensiero unico.

La crescita di Lena sembra essere esemplare di un percorso che Sjöman auspica per tutta la società. Qualche indicazione in questo senso ci arriva dallo stile. La rappresentazione del sesso è  incredibilmente onesta e schietta, e viene da chiedersi se non fu proprio questo esasperato realismo a turbare le coscienze dei censori. Già l'incipit è consapevole e programmatico: una signora borghese osserva indignata una coppia (l'attrice e il regista) amoreggiare in un ascensore, prevenendo e prevedendo quindi l'indignazione dell'eventuale spettatore prude. La scena successiva inquadra la bandiera svedese, a cui le due parti (giallo e blu) sono dedicate. Così si apre un film che unisce in sé documentario, rappresentazione della quotidianità, erotismo, inchiesta sociopolitica e sperimentazione stilistica, tutto in nome della registrazione del reale.

Eppure il montaggio, più eisensteiniano che da Nouvelle Vague, sembra testimoniare che il regista -– e il registro – sono tutt'altro che ingenui. La realtà che Sjöman presenta è la realtà inevitabilmente mediata che vivono i protagonisti del set: il regista e la sua attrice. A distanza, ciò che rimane è un film invecchiato molto meglio di tante opere coeve proprio grazie all'ironia intelligente che lo contraddistingue. La sua stessa durata (quasi quattro ore, complessivamente, tra le due parti) redime anche le parti più lente e che soprattutto mette in luce la mediazione soggiacente a qualsiasi velleità realistica. Un film in cui persino la metariflessione (“A love scene without consequences would be pointless don't you think?”) è sempre stemperata da una consapevolezza giocosa e autoironica. Grazie all'autoironia, il regista include se stesso nel discorso che sta portando avanti, e il film risulta essere qualcosa di più di un semplice pamphlet polemico – contro il realismo da un punto di vista cinematografico, contro l'ideologia pacifista della liberaldemocrazia scandinava da quello politico. È proprio qui che emerge la convinzione squisitamente moderna (e non “post-”) che la realtà non sia monolitica, bensì dialettica.