Ai vecchi tempi, un film che arrivava al cinema era un mucchio di pesanti e ingombranti rulli di pellicola 35mm. Quella materialità è quasi del tutto scomparsa. Oggi un film è un cosiddetto Digital Cinema Package (DCP) e assomiglia a un grosso DVD. Arrivato in sala, il DCP viene inserito in un lettore e “sbloccato” grazie a una chiave elettronica inviata dalla compagnia di distribuzione che ne autorizza la proiezione.

Ovviamente, sul set i direttori della fotografia continuano a darsi da fare con inquadrature, esposizioni e messe a fuoco. Ma non ci sono sali d’argento sulla pellicola in attesa di essere impressionati. Non ci sono rulli sul tavolo di montaggio da esaminare e montare con colla e forbici. Non voglio sembrare nostalgico, anzi: mi rendo conto di quanto denaro si risparmi grazie a questi progressi. Eppure, oggi, la pellicola è qualcosa che pochi possono avere tra le mani e pensare come qualcosa di vivo, la materia di cui sono fatte le storie. È andato perduto un legame con la realtà, e di tanto in tanto ci chiediamo se ciò rafforzi la nostra sensazione che il cinema sia un’arte in sparizione.

Allo stesso modo, i film diventano instabili quando sono virtuali anziché materiali. Alla fine del 2014 abbiamo assistito a un siparietto isterico che ha avuto per protagonisti Sony e The Interview. Si è passati dal film completato alla fine dello spettacolo nel giro di pochi giorni. Poi è diventato disponibile, un ostaggio liberato per il nostro divertimento. Molti di quelli che l'hanno visto avrebbero preferito fosse ancora proibito – cosa che peraltro ne avrebbe accresciuto l’aura di leggenda. Immaginate una conferenza accademica tra qualche decennio in cui Seth Rogen e James Franco vanno in estasi parlando di The Interview come se fosse I magnifici Amberson di Orson Welles.

Quest’ultimo, una volta, era un film materiale, una storia in rulli, e gloriosa!, che i proprietari non avevano apprezzato. Fu distribuito nel 1942 dalla RKO nella versione ancora esistente di ottantotto minuti. Quella è la versione che si trova in DVD e che di tanto in tanto viene proiettata nei cinema. Ma I magnifici Amberson che Welles voleva realizzare durava più di 130 minuti. Anche se il film che abbiamo oggi è meraviglioso, la versione integrale avrebbe potuto eclissare Quarto potere. Secondo alcune fonti, i tagli furono buttati nell’oceano Pacifico assieme a scarti di molti altri film.

Ciò che è perduto è particolarmente desiderabile. In molti hanno continuato a cercare in giro nell’intramontabile speranza che in una cantina, in una soffitta o in una favela di Rio de Janeiro potesse nascondersi una copia della versione integrale. E può darsi che ci sia – ci tornerò in un secondo momento. Prima vorrei fare qualche considerazione sulla natura bizzarra dei film perduti e su cosa li renda tanto preziosi.

“Puoi guardare solo un film alla volta”, mi diceva mia madre. “Sii paziente”.

Aveva ragione, ma io non ero mai soddisfatto. Era il 1950, e per vedere qualcosa dovevamo andare dal nostro sobborgo a sud di Londra fino al Regal o all’Astoria. Mettiamo che fosse Burt Lancaster in La leggenda dell’arciere di fuoco e che mia madre si stesse sforzando di essere entusiasta quanto lo ero io. Ad un certo punto arrivò il trailer di I trafficanti della notte con Richard Widmark. “Guarda, è Londra!”, disse mia madre mentre Widmark si aggirava di notte tra i palazzi bombardati. Avevo nove anni, ero abbastanza grande per riconoscere i titoloni pubblicitari sullo schermo. L’attesa per il sorriso di Lancaster (di lì a due minuti) svaniva di fronte a quella per il sogghigno vile di Widmark, e io volevo fossimo già alla settimana successiva. “Hai detto lo stesso la scorsa settimana”, mi ricordava mia madre. Era quando il trailer di La leggenda dell’arciere di fuoco mi era sembrato molto più indispensabile che Jimmy Stewart in Winchester ’73.

