Dopo una carriera che definire prolifica è dire poco, più di quaranta film in altrettanti anni, dopo un Leone d’Oro alla Carriera, ricevuto nel 2014, dopo aver raccontato cinquant’anni di storia degli Stati Uniti d’America, dopo aver trattato, direi, più o meno tutti i temi legati all’umanità, aver esplorato una moltitudine di luoghi, ambienti in grado di introdurci ogni volta fedelmente a mondi diversi l’uno dall’altro, Frederick Wiseman, uno dei (se non il) più grandi documentaristi viventi, ormai ottantacinquenne torna, con l’ennesimo film-maratona (ben 190 minuti, meno del precedente At Berkeley ma più o meno nella media con la sua filmografia, specie i titoli degli ultimi dieci-quindici anni circa), a immergerci in un microcosmo unico.

Stavolta il maestro del Massachussets ci porta a Jackson Heights, nell’immenso sobborgo newyorchese di Queens, un quartiere popolato da circa centotrentamila anime. La particolarità di Jackson Heights è l’eterogeneità interculturale degli abitanti, che provengono dai più disparati angoli del mondo, prevalentemente Sud-Est Asiatico e Sud America, anche se nel film compaiono personaggi di varie parti del mondo. Immancabile, come sempre, l’italiano, il gestore di uno dei bar storici di Jackson Heights, protagonista di uno dei momenti più divertenti del film, la sua festa di compleanno. Si, perché anche in questo film Wiseman dimostra la capacità di immergerci nell’ambiente e di coinvolgerci in un turbine di personasggi e di situazioni che ci comunicano emozioni differenti. Alla fine del film si ha la netta sensazione di aver vissuto a Jackson Heights per, che ne so, un mese, di aver esplorato palmo a palmo ogni marciapiede, e di aver avuto la fortuna di imbatterci nelle situazioni più interessanti, che sono state in grado di restituirci la storia presente del quartiere e lo stato d’animo della popolazione.

Nella sua carriera di documentarista Wiseman si è fatto portatore di uno stile osservativo puro, ereditato dai maestri statunitensi e canadesi del cinema diretto. Con la sua troupe e il suo dispositivo di ripresa si posiziona in un contesto e osserva. E le cose accadono davanti al suo obiettivo, proprio come se lui non ci fosse. Il suo cinema resiste e incarna ancora quell’utopia della trasparenza che tanto documentario di creazione contemporaneo sembra aver ridimensionato, in favore di uno sguardo più interattivo e partecipe. Ma Wiseman resiste con il suo spirito di pura osservazione, che man mano diventa sempre più consapevole, abbiamo la sensazione che il suo lavoro si sia fortemente irreggimentato in un vero e proprio metodo universale di lavoro, che gli permette di ottenere il meglio da qualsiasi situazione. La durata del suo cinema, che negli anni si è dilatata sempre di più, testimonia del senso del dovere osservativo che permea uno sguardo documentaristico come il suo. Spesso egli si ritrova, senza intervenire in fase di post-produzione, a mostrare situazioni che si verificano in scene di anche venti, trenta minuti, senza staccare, proprio per rispettare l’integrità spazio-temporale che si ascrive allo stile osservativo, che proprio perché si assume la responsabilità di riportare ciò che si osserva vive, evidentemente, l’obbligo di farlo senza omettere. Nove settimane di riprese, dieci mesi di montaggio ad adempiere a questo sguardo documentario in senso letterale, totale, onnicomprensivo, in grado di produrre un racconto di centonovanta minuti dal ritmo serrato. Possiamo immaginare il lavoro di selezione e ricombinazione degli elementi in fase di post-produzione, la difficoltà di restituire il ritmo della vita attraverso il ritmo dell’immagine, compiendo un’operazione realistica. Naturalmente, sono vari gli espedienti narrativi che l’ottantacinquenne Wiseman adotta per tenere alto il ritmo del suo racconto: uno su tutti, il gettare lo spettatore in medias res, nel cuore di situazioni, racconti e dialoghi in cui siamo costretti a entrare ex-abrupto, senza paracadute. Così, per tutto il corso di tante delle lunghe scene del film, passiamo il tempo a cercare di capire, di contestualizzare, di appropriarci di ciò che il film ci sta dicendo. Un modo intelligente di includere lo spettatore nel racconto, di mantenere desta la sua partecipazione e di metterlo costantemente al centro del discorso filmico.

La dimensione sociale della situazione del quartiere prevale su tutti gli altri aspetti: Wiseman ci porta nelle sedute collettive in cui migranti provenienti dal Messico rivivono con dolore i rocamboleschi attraversamenti del confine meridionale, nelle esilaranti lezioni di scuola guida per gli aspiranti tassisti nepalesi nello scantinato di un alimentari, nelle riunioni di staff del consigliere comunale, così vicino alla cittadinanza, che cerca di risolvere i vari problemi amministrativi che affliggono il sobborgo, nei sit-in della comunità LGBTQ che lamenta atti di discriminazione alle riunioni per organizzare l’annuale parata LGBTQ, una delle più importanti  e seguite al mondo, nelle lunghissime riunioni dei comitati di quartiere contro la minaccia di speculazione edilizia e di gentrificazione che attanaglia il quartiere. Assistiamo a lunghissime riunioni in cui gli affittuari di esercizi commerciali e i residenti dibattono sulle modalità perverse con cui i “palazzinari” cercano di mettere le mani sugli spazi del quartiere abbattendo i piccoli esercizi commerciali per imporre grossi outlet e centri commerciali. Quella che vediamo riunirsi, agitarsi, parlare, è l’anima del quartiere che cerca di resistere al “progresso”.

A nostro avviso, è grazie al racconto che si snoda intorno a questa dimensione, è grazie al rapporto quasi uno a uno che Wiseman costruisce con i suoi interlocutori che usciamo da In Jackson Heights tutt’altro che sfiniti, con le sinapsi ben riattivate dalla sfida di seguire gli stringenti racconti e ragionamenti dei personaggi del film, spesso esposti in un inglese declinato volta per volta con accenti differenti, a seconda della provenienza di chi parla, e con la netta sensazione di essere entrati in contatto con il fascino, i problemi e l’anima di questo quartiere, di averne toccato con mano la ricchezza.