La dinamica dell’andare al cinema era chiara: potevi vedere un solo film alla volta, e non contava nulla quanto trovassi irresistibili i trailer. Conoscevo i circuiti della distribuzione. Un film a Londra in genere esordiva nel West End e poi si muoveva lentamente verso i sobborghi: prima il nord, poi l’infinità grigia del sud. Da noi il film restava una settimana, e poi via per sempre. Ricordo ancora di aver perso Alan Ladd in Il marchio di sangue (deve essere arrivato mentre eravamo in vacanza all’isola di Wight). I miei compagni mi hanno preso in giro parecchio per quella mancanza. Dicevano fosse il miglior film mai fatto.

Quando ho scoperto Fiume rosso, è stato entusiasmante sedersi lì sulle sue rive e guardare. Il film era un fiume, e così pure la sua storia: ti obbligavano a restare lì. Con un libro puoi fermarti prima del finale e fare un pisolino. Il libro ti avrebbe aspettato pazientemente. La musica che ti piaceva era su disco; potevi tornare indietro a riascoltarla finché non la imparavi a memoria. Ma un film era lì e poi via per sempre – cosa che significava che i vecchi film erano come giornali ammuffiti. Per un paio di ore, guardare un vecchio film era tanto urgente quanto conoscere il risultato di Chelsea-Arsenal della sera stessa. Le squadre avrebbero giocato di nuovo contro prima o poi. Chi vuole vedere roba vecchia? A chi importava che quel ciarpame fosse al sicuro in qualche deposito?

Ci è stato detto che il settanta per cento dei muti realizzati negli Stati Uniti e una porzione altrettanto terrificante di film sonori sono andati perduti. Senza dubbio è corretto, come lo è dire che chiunque abbia combattuto nella Prima Guerra Mondiale oggi è morto. Era destino che succedesse: se non erano i proiettili o l’influenza spagnola ad averti preso, prima o poi l’avrebbe fatto la vecchiaia. Questo per dire che si potrebbe essere più comprensivi verso la speculazione e l’indifferenza culturale che sta attorno a queste perdite. Le compagnie che possedevano film non avevano abbastanza spazio per conservarli e non avevano idea che potessero avere una seconda vita commerciale con l’arrivo della televisione che, se non fosse stato per quei vecchi film, probabilmente avrebbe trasmesso soltanto esecuzioni capitali e incidenti automobilistici. Le immagini stesse tendono a sbiadire e scomparire, e la base su cui i film si stampavano era il nitrato di cellulosa, un materiale capace di trasformarsi in polvere o in una schifosa sostanza putrescente che emanava un fetore insopportabile prima di esplodere o prendere fuoco.

Nel 1987 ho visitato l’Harry Ransom Center ad Austin, Texas. Il Ransom Center ha una delle più grandi collezioni di manoscritti del mondo. Ma possiede anche altro, come per esempio l’archivio del produttore David O. Selznick. Ad Austin ero con Jeffrey Selznick, uno dei suoi figli, insieme al quale stavo realizzando un documentario sui cinquant’anni di Via col vento. Speravamo di trovare qualcosa di interessante: i provini, un 16mm amatoriale, chissà. Lo staff del Ransom Center ci ha condotto dove il film era depositato, e quando l’ascensore si è fermato all’undicesimo piano io e Jeffrey sapevamo di essere arrivati. Potresti sentire l’odore di nitrato a distanza di un centinaio di metri, e questo significa che è pericoloso. Un’esplosione in quell’edificio avrebbe messo parecchio a rischio manoscritti di D.H. Lawrence, Graham Greene, James Joyce e una Bibbia di Gutemberg. Nel giro di quarantotto ore la pellicola è stata trasferita in un silo abbandonato nella periferia della città.

Non che qualcuno si preoccupi di preservare le pellicole dall’erosione del tempo. Quel che succede, quando un archivio ha abbastanza finanziamenti, è che un film in pellicola viene trasferito su un supporto più stabile. Poi la pellicola viene di nuovo deopositata a temperatura e umidità ottimali e si aspetta che il tempo faccia il suo corso. I colori, tranne che per il Technicolor, sono pesantemente deteriorati in tutti i sistemi. Nessuno sa se le versioni digitali che spadroneggiano ovunque saranno sicure ed eterne. Né tanto meno sappiamo se le copie in pellicola dell’età dell’oro resisteranno al tempo meglio dei dipinti di Vermeer o Velazsquez e se sembreranno altrettanto belle (anche quei dipinti sono soggetti al decadimento fisico, ma è assai improbabile che Las Meninas andrà in cenere al Prado).

Studiosi e archivisti si domandano perché il paese che è comunemente associato con lo sviluppo del cinema non depositi una copia di ogni film alla Library of Congress. È qualcosa che prevede già il Copyright Act del 1909 e i suoi successivi emendamenti. Ma da allora la biblioteca stessa rifiuta di adempiere alla legge. Credo che questo rifletta tutto un insieme di ansie legate a dove mettere i film e a quanto possono durare. Recentemente la Library ha adottato un processo selettivo per mettere una pezza sui guai causati dalla loro stessa negligenza verso la legge del 1909.

Eppure, anche se la Library of Congress fosse tanto scrupolosa con i film quanto lo è con i libri, il problema rimarrebbe. Il Copyright Act si rivolge a chi detiene i diritti d’autore, ovvero le compagnie che hanno finanziato e distribuito il film. Così, avendo la MGM prodotto e poi distribuito Greed nel 1924, la versione depositata è quella distribuita in sala. Eppure Greed, come molti altri film, è stato vittima di circostanze particolarmente complicate. Potrebbe essere il film perduto più celebrato della storia di Hollywood, nonché già a partire dal titolo una riflessione sull’industria che lo ha creato. Ma Greed non è semplicemente perduto.

Eric Stroheim (per usare il suo vero nome) era un umile viennese che arrivò in America all’inizio del ventesimo secolo e guadagnò una certa fama come interprete di personggi tedeschi in film sulla Grande Guerra e consulente militare per gli Studios. Con il nome di Eric von Stroheim esordì nella regia e i suoi film – Mariti ciechi, Femmine folli – rivelano un impressionante realismo psicologico, allora nella sua infanzia cinematografica. Era anche uno a cui piaceva sfidare i propri capi.

All’inizio degli anni Venti, Stroheim firmò un contratto con la Goldwyn per l’adattamento del romanzo di Frank Norris McTeague. Il contratto per ciò che sarebbe diventato Greed prescriveva che il film sarebbe durato cento minuti e costato 75.000 $ (ma Goldwyn duplicò il budget poco prima dell’inizio delle riprese). Stroheim voleva girare in location originali e portò la troupe nella Death Valley a una temperatura di cinquanta gradi. Girò molto più di quanto si era impegnato a fare, e la prima versione del film era di quarantadue rulli, circa dieci ore.

Già piuttosto fortunato per essere riuscito a girare come avrebbe voluto, Stroheim cercò il compromesso con i produttori proponendo loro una seconda versione di sei ore da dividere in due parti e da proiettare in due spettacoli. La fortuna gli voltò le spalle: il progetto finì in mano di un suo vecchio nemico, Irving Thalberg, quando la Goldwyn venne assorbita dalla MGM.

Irene Mayer, la figlia di Louis B. Mayer, ebbe la fortuna di vedere la versione di dieci ore. Disse che era impressionante ma noiosa e che aveva sì cose immense e meravigliose ma francamente troppe. Il padre e Thalberg ordinarono che il film fosse tagliato fino a raggiungere le due ore di durata. Il regista non riuscì a vedere la versione distribuita prima di dieci anni. “Era come guardare un cadavere in un cimitero”, disse. “Trovavo un pezzetto di colonna vertebrale e qualche osso della spalla”.

Greed è ciò per cui Stroheim è più conosciuto assieme alle sue partecipazioni ne La grande illusione di Renoir e in Viale del tramonto di Wilder. È amato dai cinefili e considerato uno dei più grandi film muti di sempre. Le visioni della Death Valley come un paradiso d’oro e la maniera in cui il denaro sostituisce il sesso nei sogni dell’eroina meravigliano ancora oggi.

La versione MGM da 140 minuti è stata l’unica disponibile per decenni, e non lascia dubbi circa il genio di Stroheim, il suo potentissimo realismo, il suo odio verso gli instinti predatori di Hollywood. Esiste anche un’edizione critica da 239 minuti curata da Rick Schmidlin per Turner Classic Movies con inserti, still e didascalie che illustrano ciò che manca.

Ovviamente non possiamo sapere ciò che non abbiamo visto. Ma sappiamo ciò che ci manca: Il Grande Gatsby del 1926 e molti film di Mauritz Stiller e Yasujiro Ozu, per esempio. In più, migliaia di film sono stati distribuiti pur avendo meno di, o addirittura altro da, quello che i loro autori avrebbero voluto.

Restano reperti di Stonehenge e Mesa Verde e non abbiamo idea della loro storia o del loro scopo. Robert Musil ha pubblicato i volumi iniziali de L’uomo senza qualità ma la lunga sezione finale è stata messa assieme dalla sua vedova. Allo stesso modo, la Quarta Sinfonia di Charles Ives è un compromesso tra il sogno del compositore e i limiti pratici della performance. Posto che Stroheim fosse stato davvero il genio, il fatalista e la figura autodistruttiva che ci piace immaginare, avrebbe ritenuto verosimile che la versione integrale di Greed gli fosse sopravvissuta o che piuttosto le rovine di quella diventassero il suo monumento di Ozymandias?

A volte essere perduti aiuta. Nel 1958 Alfred Hitchcock realizzò un mistery che alcuni credettero finisse troppo presto. Non aveva nemmeno quel retrogusto sardonico che la gente apprezzava nei suoi film. La donna che visse due volte era cupo, oppressivo e difficile da apprezzare – e infatti andò male al botteghino. Tutto ciò avrebbe potuto seriamente affossare Hitchcock, tanto più che si trattava del film più simile ad una confessione che avesse mai realizzato.

Quasi immediatamente dopo La donna che visse due volte, lo status di Hitchcock si risollevò. Psyco, uscito un paio di anni dopo, fu un successo che vide arte e botteghino affratellarsi e ogni dubbio a proposito della consapevolezza di Hitchcock fu eliminato grazie alla pubblicazione del libro-intervista di François Truffaut del 1958, un punto di riferimento per stabilire cosa dovrebbe essere un vero regista. In seguito Hitchcock si dimostrò un uomo di spettacolo molto scafato quanto ritirò dalla circolazione alcuni suoi film (ulteriore prova della sua intelligenza era il fatto di essere detentore dei diritti dei suoi film). Tra questi anche La donna che visse due volte. Il ritiro iniziò nel 1973, più o meno quando i primi corsi universitari di cinema stavano invadendo college e università americani.

L’interesse nel film “perduto” crebbe esponenzialmente. I pochi che avevano amato La donna che visse due volte nel 1958 potevano passare intere cene a raccontarne la trama – che è la storia di una donna perduta. Di tanto in tanto si raccontava di proiezioni clandestine. Del film si scriveva con un'adorazione visionaria. Hitchcock morì nel 1980 – e tre anni dopo il film fu redistribuito con enorme successo. La classifica decennale di Sight & Sound del 1982 lo piazzava al numero sette (prima non c’era nemmeno); nel 2002 era secondo a Quarto potere e nel 2012 è diventato, ufficialmente, “il miglior film di tutti i tempi”.

In nessuna di queste considerazioni mi domando se La donna che visse due volte sia un ottimo film o no. Quello che mi intriga è come la sua gloria ritardata sembra soltanto la versione in grande della mia smania per Il marchio di sangue. Se Orson Welles fosse vissuto più a lungo e avesse avuto i diritti di Quarto potere  (e non un contratto che gli assicurava semplicemente che il film restasse in bianco e nero e che Ted Turner non lo avrebbe colorizzato), il suo colpo audace nel 2012 sarebbe stato ritirare il film. Vincere il primo posto nella classifica del 2022 sarebbe stata una conclusione scontata.

Il che mi riporta a I magnifici Amberson. Welles concluse il montaggio all’inizio del febbraio 1942, producendo una versione da 131 minuti con narrazione in voce over di Welles stesso. L’ultima fase del lavoro si svolse a Miami con il montatore Robert Wise, poco prima che Welles partisse per Rio de Janeiro dove aveva in ballo dei progetti (piuttosto vaghi) per un film di propaganda bellica – qualcosa che avesse migliorato le relazioni tra Stati Uniti e America Latina. Welles e Wise prevedevano alcuni aggiustamenti minori prima di licenziare la versione definitiva, e una copia fu inviata all’hotel di Welles a Rio di modo che potesse esaminarla mentre si preparava a fare qualche ripresa durante il Carnevale e incontrare le ballerine a quella festa senza fine.

Welles andava matto per le ballerine. Si tuffò nel Carnevale e ignorò l’eventualità che a Los Angeles potessero esserci dubbi su I magnifici Amberson – dopotutto, usciva fuori da una depressione molto più cupa del romanzo di Booth Tarkington su cui il film si basava. Inoltre, Welles aveva spaccato il gruppo dirigente della RKO tra coloro che credevano in lui e coloro che lo ritenevano aria fritta. Era stato costretto ad accettare anche un emendamento al contratto di Quarto potere che gli negava il diritto di avere voce in capitolo sulla versione definitiva. Avrebbe quindi dovuto prevedere che alcuni dei suoi nemici alla RKO avessero potuto mettere le mani su I magnifici Amberson: sarebbe dovuto tornare a Los Angeles al primo segno di rogne, era qualcosa che doveva al film.

Invece restò a Rio e in sua assenza il film fu massacrato, gli fu persino appiccicato un fatuo happy ending. Pare che questa interferenza spezzò il cuore di Welles. Tornò negli Stati Uniti in tempo debito, ma senza la copia unica che Wise gli aveva inviato. Avrebbe potuto conservarla e depositarla in un archivio o in una cineteca. Chi l’avrebbe mai potuta rifiutare? La mera possibilità che esista da qualche parte a Rio, o nel più ampio Sud America, una copia in nitrato tra i serpenti riempie il cuore di esaltazione e inquietudine.

Forse Welles credeva che il fato avrebbe salvato il suo film, o forse era abbastanza melanconico da credere che dopo che il film perfetto, difficilmente la perfezione avrebbe potuto interessare ancora? Welles aveva già fatto il film perfetto secondo Hollywood: uno legato a uno studio, creato con devozione, innovativo e tradizionale al tempo stesso – e per giunta grazie a un contratto in bianco, come se allora fosse stato il più venerabile degli artisti e non un ragazzo scapestrato. Niente di strano che Hollywood lo odiasse. Niente di strano che caduta e perdizione fossero i suoi temi preferiti. Bisogna ricordare che Quarto potere è una canzone sul potere emotivo delle cose svanite – sebbene Kane possegga la famosa slitta, assieme a quasi ogni altro oggetto, nel suo magazzino, non ne conserva altro che il ricordo.

Poco prima di morire Welles disse: “Credo che il cinema – dirò una cosa terribile – non sia mai andato oltre Quarto potere. Non che non ci siano stati buoni film, o ottimi film. Ma tutto è già stato fatto al cinema fino all’esaurimento”. È un’osservazione terribile perché sfacciatamente immodesta o perché potrebbe essere vera? C’era in Welles un fatalista, un mago pieno di rimorsi che capì che anche il trionfo va in cenere? Forse ci fu persino un momento nella battaglia di Stroheim contro i produttori in cui il regista disse: “Benissimo, farò un film impossibile. E poi lo perderò”.

Alcuni devoti di Welles e Stroheim saranno infastidi da queste speculazioni perché preferiscono pensare i loro eroi come vittime di un sistema crudele. Ma il mio punto va oltre questi due casi.

La cultura cinematografica è cambiata parecchio. La tecnologia ci ha portato molto avanti e ha trasformato la storia del cinema in un archivio facilmente accessibile che riposa tra i nostri scaffali o nei nostri dispositivi. Ma questi film sopravviveranno alla ripetizione? O sono come frutta, dolce per i primi giorni e poi destinata a marcire?

Welles diceva di aver visto Quarto potere talmente tante volte durante il montaggio da non sopportare l’idea di doverlo rivedere. Immaginiamo che Casablanca, trasmesso da Turner Classic Movies già 130 volte, scompaia del tutto, eccetto che per un paio di still emblematiche e un passaggio di “As Time Goes By”. Immaginiamo che Scandalo a Filadelfia non fosse altro che un ricordo della vecchia Katherine Hepburn in cui si fa beffe dell’incendio al deposito che ha distrutto il film. “Oh, quel film era incredibile”, dice aggrappandosi a qualche ricordo sbiadito.

Memorie e frammenti rappresentano il sistema nervoso del cinema. Tutto può crollare su una battuta o una singola occhiata – come la bocca gigante che pronuncia “Rosabella” [“Rosebud”]. Durante i suoi ultimi quindici anni di vita, Welles stava realizzando un film di finzione, The Other Side of the Wind, che raccontava la storia di un regista, interpretato da John Huston. Quando Welles morì, le riprese erano state quasi completate, ma il produttore era parecchio confuso sulla salute dei propri affari. Nei tre decenni successivi si sono susseguiti diversi tentativi per venire a capo della questione dei diritti e concludere il film seguendo le disposizioni del regista. Anche questo film è diventato una leggenda, l’ennesima, grazie al fatto di essere perduto.

Ma adesso potremmo essere più vicini di quanto non siamo mai stati. Le questioni legali sembrano essere risolte. Il film deve soltanto essere montato e completato. Si era persino detto che avrebbe potuto aprire l’edizione di Cannes 2015, visto che il 6 maggio Welles avrebbe compiuto cento anni. Eppure, ancora ad aprile, nessun montatore era stato coinvolto, un finanziamento di una certa misura era necessario per la post-produzione e nessuno voleva distribuire il film.

Potrebbe essere un buon film? La sceneggiatura è molto lunga; i frammenti mostrati finora non sembrano essere coerenti; la maggior parte degli attori sono morti ed è impossibile girare di nuovo. Più di dieci anni fa ho visto un paio di sequenze completamente fuori contesto. Una era una scena di sesso, più candida ed eccitante di qualunque altra cosa Welles avesse mai realizzato. Era impressionante, ma non sembrava venire da un film di Welles.

Welles ha lasciato qualche istruzione, ma ha anche detto che il soggetto sarebbe potuto essere datato e considerava la possibilità di trasformare il film in un “film-saggio”. Ciononostante, la nostra bramosia esige qualcosa di completo e di grandioso. O potrebbe darsi che questo grandissimo mistero rimanga non distribuito – non esattamente perso, ma quasi per magia congelato nel tempo, come il trailer di un film che sta per uscire ma non esce mai veramente? Che il miglior modo per preservare la cultura cinematografica non sia assicurarsi che almeno qualche grande film resti dall’altra parte del vento?

(testo pubblicato per gentile concessione dell'autore; traduzione di Carlo Mezzasoma)